sabato 27 agosto 2011

Contro la speculazione edilizia


Mio nonno non amava la spiaggia, eppure aveva deciso di comprare un pezzo di terra negli anni ’70 a trecento metri dal mare e vi aveva costruito una villa.
Al mare non ci andava mai.
Qualcuno potrà pensare che l’avesse fatta per sua moglie, ma in realtà anche mia nonna il mare lo bazzicava poco.
Ci andava solo di rado portandosi la sua sediolina personale, si piazzava sotto l’ombrellone e cercava di resistere sbuffando.
Forse perché nessuno dei due sopportava il mare, avevano deciso di trasformare la villa in una specie di parco.
Avevano piantato pini, pioppi, larici, eucalipti, in pochi anni non era rimasto quasi spazio per il sole, le donne della famiglia andavano a abbronzarsi sulle terrazze del secondo piano, l’ombra trionfava.
Erano riusciti a realizzare una perfetta casa di montagna sulla costa.
Un pino argentato svettava più in alto di tutti, solo a guardarlo la temperatura scendeva di qualche grado.
Non ricordo sensazione più rinfrescante del passaggio dai trecento metri della strada, polverosa e non asfaltata, al fresco che sentivi appena ti avvicinavi al cancello.
L’aria condizionata non esisteva.
Per me la spiaggia era questa, a trecento metri dalla villa: potevamo saltuariamente fare qualche puntata in altre spiagge della zona, ma erano sempre spiagge straniere.
Le spiagge della Costiera Amalfitana, piccole e di sassi, per me sono sempre state inospitali.
Sono nato sulla sabbia.
La spiaggia della villa aveva il dono di essere lunghissima e larga, dietro c’erano canne e piante grasse, il rudere della torre di avvistamento in lontananza mi sembrava la mezza Statua della Libertà che Charlton Heston scopre sommersa nell’ultima scena del Pianeta delle Scimmie, uno dei più grandi finali della storia del cinema.
Quando ero bambino nei dintorni della villa esisteva solo un villaggio turistico sobrio e senza animazione, di fronte avevamo una discoteca in pure stile anni ‘80, piccola e con rassicurante giro di eroina sospetto, poi poche case di gente del posto.
Ogni anno però cambiava qualcosa: la discoteca divenne un albergo guadagnando un piano; il prefabbricato affianco si trasformò in autentica casa in muratura e si avvicinò pericolosamente alla recinzione della villa, sorgevano nuove abitazioni costruite in fretta e furia appena la stagione finiva.
I locali comprendevano che si poteva guadagnare con il turismo e cercavano di allargare abusivamente le loro case per quelli che mio nonno chiamava, con giusto sdegno, i villeggianti.
Ora tutta la strada è piena di case e in realtà non è ancora finita, ogni anno succede qualcosa di nuovo, sono stato costretto ad abituarmi alla speculazione edilizia: non astratta entità da combattere ma presenza concreta, visibile, accerchiante.
Il villaggio si è ingrandito comprando degli appezzamenti di terra dove prima c’erano sterpaglie, hanno costruito degli orrendi bilocali in calcestruzzo pensando che fossero una evoluzione del bungalow.
Sulla strada parallela hanno fatto delle villette appena più decenti come architettura ma sono comunque cemento, implicano in ogni caso auto, gente.
Detesto la densità italiana, il nostro paesaggio invaso dalla concentrazione di corpi, sono contrario al diritto universale alla seconda casa economica, all’appartamento al mare.
La densità è ancora più terrificante  nella mia regione, non c’è mai una pausa fra un paesone e l’altro; le città sono unite da negozi di elettronica, mobilifici, capannoni delle zone industriali.
Portici, Napoli, i derelitti paesi vesuviani si riversano qui da anni.
Famiglie troppo allargate si ammassano in appartamenti minuscoli, si abbuffano, guidano male le loro auto, sgridano i lori bambini obesi.
Ieri sul corso pedonale un energumeno con catena e camminata prepotente indossava una maglietta con scritto Don’t trust in Italian Justice (non fidarti della giustizia italiana).
La villa è una fantasia architettonica anni Settanta venuta male.
L’architetto aveva idee grandiose e fuori misura, aveva previsto angolo bar e stanza per cameriera, entrate principali e secondarie, i miei nonni avevano subito le sue proposte in modo passivo ma poi avevano democraticamente trasformato la camera della ipotetica cameriera in una specie di di sgabuzzino da usare come stanza da letto solo in caso di emergenza.
Cosa che poteva accadere visto che la famiglia era grande e spesso capitava che la villa ospitasse venti persone, fra fissi e frequentatori occasionali.
L’angolo bar invece era diventato l’antro oscuro dietro la televisione: una tana per ragni dalle gambe esilissime.
Le entrate principali e secondarie si confusero, e le scale di cemento rosso passarono dal rango di scalinata di rappresentanza a estremo limite per giochi in bicicletta o per imitazioni di Olimpiadi.
Corsa veloce fino alle scale rosse, dieci giri alle scale rosse andata e ritorno.

Dopo la morte di mio nonno fu decisa una turnazione fra i figli onde evitare conflitti di natura balcanica, così la villa è diventata più ordinata e vuota di come la ricordavo.
Mio nonno aveva classe, aveva fatto la terza elementare e si era fatto da solo senza l’arroganza di chi se la fa da solo ai nostri tempi.
Gli piaceva piantare meloni, albicocche, peschi, fichi.
Passava il giorno in villa con una pompa in mano, vestito con camiciole bianche e vecchi comodi sandali.
Una volta un tizio, stupito dal parco e vedendo il cancello aperto, entrò e gli disse: “Buon uomo, posso parlare con il suo padrone?", mio nonno rispose sorridendo:”Mi dispiace, il padrone è partito, torna solo fra qualche mese”.
I miei nonni avevano classe e passione per il kitsch, le due cose non sono sempre in contrasto.
A mia nonna ad esempio piacevano le fontane e così comprò una fontanella a due piani di marmo, con sopra un angioletto.
A una certa ora della sera chiedeva la sua accensione, come una specie di capriccio.
Restava a guardarla seduta da lontano.
Da anni lo fontanella non funziona più, la sua decadenza è iniziata dopo la morte di mia nonna.
Prima si sono fulminate le lampadine e nessuno le cambiava, quindi nessuno l’ha più coperta, come faceva mia nonna in modo affettuoso a fine estate, ora ho visto che si sta sgretolando, sarebbe pronta per essere gettata ma nessuno ha il coraggio o l’autorità di farlo.
A fine estate c’era questo lungo rito della chiusura della casa che io non capivo.
I lampioni del viale erano ricoperti da buste di plastica, le panchine e le sedie venivano spostate in casa, ogni cosa era riposta in bauli e chiusa a chiave.
Il rito avveniva ad inizio settembre, spesso capitava di farlo in un giorno grigio, che presagiva un autunno ancora di là da venire.
La chiusura della villa era qualcosa di definitivo, sotto il comando rigido dei miei nonni non era ammissibile un ritorno a settembre o ottobre, malgrado il clima ultra temperato del nostro Meridione.
I weekend fuori stagione erano eccezionali e avevano sempre qualcosa di precario.
Si apriva il minimo indispensabile, si preferiva mangiare dentro piuttosto che fuori, sedie e tavoli restavano impilati da qualche parte, e bisognava sempre dedicare qualche ora a spazzare il viale.
D’altronde la casa era stata pensata per il periodo estivo, non aveva nessuna comodità adatta all’inverno, il riscaldamento era stato progettato nei minimi particolari ma mai realizzato.
Restavano così spuntoni di ferro acuminato che erano gli attacchi per i termosifoni virtuali.
Con il passare degli anni gli alberi si sono seccati o sono stati abbattuti per svariati motivi,  non sono stati rimpiazzati adeguatamente, nel periodo d’oro ce n’erano talmente tanti da aver creato quasi un micro clima: nascevano nuovi alberi in modo casuale, alcuni alberi soffrivano della vicinanza con altri e crescevano storti, c’era qualcosa di tropicale in tutto questo.

Ora il sole si insinua da molte parti, so che a mio nonno avrebbe dato fastidio, avrebbe detto che ce n’era troppo, troppi spazi scoperti.
La pavimentazione del viale regge malgrado tutto ma di quando in quando crescono erbacce fra gli interstizi, gli intonaci avrebbero bisogno di un intervento drastico, un paio di tavoli sono stati sbriciolati dai tarli, l’arredamento si è impoverito con vecchi letti di seconda mano di varia provenienza familiare, è diventato eclettico.
I terrazzi sono agibili ma in realtà poco frequentati, si tendono a preferire sempre le stesse zone della casa, quelle che hanno un minimo di manutenzione, quelle più vissute e rassicuranti.
Io sono riuscito a sopportare gli scempi visivi e sonori che si sono susseguiti anno dopo anno: le urla dei bambini del villaggio alle nostre spalle, gli annunci degli animatori che richiamano gli ospiti al cabaret serale oppure alla partita di  scopone, i pilastri di cemento delle nuove abitazioni, le magliette, i costumi e perfino le mutande con stampati sopra riferimenti alle prodezze del Napoli Calcio.
Sopportavo tutto perché alla fine c’era sempre e comunque la spiaggia, anche se assediata da più parti. Gli ombrelloni dei villaggi si infittivano lasciandoci sempre meno spazio ma c’era sempre il mare dove rifugiarsi.
Il mare è rimasto pulito, non è questo il problema, non mi piaceva mica per questo, mi piaceva perché c’era un orizzonte libero, perché c’erano delle secche che ti permettevano di andare lontano lontano senza dover per forza essere un nuotatore provetto.
Così quest’anno quando sono arrivato per la prima volta sulla spiaggia e ho visto una barriera di scogli messa a far da battigia a 30 metri dal bagnasciuga, mi è sembrata una profanazione.
C’era un uomo sopra lo scoglio, aveva in mano addirittura una canna da pesca, e una barca ancorata appena più in là.
Sembrava un lungomare qualsiasi di una stupida località portuale.
Hanno messo una barriera di scogli artificiale per evitare che il mare si mangiasse tutta la spiaggia.
Anche qui il surriscaldamento globale e l’innalzamento conseguente del livello del mare non sono più una cosa astratta, un articolo allarmistico di quotidiano o un saggio ambientalista, sono diventate realtà concreta, visiva, intollerabile.
Speravo che il mare si vendicasse di ciò che gli avevano rubato, che straripasse d’autunno sulle case restituendomi la spiaggia intatta come l’avevo conosciuta.
La battigia per ora rimanda questo positivo desiderio di distruzione.
Forse devo rassegnarmi al fatto che la mia spiaggia non è più la mia spiaggia.
Le cose non possono durare per sempre.


martedì 23 agosto 2011

Contro il mal di mare


Mi piace viaggiare in traghetto, mi piace l’odore di cherosene appena arrivi a bordo, la vista sul porto dal ponte, il lento rollio sotto i piedi quando la nave si stacca dall’ancora.
Il primo traghetto di cui mi ricordo mi portava in Sardegna, ero un bambino, al bar un tipo suonava da solo con una chitarra acustica, fece alcuni pezzi di Jobim, fu grazie a lui che scoprii la bossanova.
I traghetti non sono cambiati molto, sono piuttosto insensibili al passaggio del tempo, a parte la nazionalità dell’equipaggio.
Sullo Spalato-Ancona ora sono tutti cinesi, parlano un po’ di inglese, d’italiano sanno lo strettissimo indispensabile (grazie, prego, i numeri per poter declinare i prezzi).
Ci sono cinesi a guidare il parcheggio delle auto, cinesi al bar a prepararti il caffè, cinesi alle casse del duty free che vende alcolici e sigarette a buon prezzo.
È una compagnia di navigazione low cost, sono convinto che risparmi molto sul personale, d'altronde sono in regola con la legge, siamo in acque internazionali e la nave batte bandiera panamense.
Anche qui c’è un tipo che canta al bar, non sembra neanche lui italiano, secondo me è colombiano anche se presumibilmente vive da molti anni nel nostro paese.
Quando entro sta suonando Arrivederci Roma, solo la melodia, senza parole.
Ha una pianola Korg e come accompagnamento dei ritmi da tastiera giocattolo, dopo canta I can’t help falling in love with you, in realtà canta soltanto per sé, non si avvicina al microfono, canta come se fosse in playback.
Negli anni ’80 tutti cantavano e suonavano in playback: nei programmi musicali, nei varietà televisivi, perfino al Festival di Sanremo, non c’era il rischio dell’imprevisto, tutto andava perfettamente liscio.
All’inizio c’era chi faceva gara a occultare al meglio la simulazione, anche se l’effetto poteva risultare comico visto che tutti sapevano della faccenda.
Dopo la cosa divenne così evidente che alcuni non cercarono più di nasconderla, sfruttavano l’occasione per fare azioni che mai avrebbero potuto compiere se avessero dovuto realmente cantare.
Stringevano le mani alle comparse degli studi televisivi, si facevano abbracciare dai loro fan, si buttavano per terra o facevano acrobazie fisiche che sarebbero state incompatibili con i loro acuti sonori.
La cosa più complicata era suonare in playback, per i chitarristi poteva diventare un’opportunità per virtuosismi impensabili, ricordo che la cosa riusciva particolarmente bene alle band di finto hard rock, ma era una autentica tortura per i batteristi.
Il tipo del traghetto, d’ora in poi lo chiameremo colombiano, canta una sorta di playback senza conseguenze visto che non c’è nessuna voce registrata quando muove le labbra, non canta live perché non è abbastanza sicuro della sua voce o ha paura del confronto con Elvis Presley.
La gente continua a fumare, i bar nei traghetti sono uno dei pochi posti in cui puoi tranquillamente farlo, e a guardare nel vuoto; aspetta che le ore passino, non lo ascolta, non lo applaude.
Il colombiano inizia a suonare Brazil, nei momenti più tristi c’è sempre qualcuno che ti vuole rifilare una samba, forse è un modo per esorcizzare il fallimento.
La nave è piena di pellegrini di ritorno da Medjugorie, prevalentemente napoletani e romani, sono divisi in gruppi.
Gruppo mariano 1, gruppo mariano 2, ogni gruppo corrisponde a un pullman, ce ne sono sette, hanno requisito buona parte dell’imbarcazione e sono maggioranza assoluta nel bar.
Sono di età più varia del previsto, non soltanto vecchie zie, ma anche qualche giovane nipote niente male.
La prevalenza è attorno ai sessant’anni ma non mancano i trentenni, decisamente i peggiori: mostri mediterranei dalla faccia pingue che giocano a briscola o scopone senza nemmeno guardare il pianista.
Intanto il colombiano finisce di suonare e fa partire degli applausi preregistrati, dovrebbero incentivare qualche battito di mani che non arriva, quindi mette un cd allontanandosi con una birra media chiara.
Sul cd parte un pezzo lento, una delle mie canzoni preferite, è in dialetto napoletano, si chiama Era de maggio, parla di un appuntamento che si danno due amanti allo scoppiare della primavera, il gruppo dei pellegrini resta catatonico.
Dopo ci sono canzoni napoletani allegre, più facili: Tu vuò fa l’americano e Tamurriata nera, interpretate da Renzo Arbore e la sua Orchestra Italiana.
Prima delle canzoni ci sono anche poche parole di Arbore che le presenta, dice il titolo del pezzo, è un live di successo, si sentono gli applausi in sottofondo.
Non c’è scempio maggiore perpetrato alla musica napoletana di quello che ne ha fatto Arbore con la sua Orchestra.
Ha trasformato dei classici in hit da ballo di gruppo, grazie ai suoi orrendi arrangiamenti sono diventate canzonette buone per emigranti di seconda generazione e amanti di un’Italia da cartapesta.
Renzo Arbore sta alla Napoli contemporanea come Roberto Murolo o Eduardo stava a quella di un tempo.
Qualcuno può dire che c’è di peggio, ad esempio il neomelodico ma quello è un bersaglio troppo ovvio, è solo la deriva del melodrammatico,  l’Orchestra Italiana invece rappresenta la spensierata dimenticanza delle radici, l’impoverimento della borghesia partenopea.

Renzo Arbore in differita ha molto più successo del colombiano dal vivo, i pellegrini cominciano a muovere le gambe, alcune signore cinquantenni smaniano.
Davanti alla tastiera c’è uno spazio circolare simile a quelle delle balere, piccolo ma non tanto da dissuadere dall’ingresso in pista.
Tre donne, infatti, vi entrano su un ballo sudamericano, gli altri pellegrini dai tavoli cominciano a commentare e mostrare interesse.
È una danza tipo Tiburon, con passi fissi, da automa, le tre sono piuttosto coordinate per quanto una di loro sia decisamente grassa, si conoscono bene, c’è complicità nei loro gesti, sono abituate a fare balli del genere in feste di paese dalla motivazione blandamente religiosa.
Dopo arriva di nuovo un pezzo di Arbore e all’improvviso scendono in pista vecchi e vecchie di cui quasi non me n’ero accorto, assieme ad alcune nipoti che appartengono alla categoria del sicuramente scopabile.
A questo punto il colombiano si rende conto che l’intervallo ha più successo della sua esibizione, armeggia con i tasti del lettore cd, scorre avanti precipitosamente, cerca un altro brano di Arbore. 
Nessuno lo applaude, non è un dj, assomiglia di più a quello che metteva le musicassette alle feste delle medie, una figura assolutamente marginale.

Resto lì aspettando che la suspense si spezzi, che arrivi il momento, prima o poi inevitabilmente dovrà arrivare, che il colombiano si risieda sulla sua sediolina nera e riprenda a premere i tasti della sua pianola.
In fondo è pagato per quello e qualcuno della compagnia potrebbe notare la sua scarsa prestazione e tagliarlo per la prossima stagione, o magari basta la delazione di un dipendente del bar.
Ed infatti dopo aver messo un brano di decompressione per rendere meno traumatico il passaggio, il colombiano ricomincia e a sorpresa questa volta canta pure.
Sceglie La Bamba, non ascolto attentamente il suo spagnolo perché potrei restare deluso dallo scoprire che non è abbastanza colombiano come pensavo, poi passa a Let’s twist again.
Sta usando tutta la voce che ha, non è molta, percepisco il suo sforzo per poter arrivare agli acuti, per poter mantenere la nota mentre per la prima volta i pellegrini si accorgono di lui e gli concedono qualche tiepido applauso di incoraggiamento; anche io faccio il tifo per lui, non la mia vicina di divanetto: una trentenne milanese con gli occhiali che se ne sta mezza sdraiata leggendo un romanzo terribile di un qualche autore tedesco o scandinavo.
Uno di quei libri con un titolo talmente generico che potrebbe parlare di tutto e in copertina una farfalla o un’altra immagine analoga per comunicare leggerezza, poesia, saggezza femminile.
La tipa è vestita Decathlon dalla testa ai piedi: porta pantaloni da jogging comodi, scarpe da ginnastica basse, felpa in poliestere adatta per trekking leggeri e traversate in mare.
Era venuta lì per leggere e fin quando il colombiano aveva fatto del sottofondo da filodiffusione tutto era andato bene, ma ora la situazione la stava urtando e si intuiva dallo sguardo nervoso che ogni tanto alzava dal suo libro.
E’ infastidita, anche se non si lamenta con sbuffi o commenti troppo ovvi; vuole assolutamente leggere il suo potenziale best seller che parla di cose che non la riguardano nemmeno lontanamente e, pur senza guardarmi, le dà fastidio anche la mia partecipazione emotiva all’evento.

Il colombiano ora ha preso coraggio ed è passato a eseguire un medley di Rosamunda e una polka famosa, i pellegrini ballano in coppia, per fare un dispetto alla milanese inizio a riprendere con il telefonino l’intera scena.

Nemmeno cinque minuti e la ragazza, dopo essersi guardata attorno per un’ultima volta cercando una via d’uscita impossibile, prende il suo zaino rigorosamente Decathlon, adatto per brevi escursioni e viaggi notturni adriatici, e si allontana.
In fondo la nave è talmente grande che un posto tranquillo e sufficientemente confortevole per leggere il suo maledetto libro non farà di certo fatica a trovarlo.
Peccato, avrebbe potuto guardarmi almeno una volta se voleva esprimere riprovazione, di colpo mi viene in mente il viaggio in traghetto per raggiungere le isole greche a vent’anni, la nave fino a  Patrasso, quella che si prendeva dal Pireo.
Le ragazze sole come lei ma con zaini ben più grandi e pesanti, senza nessun libro da leggere, i loro sguardi incrociati sul ponte, le occasioni mancate per timidezza.
Forse c’erano regole diverse ma chi aveva il biglietto passaggio ponte davvero dormiva fuori, chiuso in un sacco a pelo, era quasi impossibile trovare giacigli al coperto e di solito erano talmente scomodi che si preferiva sopportare ore di vento e umidità.
Mi sembra che nessuno su questo traghetto dorma sul ponte, magari solo perché non è stracolmo, magari perché le regole sono cambiate, o magari sono cambiato io.
Il colombiano continua a fare pezzi veloci ma ancora per poco, evidentemente a una certa ora bisogna cambiare e passare a brani più tranquilli, la compagnia desidera che i passeggeri se la spassino ma senza esagerare.
Così il colombiano cambia ancora genere, riconosco l’intro di Dancing Queen degli Abba, penso che torni ad essere muto ma il tipo mi sorprende di nuovo, inizia a cantare, ha deciso di rischiare il tutto per tutto, rovina la canzone che deve tutto alla voce della solista, ma la rende anche perfettamente disperata.
Quindi mira ancora più in alto, inizia a cantare New York New York, ha esaurito il carburante e al posto della strofa that never sleeps starnutisce, ma va avanti senza fermarsi un attimo, senza esitare o chiedere scusa.
La gente d’altronde è tornata ai posti, è indifferente, nemmeno si accorge dell’incidente, l’energia dei pellegrini è crollata di nuovo anche se i sessantenni si scambiano ancora qualche frase, strascico dei balli precedenti.
Quelli più vecchi e quelle più giovani sono di nuovo spariti, forse sono andati in cabina, forse sono da qualche altra parte del traghetto, di sicuro non sul ponte.
La situazione non mi sembra più così sopportabile, inizio a chiedermi cosa ci trovo di così interessante nelle vicissitudini altrui,  perché sia così attratto dalle situazioni fallimentari e dai personaggi in disarmo, mi chiedo che vita faccia il pianista.
De Gregori aveva dedicato un brano crudele ai pianisti di piano bar credendosi infinitamente meglio di loro, era uno snob già allora e stava iniziando anche a diventare un trombone insopportabile.
Non voglio essere come lui, mi chiedo come sia venuto quel raffreddore al colombiano, se sia colpa di tutte queste traversate.
Intanto lui ha iniziato a suonare I will survive, non canta l’inciso ma sul ritornello non riesce a trattenersi, si avvicina al microfono, dice che sopravviverà.
I pellegrini sono soddisfatti e acquietati, la milanese sta leggendo il libro da qualche parte in sopraccoperta.
Esco sul ponte, la luna è bassa e rossa, il mare è completamente calmo, la nave scivola via senza far rumore.
Se il colombiano continua a sopravvivere a tutto questo ed ha pure la forza di cantarlo, non vedo proprio come non ce la possa fare anch’io.

domenica 21 agosto 2011

Contro l'autodeterminazione dei popoli


Il ragazzo è ubriaco ma non troppo, mantiene ancora la lucidità sufficiente per provare a spiegarmi il motivo per cui i serbi avrebbero ragione e il resto del mondo torto.
Si scusa per il suo inglese basico, spera che io capisca ma non c’è molto da capire. La sua è una sintesi che non aiuta a chiarire nulla.
Dice vengo dalla Bosnia ma dalla Bosnia serba, sono serbo, mi sento serbo.
Dice serbi buoni, croati no.
Dice comunisti in Jugoslavia no good, forse comunisti in Italia good, ma in Jugoslavia no good.
Dice fascisti no good.
Mussolini no good, Tito no good.
Quindi, viste le sue difficoltà con la lingua, prende il telefonino e scrive 1992, anno di inizio della guerra in Bosnia.
Ha vent’anni, è convinto che io non sappia nulla della guerra o che comunque mi sia fatto un’idea molto sbagliata.
Dice che non sappiamo bene quello che è successo in Kosovo e che il nostro governo ha sbagliato a riconoscerlo.
Annuisco aspettando che la finisca, mi saluta sorridendo, chiede scusa per il suo inglese e per la sua spiegazione, dice italiani good, your government no good, but you good.
Sono a un festival di musica balcanica in mezzo alla campagna serba, anche il clima è estremo: caldo afoso di giorno, freddo umido di notte.
Non ho mai visto tante bandiere serbe, qualcuno le sbandiera per strada, altri le portano sui berretti militari, qualcuno mi spiega che hanno un complesso significato storico ma non lo approfondisco, le bancarelle vendono magliette con sopra facce che non conosco.
Abbiamo affittato una camera appena fuori dal centro, i nostri vicini sono un gruppo di ragazzi milanesi che suonano musica balcanica.
Hanno capelli rasta, barbe, occhiali neri, un paio di loro sono subito intenzionalmente antipatici con noi, non sopportano che troppi italiani abbiano scoperto il festival o forse ci considerano troppo neofiti.
Vengono qui da diversi anni ma per la prima volta potranno finalmente esibirsi sul palco, lo faranno l’ultimo giorno, nella sezione dedicata agli stranieri.
Provano con le loro tube, trombe e tromboni nel giardino davanti casa.
Suonano cose orrende: cover in stile balcanico di Volare e altri brani italiani, a volte fanno variazioni stile jazz, pensano che nobiliti la loro performance.
Hanno tutto del sinistrorso borghese: volti, modi di fare, battute, luoghi comuni, d’altronde la musica balcanica da noi è una musica da centri sociali, non c’è da meravigliarsi.
Sono ciechi, non si rendono conto o fingono di non vedere che qui è roba da nazionalisti.
In una piazza i ragazzotti dal cranio rasato, abbarbicati ad una statua, urlano slogan per Ratko Mladic e altri criminali di guerra.
Quando parte un brano patriottico aumentano applausi e grida.
Alcuni chioschi mettono ad alto volume la musica turbo folk, la gente balla con entusiasmo.
La regina del turbo folk serbo si chiama Ceca, era la moglie del compianto Generale Arkan, autore di genocidi e stupri etnici.
Ovunque ci sono girarrosti sui quali rosolano pecore, maiali, vitelli; non abbiamo alternative, mangiamo ogni giorno della carne e inizio a pensare che l’aggressività possa essere legata al suo consumo, come sostengono sempre i vegetariani.
La carne te la danno in involti di carta e la afferri con le mani, costa pochi dinari serbi.
Abbiamo nel portafogli dinari serbi, dinari macedoni, kune croate, marchi convertibili bosniaci, siamo diventati esperti di tassi di cambio e di procedure doganali.
Nelle terre di nessuno fra le due dogane ci sono bandiere enormi, inversamente proporzionali all’importanza dello Stato.
Ad esempio quando entri in Macedonia c’è un vessillo gigantesco, penso che il loro governo abbia un problema con le dimensioni.
Nella capitale Skopje, visto che non avevano un centro storico monumentale, hanno pensato bene di farsene uno, così stanno costruendo un parlamento in stile neo-classico all’ennesima potenza ma le colonne sono di cemento armato perché non hanno abbastanza soldi per farle di marmo.
Di fronte hanno piazzato una statua gigantesca di Alessandro il Grande in sella a un cavallo ghignante e dalla bocca larghissima, una signora orgogliosamente sostiene che lo ha costruito una azienda di Faenza.
L’autodeterminazione dei popoli era di moda a inizio anni ’90, si creavano nuovi Stati e tutti erano contenti di riconoscerli: nuovi scranni all’ONU, nuove inutili diplomazie, nuove banconote con facce di poeti e scrittori sconosciuti.
Con la scusa dell’autodeterminazione e dell’etnia spesso ci si divideva per motivi biecamente economici.
Io fui per l’autodeterminazione solo per pochi mesi, poi capii che l’ansia di ogni popolo ad avere una nazione era una trappola, non c’entrava niente lo spirito risorgimentale.
Dividi ricchezza e resta povertà spirituale, mi sembra che sia questa la lezione dell’ex Jugoslavia.

D’altronde io ero cresciuto con la Jugoslavia e mi sembrava uno stato autentico, non una costruzione a tavolino ideata dopo la Prima guerra mondiale, come sostenevano gli opinionisti.
Croati, serbi, sloveni erano parole che avevo visto solo nei libri di storia o in orrende poesie ottocentesche lette a scuola.
La Jugoslavia era uno dei paesi leader di quel blocco indistinto che si definiva dei non allineati, un terzo blocco neutrale ma dalle aspirazioni divergenti che non incise mai sull’influenza delle due superpotenze.
Di certo l’esperimento slavo era strano, i suoi cittadini potevano viaggiare senza problemi per l’Europa, c’erano accordi e scambi commerciali con gli Stati Uniti, era una forma di comunismo autarchica e apparentemente molto efficace.
Alcuni parlarono di miracolo jugoslavo perché lo sviluppo economico del paese dal 1945 al 1980 fu straordinario, si basava su città medie e piccole dai nomi sconosciuti.
La notte prima di arrivare al festival ho dormito in una di queste anonime città: Uzice.
La guida diceva che era famosa per una fabbrica di armamenti che costruiva 400 diversi tipi di proiettili.
Prima era quasi a metà strada fra Belgrado e Sarajevo e si trovava al centro della Jugoslavia, ora è alla periferia della Serbia, è lo scherzo che fanno i  nuovi confini, ti spostano il baricentro e le città sono le prime vittime.
Alle tre di notte stavamo facendo un giro in auto alla ricerca di piccole insegne con su scritto hotel e non ci eravamo accorti che sopra di noi si stagliava la sagoma imponente dell’albergo Zlatibor.
Un palazzo altissimo che somigliava a un missile pronto al decollo, lo vedemmo solo usciti fuori dalla città.
Il portiere ci diede le chiavi di una camera al quattordicesimo piano, l’ultimo, in effetti era proprio l’ultima camera in assoluto, in fondo al corridoio.
Si saliva su un ascensore che arrivava fino al dodicesimo, poi bisognava per forza continuare a piedi.
L’ascensore era grigio e coperto di graffiti come se fossimo in un film ambientato nel Bronx alla fine degli anni Settanta.
La moquette rossa era staccata in più punti e coperta di macchie, la porta si apriva con una normale chiave e non con le card magnetiche in dotazione agli alberghi contemporanei.
La moquette della camera era arancione, identica a quella della stanza dove da bambino giocavo a Subbuteo, per terra.
Non eravamo giocatori da tavolo, sulla moquette potevi essere più rapido nei movimenti, non dovevi girare attorno al tavolo per poter colpire, tutto era più spettacolare; in compenso la pallina scorreva più lenta, era come giocare a calcio sull’erba alta, come sui campi in Brasile.
In Italia le partite del calcio brasiliano le trasmetteva Tele Capodistria, forse perché gli jugoslavi erano chiamati i brasiliani d’Europa visto che erano fortissimi dal punto di vista tecnico e incostanti da quello caratteriale.
Quando ormai la moquette fu inesorabilmente fuori moda per colpa delle paranoie igieniste e della allergie da acari e anche nell’ultima camera di casa mia arrivò il parquet, il Subbuteo cominciò a svanire.
In tutte le case di colpo si cambiavano i pavimenti, non eri nessuno se non avevi almeno delle mattonelle di ceramica di prima scelta, ormai a giocare restavano solo i seriosi giocatori da tavolo.

La camera dell’albergo Zlatibor continuava ad avere la moquette; se avessi avuto con me un campo verde, due porte e ventidue giocatorini di plastica mi sarei messo a giocare da solo.
La camera d’albergo aveva anche un telefono arancione voluminoso e con la tastiera a disco, sembrava una parodia di quel telefono rosso che si diceva mettesse in comunicazione diretta i presidenti di Usa e Urss, invece serviva per una chiamata alla reception per avere toast o whisky che mai arriveranno.
Sul comodino il depliant prometteva lussi che da tempo l’albergo aveva perso.
Un ristorante con cucina nazionale e internazionale, un bar nel quale erano disponibili i migliori liquori e cocktail, una terrazza con vista panoramica sulla città e un servizio 24 ore su 24 di risposta solerte della portineria ai tuoi desideri.
La foto del depliant era stata scattata negli anni Ottanta, si capiva dall’abbigliamento di un passante sullo sfondo, erano vecchi depliant che continuavano a esistere solo perché nessuno era come me, nessuno aveva il desiderio di portarseli a casa.
Il soggiorno all’hotel Zlatibor non è cosa di cui ci si vuole ricordare e a Uzice non ci sono più le convenzioni con il Partito o con qualche ente industriale pianificato.
Turisti non ce ne sono e le camere sono quasi sempre vuote.
Il letto era identico a quello che aveva un mio zio, grigio e nero, con dei tubolari ingombranti dall’aria equivocamente avveniristica.
Ora vanno di moda letti di legno chiaro oppure minimali letti in stile asiatico.
Le regole scritte sul retro della porta d’entrata erano diverse da quelle degli alberghi medi di tutto il mondo: era possibile avere uno sconto sulla tariffa giornaliera se restavi per meno di otto ore e il check out era incredibilmente tardi, all’una, un check out da rock star finalmente, non quei check out alle 10 che ti obbligano a comportarti da bravo ragazzo o a fingerti tale.
Anche il balcone sulla città era perfetto per depressioni da cantante in crisi, aveva un parapetto basso, ideale per suicidi scenografici.
Il giorno dopo scesi per le scale e ad ogni piano c’era una lampada dal design troppo complicato, quasi tutte erano fuori uso.
Arrivato al quarto mi accorsi che in realtà l’intero piano non era più adibito a hotel.
La moquette era stata quasi completamente staccata, le camere erano sottosopra, ingombre di oggetti provenienti dagli altri piani, le porte  divelte e  senza segni di ristrutturazione in corso.
Sono sempre stato attratto dagli alberghi falliti e dismessi, ogni volta che ne vedo uno mi viene voglia di entrare e mettermi a esplorarlo, ma non avrei mai pensato di dormirci dentro.
L’albergo stava morendo ma la malattia aveva raggiunto solo il terzo piano, il quattordicesimo era temporaneamente risparmiato.
Arrivai al piano terra, c’era un enorme bancone vuoto, forse l’ex bar che serviva cocktail esotici, alcune poltrone di cuoio maestosamente lise, da una porta mezza aperta si intravedeva una enorme sala vuota, presumibilmente il fu ristorante con menu internazionale.
Alla reception i portieri erano insonnoliti anche se era mezzogiorno inoltrato, registravano clienti su computer con sistemi operativi obsoleti e guardavano pigramente un canale televisivo che trasmetteva video musicali di pop jugoslavo di trent’anni fa.
Non faceva alcuna differenza se i cantanti con le acconciature improbabili erano serbi, croati e sloveni.
Erano comunque tutti jugoslavi.

giovedì 18 agosto 2011

Contro La Madonna


Hanno messo uno strano segnale turistico-religioso all’inizio della statale che porta nel Cilento.
C’è scritto Benvenuti in Cilento, terra di Maria.
È un segnale fatto di ceramica colorata,  quella che vendono ai turisti tedeschi spacciandola per armamentario mediterraneo.
Sopra c’è un’immagine della Vergine Maria ritratta al centro di colline e mare, non riesco a capire quanto sia usata come mezzo di promozione e quanto sia invece una goffa delimitazione del territorio.
La Madonna mi è sempre stata cordialmente  antipatica, anche da bambino.
Ho fatto le elementari dalle suore, non erano così male, o almeno la mia era piuttosto brava.
Non esagerava mai con le punizioni, aveva ben chiaro chi fossero  i buoni e i cattivi nella Seconda Guerra mondiale, non si dilungava eccessivamente in recite di preghiere e richieste di fioretti.
Era comunque una scuola religiosa, ad esempio era previsto l’insegnamento a memoria di canti dedicati a un’oscura santa francese, patrona del loro ordine, si chiamava santa Giovanna Ardita o qualcosa del genere.
E ovviamente in tutto l’istituto c’erano crocifissi e brutti quadri raffiguranti un Cristo asettico, ben lontano dall’hippie fricchettone e donnaiolo che intuivo dalla lettura del Vangelo.
Un Cristo Re, vestito in abiti lussuosi e con i capelli ben pettinati e quasi vaporosi, quel Cristo che ogni tanto si vede in certi adesivi affissi sopra i camion.
C’era anche una vetrata disegnata, sopra una raffigurazione del paradiso terrestre con Adamo ed Eva tentata dalla mela; il serpente si attorcigliava attorno al suo corpo puntando dritto al seno, piccolo, ma straordinariamente ben fatto.
Era la prima rappresentazione del sesso di cui ebbi esperienza, molto prima di Edwige Fenech e le suore ne erano state complici loro malgrado.
Nella mia personale classifica dei personaggi religiosi Gesù era nettamente al vertice, poi venivano gli apostoli, soprattutto San Pietro e San Paolo oppure personaggi sottostimati come San Giovanni Battista.
Già allora non capivo perché venisse data tanta importanza alla Madonna, sia nelle preghiere che nelle raffigurazioni.
E poi tutta quella sofferenza inferta al povero Giuseppe, costretto a rimanere sempre in ombra e senza poter nemmeno fare l’amore.
Fatto ancor più grave se consideriamo che la Madonna  è una mora niente male, curata e giovane, sicuramente desiderabile per un giovane falegname di buona struttura fisica e di prorompente energia.
La Madonna mi insospettiva, con tutti quei riferimenti alla verginità che non capivo e quella sua faccia atteggiata sempre a una rassegnata sofferenza, aveva il volto di una frigida.
Alla Madonna si dedicano più feste che a Cristo, Gesù ha il privilegio delle feste maggiori (Natale e Pasqua), ma ogni paese ha una madonna da venerare. Ci sono madonne di fiumi e di laghi, di montagna e di mare, sono portate in processioni un po’ ovunque, e sono sempre loro ad apparire a pastorelli e bambini.
Sono loro che consegnano profezie e segreti, che piangono sotto forma di statuette di marmo a  basso costo, che si materializzano come ombre nelle roccaforti più superstiziose del mondo.
I pellegrini conservatori e timorosi pregano la Madonna, la sentono più vicina alle loro abitudini.
Ci sono anche madonne laiche e trasgressive, quelle che venerano puttane e travestiti, madonne in stile Almodovar, ma sono  nient’altro che Marie Maddalena con il nome cambiato: una eccezione.

Così le madonne sono quasi sempre le autentiche star dei luoghi di culto cattolici, quei posti dove si organizzano orge di pellegrinaggi a ciclo continuo: Lourdes, Medjugorje, Fatima.

La Madonna può assumere mille sembianze, cambiare luogo di nascita, patrocinando così i più disparati eventi: dalla festa di quartiere alla sagra gastronomica, dal concerto in piazza al miracolo rionale.
Gesù Cristo è un nome troppo impegnativo  da spendere.

La prima e unica volta che sono andato a Lourdes avevo sei anni, ero con i miei, facemmo con degli amici di famiglia un viaggio in Francia e Spagna; partimmo con una Fiat 124, all’epoca non c’erano ancora gli aerei low cost e nessuno si preoccupava della fragilità di motori e cambi.
In quel viaggio restammo in panne varie volte ma non per questo era un’emergenza, nessuno parlava una parola di un’altra lingua, si comunicava con difficoltà.
Ci furono alberghi belli e stamberghe, ristoranti buoni e ristoranti pessimi,  si incontravano furbi e generosi come accade quando viaggi davvero,  ho ricordi frammentati, quelli che può avere un bambino di sei anni.
Lourdes però mi restò impressa, non avevo mai visto tanti paralitici, erano ordinati in file, scendevano dai treni e dagli autobus e non si parlava ancora di barriere architettoniche.
Faceva freddo perfino d’estate, la cittadina si trova sui Pirenei ma allora mica lo sapevo, so solo che ci arrivammo per una strada stretta di montagna.
C’erano dei burroni sotto ed ebbi la mia prima sensazione di vertigine, ancora oggi qualsiasi strada di montagna percorsa mi sembra niente rispetto a quella, nessuna strada mi potrà più restituire la stessa sensazione.

Eravamo a Lourdes fuori contesto, non avevamo nulla da chiedere, c’eravamo perché la coppia di amici dei miei aveva deciso che la Prima Comunione delle loro due figlie dovesse celebrarsi lì.
Così le due bambine si misero un vestito da quasi sposa bianco, portato sicuramente dal paese di provenienza, e compirono questo strano atto di ingresso nella Chiesa nel posto meno indicato per farlo.
A Lourdes non ci sono più tornato ma ho visto un film bellissimo di una regista austriaca che raccontava di un gruppo di pellegrini, dei volontari e delle crocerossine, e dell’inconsistenza del miracoloso.
Di Medjugorje ne ho sempre sentito parlare in modo indiretto.
So che è diventata di moda negli ultimi anni, mi sono capitati in mano depliant che promuovevano il viaggio sacro oppure casualmente ne ho sentito il nome soffermandomi ad ascoltare, sconcertato, Radio Maria.
Ancora la Madonna, sempre lei a prestare il nome a una radio ultra-conservatrice.
Le sue antenne trasmittenti hanno una potenza di fuoco incredibile, le vedo quando vado al lago di Martignano in mezzo alla rilassante campagna romana: enormi, sembrano realizzate per entrare in comunicazione con entità aliene, riescono a far ascoltare la parola travisata di Dio anche dentro le gallerie.
Radio Maria parla spesso di Medjugorje ma io sapevo solo che era da qualche parte nell’Est, non conoscevo precisamente in che zona dei Balcani si trovasse.
Non lo sapevo fin quando non ho visto qualche giorno fa un segnale stradale che la indicava: era un segnale turistico e aveva anche l’effigie della Madonna; ero appena uscito con l’auto da Mostar, Bosnia.
La Bosnia Erzegovina è uno stranissimo stato, unito ma diviso in entità diverse: in fondo è già un miracolo, questo vero, che esista ancora dopo gli eccidi degli anni ’90.
C’è una repubblica della Bosnia serba e poi una Repubblica della Bosnia autentica, quella multiculturale a prevalenza musulmana dove c’è Sarajevo, ma con una forte minoranza croata che non ha mai accettato veramente di esserlo.
Il presidente cambia ogni otto mesi, è a turnazione fra le diverse etnie, e c’è un alto rappresentante dell’ONU che supervisiona e spesso decide al posto dei litiganti.
Ti accorgi di dove ti trovi dalle bandiere, ad esempio vicino Medjugorje ci sono solo bandiere croate e nessuna della Bosnia.
Mostar dista trenta chilometri appena da Medjugorje.
Mostar fu distrutta prima dall’assedio serbo e poi dai paramilitari croati.
Il centro storico è stato ricostruito, è patrimonio dell’inflazionatissima Unesco, ma basta svoltare un angolo e ci sono palazzi distrutti.
Mi piacciono i palazzi distrutti ma solo quelli che muoiono per morte naturale, non di morta violenta come quelli, distoglievo lo sguardo appena potevo.
Invece guardavo i ruderi con le finestre vuote in periferia quando passavo in auto, visti in movimento facevano meno impressione, erano armonizzati con il panorama  in un qualche modo macabro.
È una terra bellissima, piena di fiumi che scorrono in mezzo a gole, sembra assurdo che fino a quindici anni fa si trucidassero senza pietà e che nei boschi ci siano ancora mine inesplose.
La vicinanza di Medjugorje al confine fra Croazia e Bosnia mi fece sospettare che, come ogni buon miracolo cattolico, anche questo fosse stato creato per uno scopo ben preciso.

La strada verso Spalato per fortuna non passava da Medjugorje, non ero nella disposizione d’animo giusta per vederla, ma all’imbarco del traghetto c’erano vari pullman di pellegrini, la nave perfino rendeva omaggio alla Madonna, si chiamava Regina della Pace, come è denominata per uno strano scherzo del destino quella di Medjugore.
Tornato a casa  ho fatto un po’ di ricerche sull’argomento e ho scoperto che i veggenti di Medjugorje erano sei, che le prime manifestazioni straordinarie avvennero nel 1981, un anno dopo la morte di Tito e quando stavano risorgendo i nazionalismi a fondo religioso.
Inoltre il santuario francescano che ha certificato il miracolo, durante la Seconda Guerra mondiale, sostenne gli ustascia nazisti e i loro massacri dei serbi, e in tempi recenti h i paramilitari che cingevano d’assedio Mostar passavano dal santuario per farsi benedire.
Ovviamente non sanno nulla i pellegrini italiani, vanno lì con le loro croci e le loro madonne sulle collanine, sono prevalentemente del Sud Italia: terra di processioni, terra di Maria.
Dopo un paio di ore di navigazione erano meno seriosi, mi sembravamo soddisfatti della gita ma anche di  tornare, scherzavano, accennavano dei passi di balli di gruppo, le avranno imparati in parrocchia.