sabato 25 febbraio 2012

Contro nomadi (digitali)


Quando lavoravo al tg una volta è arrivato un tizio a presentare un libro che stava facendo parlare di sé.
Si chiamava Perotti, il libro si  intitolava Adesso basta, quando diceva adesso basta intendeva dire basta lavorare, o lavora in modo diverso.
Mi dovrebbe essere stato simpatico visto che sono contro l’elogio del lavoro a ogni costo, contro ogni morale ed etica basata sulla fatica, sull’impegno costante per ottenere dei risultati ma non fu così, la coerenza non è sempre una virtù.
Si presentò in redazione vestito casual elegante, quarant'anni, barbetta, si guardava continuamente le scarpe e sorrideva in giro con aria di superiorità.
E' il solito tipo che faceva il dirigente e infatti orgogliosamente ricorda nelle sue quarte di copertina il suo lavoro figo, era arrivato al vertice e aveva mollato tutto, gratifiche economiche e psicologiche, per iniziare a fare lo skipper, era ancora fiero del suo passato e d’altronde il suo passato lo marchia a vita, non ha scampo.
Il suo ego lo accerchia da tutti i lati.
Se lavori anni in una azienda multinazionale e riesci a salire tutti gli scalini fino ad arrivare su qualche cima e guadagnare stipendi, ottenere viaggi in business e sorbirti i complimenti dei tuoi capi senza vergognarti, sei finito in partenza.
Iscriverti a una setta buddista, scappare da qualche parte, andare a circumnavigare il mondo come un Vasco de Gama in fibra di carbonio, non ti può più salvare.

È finito il tempo della conversione, dei San Paolo sulla strada di Damasco, dei cambiamenti di vita, se in questo sistema sei pasciuto fino alla marcescenza non puoi più tornare indietro.

Malgrado i tuoi orribili gilet da vela, resterai sempre il dirigente e arrampicatore sociale che eri, d’altronde in Italia la vela è uno sport per gente di entroterra.

Sei un po’ più asciutto di prima, più atletico certo, hai le lentine al posto degli occhiali da sfigati che portavi prima, quelli ultraleggeri da manager.
Ma la sostanza resta la stessa.
Poi finisce che scrivi un libro, il libro viene pubblicato da una casa editrice importante che crede in te e cavalca l’onda, finisce che hai successo e vieni invitato a parlare della tua filosofia trita e ritrita e il ciclo si chiude.
La tua vita di prima ti assale da ogni parte, ne parli per contrasto ma ne sei invischiato sempre.

Ci sono questi nomadi digitali, ora, sostengono che puoi lavorare dove vuoi, non mettere radici mai, è la loro filosofia di vita, utilizzare le risorse del web per viaggiare lavorando.
Sul loro sito foto di portatili e smartphone su spiagge tropicali, al lato cocktail dall'aria caraibica, è l'aggiornamento 2.0 del vecchio e mai tramontato sogno dell'aprire un chiringuito in Centro America.
Citano Twain, Chatwin, soliti noti riferimenti, ma anche Perotti.

Parlano di libertà, di coraggio, di scelta che contrasta con le regole del consumismo, non ne capisco bene le ragioni, i loro accessori tecnologici e i lavori prospettati da piccolo imprenditore free lance, da consulente informatico, fotografo o giornalista mi sembrano assolutamente organici alla società contemporanea, a tutti i suoi vizi.
Le foto degli esempi di chi ce l’ha fatta sono sorridenti e ritoccate, creano illusioni e frustrazioni, mi fanno ritenere
che in fondo sono degli egoisti, se tutti mettessero la libertà prima di ogni altra cosa non ci sarebbe condivisione, amore, mi sembra che se la vogliano solo spassare.
La loro libertà significa sempre calpestare i sentimenti di qualcuno, di una donna, di un uomo.
Se si innamorano cosa fanno, lasciano la donna o la portano con sé? Vorranno mai avere un figlio o un cane, sono futuri separati, futuri divorziati, futuri ex amanti, lo scrive uno che non ha il minimo rispetto per la famiglia tradizionale.

Pochi riescono a viaggiare ed essere centrati in se stesso, di solito è gente che sarebbe centrata anche se ferma in un posto per trent’anni.
Il viaggio quasi mai cambia le cose, ho conosciuto troppi idioti che hanno percorso il mondo senza essere minimamente maturati.
Un amico mi chiese una volta se non mi annoiassi dopo un po' a viaggiare, non ci impiegai tanto per capire cosa intendesse.
Le eccezioni ci sono, ovviamente, ma sono poche ed invece i nomadi digitali incitano tutti ad esplorare le proprie molto presunte capacità,  i loro consigli sono quelli tipici dei manuali di auto aiuto che vendono negli autogrill secondo i quali tutti hanno qualità nascoste e possono migliorare la posizione lavorativa.
La triste verità è che molti non hanno queste qualità e anche quando ce l’hanno, troppe volte nessuno le noterà.
La triste verità è che non tutti i lavori possono farti girare e che sarebbe giusto starsene a casa, anzi in alcuni casi sarebbe davvero doveroso.


C’era ad esempio sto idiota del couchsurfing che viaggiava da mesi e all’inizio pensavo che la cosa fosse interessante e invece quando ci parlavi capivi che conosceva solo un po’ di labbra di donne e qualche piatto etnico, per tutto il resto era un bambino viziato in cerca di attenzioni, un idiota completo senza speranze che il viaggio aveva reso ancora più ebete e schiavo delle tentazioni del nuovo, succube dei nuovi posti dove dimenticare la suo vuotezza siderale, i suoi traumi irrisolti, la sua nullità.

mercoledì 22 febbraio 2012

Contro il Carnevale


Non mi è mai piaciuto il carnevale.
Da bambino avevo un costume da scozzese con uno strano bastone bianco, non sono mai stato un principe azzurro ma non ho rimpianti, qualche volta penso di essere stato un cowboy ma non ho ricordi, nelle foto di me in costume non devo avere un volto felice, devo essere imbronciato.
Ora lo faccio per posa, allora era broncio vero, autentico broncio da bambino.
Una volta a  dodici anni finii in una specie di piccola discoteca cittadina destinata ad un precoce fallimento.
Era una festa in maschera di adulti in cui era tollerata anche la presenza di pochi bambini, ebbi la mia prima traumatica esperienza con i cotillon e un mix brasiliano di samba del tipo più commerciale che da allora associo all’adulterio borghese.
Un’altra volta io ed un gruppo di compagni di classe ci vestimmo tutti da setta, avevamo diciott’anni, camminammo su una strada a scorrimento veloce come fantasmi, sopra scritti dei numeri a caso, facevamo dei versi mentre andavamo a ballare della musica anni ’90.
Non mi piacciono i coriandoli, non mi piace la samba, preferisco la bossanova, non ho nessuna attrazione verso i carri o Rio, ma nemmeno subisco il fascino di Venezia e dei costumi lussuosi.
Sfidare il destino non è stato forse così intelligente.
Organizzare una festa di carnevale, esordire come dj scegliendo di mixare della brutta musica senza vergogna.
Sono vicino alla porta d’ingresso e sto scolandomi un bicchiere dopo l’altro di vodka ed energy drink, bevo intrugli da ragazzino ma so che non mi faranno sembrare più giovane: alle feste mi sembra che il tempo sia troppo compresso, che mi stia sempre per perdere qualcosa, preferisco gli incontri casuali senza scadenza, l’organizzazione mi rovina il momento, riesco a godermi solo la vigilia.
Se so che te ne andrai fra un paio di ore sono già oltre, devo sapere che non c’è un orario sicuro, che potremmo anche continuare a parlare all’infinito.
Sto bevendo e parlo male con la gente vestita da personaggi del cinema, dico alcune frasi, poi vado via, mi preoccupo perché la gente non balla, mi preoccupo perché nessuno è interessato al montato che scorre sulla parete in fondo.
Cinquanta minuti di immagini tratti da film, le solite sequenze classiche inframmezzate da qualcosa che avevo inserito di più personale, la parte finale ha un senso che solo io conosco e che nessuno mai comprenderà.
Il cinema è sopravvalutato a volte, ma in alcuni casi serve a superare certe notti.
Era febbraio ed ero stato scaraventato dal caldo al freddo.
Ogni mattina la maledivo nella doccia ripetendo una frase cattiva come una litania, ogni mattina rimanevo sotto l’acqua calda molto più del necessario per far passare il tempo e aspettare una specie di illuminazione.
Avevo ripreso quasi immediatamente a cercare di conoscere gente nuova, andavo a cene, mi distraevo.
Le sere che non avevo nulla da fare, però, non riuscendo a leggere nuovi libri senza che l’impresa mi sembrasse titanica,  cercavo su internet film d’autore da vedere in streaming.
Passavo così le serate guardando film fino a tarda notte,  stordendomi di Truffaut e di cose che avevo sempre evitato di vedere o che avevo dimenticato.
Mi segnavo le frasi migliori, le sequenze che mi colpivano,  ogni tanto mi veniva da piangere, ma quasi sempre sorridevo o applaudivo silenziosamente
Quei film mi hanno salvato, mi costringevano a dormire di meno, a non essere completamente vulnerabile.
Quando qualcuno dice che i film servono per intrattenere, penso a Checco Zalone e al suo film che vidi in albergo a Buenos Aires, non so come diavolo mi venne l’idea di guardare una commedia italiana in streaming  mentre lei era sparita e non rispondeva al telefono.
Stavo cadendo nel luogo comune del cinema come mezzo di evasione, qualcuno mi aveva detto che Zalone era stupido ma faceva ridere, non era vero, lo vidi diligentemente fino alla fine anche se non mi divertiva e la connessione del wifi dell’albergo saltava in continuazione mentre l’ucraino alla reception mi assicurava che era tutto a posto.

Mi ricordo sempre dei film notturni quando c’è qualcosa che non va, so che a qualsiasi ora sono disponibili in quella miniera della rete che può essere salvezza o tormento, lì c’è tutto, c’è  quello di cui hai bisogno.
Cerco pellicole non viste di Bergman, film etichettati come intellettuali dai luoghi comuni, gli stessi che mi spinsero a vedere Zalone.
Parlano della vita e non fingono di parlarne.
Una volta per caso sono incocciato in un film degli anni ’90, Clerks, che era stato considerato una specie di gioiello all’epoca, vinse anche qualche premio, l’ho trovato noioso, i dialoghi erano banali e inutilmente brillanti, tipico di molte commedie indipendenti americane.
Dialoghi ben costruiti che non hanno nessuna vera corrispondenza con la vita, mi immagino lo sforzo degli sceneggiatori mentre li scrivono, le loro interminabili cogitazioni sul momento giusto per far pronunciare al protagonista un’espressione piuttosto che un’altra.
No, decisamente non sono film da vedere di notte per evitare pensieri stupidi.
Un pensiero stupido è affrontare una persona mentre sei vestito da quella specie di pompiere che mette al rogo i libri in Fahrenheit 451,  dopo che ti sei bevuto quattro cocktail di vodka e pseudo Red Bull nel giro di dieci minuti.
Un pensiero stupido è affrontare una ragazza che non sembra nemmeno lei, pallida di cerone, con una smorfia nera da pagliaccio: Edward con mani di forbice economiche.
Burton è un regista di culto per giovani come lei, perfetto per ispirazioni da carnevale ed in mezzo a qualche film decente  ha avuto la sfrontatezza di rovinare uno dei miei film preferiti, Il Pianeta delle Scimmie, e di deturpare quella favola infantile che era Willy Wonka trasformandola in un kolossal con effetti speciali inutili.
Sono in piedi, discuto con Edward, la scena sarebbe assurda a guardarla da fuori, ma sono troppo ubriaco per rendermi conto di questo aspetto.

Poco prima ero passato dalla consolle alla pista senza soluzione di continuità. Avevo messo un pezzo e l’avevo terminato ballando, ero anche scivolato ma ero stato abbastanza ragionevole da evitare l’ultimo cocktail che mi avrebbe completamente reso inservibile.
Così ora ero lì, davanti a lei, da qualche parte stanno divertendosi e gridando, non me ne rendo conto.
Lei mi ferisce senza avere bisogno delle forbici, definisce la mia energia negativa, mi chiama distruttivo, uno che non si rende conto, me l’hanno già detto in passato, sulla distruttività sono anche d’accordo ma questa cosa dell’energia non riesco ad accettarla.
Le dico che  è intelligente, molto, ma la cosa non le importa, quasi l’infastidisce, per l’ennesima volta mi ripete che dò troppa importanza all’intelligenza, lei non sa che farsene e non vuole essere considerata in questo modo, le fa paura la originalità della sua mente, forse vuole sembrare inoffensiva e solare, essere considerata buona e pari agli altri.
Così in fondo non farà mai fatica a trovare fratelli nel mondo.
Non accetto gli abbandoni, è un mio problema, vorrei che tutte le persone restassero sempre, deve essere una cosa che avevo già in fase pre-natale, nulla che possa risolversi con sedute di psicoanalisi.
Scoppio a piangere, Edward non sa che fare, non era scritto nella parte che le hanno dato. Per lei la vita sembra facile e semplice, non contempla questo genere di complicazioni, sa farsi scivolare addosso le cose, è un’altro tipo di anima.
Mi dice qualcosa sul fatto che non si merita tanto, poi mi tocca le lacrime con una mano, non è da lei, ha una freddezza del corpo che contrasta con il calore di ogni sua espressione.
Quindi mi bacia sulla guancia, chissà cosa prova mentre sente le lacrime sulle labbra, se ha uno scatto di compiacimento, non sono mai stato bravo a consolare qualcuno, non so cosa si provi, che tipo di perversione può essere.

Mi guarda con gli occhi asciutti e preoccupati, i troppi cocktail rendono la visione poco lucida, non posso essere certo di niente, è come un nastro che salta e io cerco disperatamente di tenerlo aggrappato a me.
Non so nemmeno se mi abbraccia lei o sono io a fare la prima mossa, sicuramente da ubriaco mi abbandono come non riesco mai nella mia vita da sobrio, lei non ha quasi bevuto e deve sentire la mia disperazione patetica.

Non è solo colpa mia, l’età è complice.
Quando hai 35 anni tutte le cose ti sembrano più maledettamente importanti,  ti aggrappi ad ognuno come se fosse una ciambella di salvataggio, ogni cosa ti sembra un’opportunità da non perdere e finisci per spaventare la gente e quelli che di anni ne hanno 25.
Si spaventano, non ti capiscono.

mercoledì 8 febbraio 2012

Contro gli insulti


Qualche mese fa ero stato coinvolto in un diverbio a San Lorenzo.
Eravamo tre e stavamo per andarcene a casa quando una tipa grossa, sudata e venditrice di fumo iniziò ad alternare moine per spacciare la sua roba ad accuse inesistenti di oscenità a un ragazzo che era con me.
Era ubriaca e fumata, le dissi di lasciarci in pace e lei si arrabbiò, mi disse che non ero buono a scopare, le risposi che certo non mi sarei mai scopato una come lei, si avvicinò e mi gettò del vino sulla giacca.
Mi dava fastidio l’odore del vino da due soldi e il fatto che avesse intaccato una giacca che riceveva complimenti costanti da occasionali conoscenti.
Mi dava fastidio il suo accento romano, incidentalmente notai il colore nero della pelle, strideva con il volgare modo di strascicare le vocali che hanno solo certi romani contemporanei che frequentano il quartiere un martedì qualsiasi d’autunno inoltrato.
Forse mi dava fastidio il fatto di essere stato colpito davanti ad altri o ero frustrato dal non poter alzare la mani contro una donna, malgrado si meritasse una lezione fisica.
Le diedi della puttana e della nera, tutti gli stereotipi repressi quasi perfettamente in anni di buonissima educazione erano usciti fuori ed ora ero davvero pienamente umiliato davanti al mondo.
Me ne andai accompagnato dallo sguardo inquieto di occhi a cui tenevo, sentivo di aver perso il controllo come troppe volte ho fatto con le ragazze che ho amato o mi hanno amato, con amici, conoscenti, estranei.
Un poliziotto scese da un’auto poco distante e mi chiese cosa era successo, spiegai l’aggressione, il vino versato sulla giacca, mi chiesero se volevo sporgere denuncia mentre andavano a calmare la venditrice di fumo, me ne andai a capo mezzo chino.
Appena giunto a casa confessai l’accaduto nel mio status di Facebook come se questo servisse a qualcosa, qualcuno commentò, spiegai male in poche righe cosa era successo, non se ne proferì più parola.
La ragazza che era con me ed aveva assistito alla scena un paio di volte ci tornò indirettamente, malgrado la sua presunta cattivissima memoria che all’occorrenza ha sempre dato prova di strabilianti capacità di rievocare  dettagli non tanto insignificanti quanto crede; lo fece in buona fede, con il suo sarcasmo così poco consono alla sua età, ma che lei sostiene di possedere da sempre.
La cosa l’ho dimenticata, quando vado a San Lorenzo non mi guardo attorno alla ricerca della nera che sicuramente continua a vendere il suo fumo da quattro soldi, eppure evidentemente dovevo riscattarmi e l’occasione giusta per farlo si è presentata ieri sera.

Ero sul marciapiede della metro quando ho visto un tipo pelato e grosso, il classico energumeno romano fascista, avvicinarsi con fare ben più che minaccioso a un trio di asiatici dalla faccia butterata e la nazionalità indistinta, non cinesi, non giapponesi, non filippini, di qualche parte del sud est asiatico di cui non saprei definire con precisione la collocazione.
L’energumeno aveva la peculiarità di avere un divisa da metronotte e sopra il braccio una fascia gialla dell’Atac che gli dava una sorta di ufficialità blandamente imposta e niente affatto rassicurante.
Il metronotte diceva all’asiatico che aveva sbagliato, si avvicinava pericolosamente al suo volto,  chiedeva ragione di un suo sguardo aggressivo, di una mancanza di rispetto ipotetica, intanto con la mano quasi gli toglieva il cappello.
La sua frase preferita era vuoi che ti insegno a vivere, eh?vuoi che ti insegno a vivere?
Il suo insegnamento di vita era andare fuori e picchiarsi da uomini, l’asiatico era magro e poco propenso allo scontro, sembrava un vietnamita spaurito da film di guerra americana, uno di quelli che chiedono pietà in ginocchio nei villaggi bruciati dal napalm, una comparsa.
Gli altri due asiatici dicevano che il loro biglietto era in regola come per scusarsi e il pelato insisteva, diceva che la gente come loro non la vogliamo più nel nostro paese, partiva la solita tiritera da pubblico indignato in dibattito televisivo.

Altri tre metronotte erano accorsi giù, attenti che il loro collega non esagerasse con le mani ma poco propensi a interrompere il monologo, lo approvavano.
La banchina era piena di curiosi che erano pronti a parlarne su Facebook appena rientrati a casa e io mi sono messo a fare domande.
Cosa era successo?
Perché dovevano passare dalla discussione personale ai luoghi comuni più insultanti e generici?
Le mia parole erano precise, mi muovevo in modo scattoso forse, da uno che ha perso la calma, ma le domande erano ben indirizzate e il gruppo dei metronotte lo sapeva.
Erano sulla difensiva, due erano quasi pronti a dileguarsi, a lasciare perdere, temevano reprimende ufficiali, diffide, piccoli problemi per le loro famiglie sventurate.
Un collega del pelato si è avvicinato a me dicendo che non avevo il diritto di intervenire, che non potevo sapere cosa era successo, che stavano lavorando e loro non mettevano bocca mica sul mio lavoro.
Il lavoro, questo ombrello che copre le oscenità più ripugnanti, sempre, da sempre, erano in servizio, stavano lavorando, stavano eseguendo dei compiti, non potevano essere trattati così da questi stranieri.
Il pelato urlava una parola che non capivo, si allontanava di pochi passi dal trio come per sbollire una tensione.
Poi quando ha capito che ero pronto a fare sul serio, è venuto verso di me cercando di incutere timore, stava lavorando, era in divisa, loro erano stranieri e non potevano guardarlo male, si giustificava.
Intanto l’altro mi diceva si scosti, usava una espressione da questurino, burocratica, di cui non conosceva bene il significato, con quell’uso del lei servile che gli hanno insegnato per mettersi la divisa.
Non mi sono scostato, sono rimasto fermo mentre gli altri metronotte se ne andavano verso le scale mobili.
Una ragazza ha detto all’asiatico: io sono contenta che tu sei qui, mi capisci? sono contenta che vivi in Italia.
Gli asiatici comprendevano ma non sembravano scossi dalla rivelazione, è passato il treno, siamo saliti.
La ragazza mi ha lisciato il pelo sostenendo che avevo fatto benissimo, ero stato un grande, era pronta anche lei a intervenire, ma l’avevo anticipata, pensava che avessi ripreso la scena con il telefonino perché stavo armeggiando con quello mentre discutevo.
L’ho dovuta deludere, ho un vecchio telefonino, nessun smartphone e comunque non avrei ripreso la scena per postarla su Repubblica.it
La ragazza è protesa alla soluzione mediatica, l’unica appresa dal mondo,  parla di chiamare un numero verde contro il razzismo o qualcosa del genere, cerca di recuperare il numero verde dell'azienda di trasporti pubblici ma il segnale non è dalla nostra parte.
Il ragazzo che era con lei sembrava intimidito, si sentiva in colpa per non aver dimostrato il mio coraggio, volevo dirgli che tutti nella vita siamo codardi e vigliacchi, che non c’era da essere deferenti nei miei confronti, invece per pochi minuti ancora ho recitato la parte dell’eroe da strapazzo, lo stupido orgoglio che si riaffaccia ad ogni minima occasione.

Tornato a casa ho scritto qualcosa sullo status di Facebook e ho pensato che forse la neve mi sta rendendo davvero migliore.
Venerdì è prevista un’altra bufera, la aspetto fiducioso.

lunedì 6 febbraio 2012

contro il sole (che scioglie la neve)


I giornali titolano Roma in ginocchio.
Le polemiche stanno per cominciare ma non mi toccheranno, sono contento.
Vedo in Internet un film di Bergman, per molti versi è disperato ma è così bello che non comunica angoscia, solo una forma di gratitudine.
Applaudo su alcune scene; il mio applauso, muto al cinema, a casa può diventare finalmente rumoroso.
Fuori c’è silenzio, crescerà man mano che le ore passeranno e le auto non potranno circolare.
Le istituzioni dicono di rimanere a casa almeno di non avere urgenti necessità, ci vogliono al calduccio, mentre sdraiati sul divano guardiamo le loro televisioni, la loro emergenza incessante, ansiogena.
Parla il ministro e guardo i fiocchi cadere, fa una dichiarazione il sindaco ed invito la neve a cadere più forte, a fargliela vedere.
Fra poco uscirò quasi per dispetto, non ho alcun timore del ghiaccio, intanto butto fuori degli urletti, potrei star diventando pazzo o bipolare, mi tengo stretta l’euforia.
Si può essere felici per un messaggio che arriva anche se non cambia nulla, e per questa poca neve che travolge la città e ne ottiene il silenzio.
L’anno scorso a dicembre ci fu una spolverata di neve, durò soltanto mezzora, non incise sul traffico né sul mio umore, scattai delle foto poco convinto dalla finestra di casa mia, lei nemmeno mai le vide.
Era dall’altra parte dell’oceano e teoricamente aspettava ansiosamente il mio ritorno, avevo brutti presentimenti, ho paura delle mie sensazioni, non riesco a sfuggirle.
L’anno scorso il cortile rimase giallo sporco, i frigoriferi del supermercato continuarono a ronzare, quest’anno invece per fortuna chiuderà causa clima.
La gente domani mattina cercherà un supermercato aperto per potersi rifornire di scorte per la fine del mondo che inconsapevolmente auspica ed il mondo sarà diviso fra chi cercherà disperatamente un supermercato aperto e chi girerà per la città come me, senza far nulla di speciale.
Cammino di notte, le luci artificiali sembrano più umane, ad ogni passo mi sento meglio.
Prendo la metro strapiena assieme a tre amici, ci inerpichiamo su una strada ordinaria, ha un fascino che non hai mai avuto né mai più avrà, c’è un mini market aperto, i bengalesi salvano il mondo vendendo birra e vino scadente, mentre gli altri negozianti chiudono precipitosamente le saracinesche.

Anche sotto casa il chiosco è diventato più invitante, mi viene voglia di comprare ogni tipo di verdura e di frutta commestibile, le arance lucidano brillanti.
Prima mi sono collegato con il mondo,  ho mandato messaggi, di solito si fa in caso di addii, invece l’ho fatto per dire arrivederci a persone amate, per dire che in fondo non ci lasciamo mai completamente, che le cose non finiscono mai del tutto.
Solo M. non riceverà mai miei segnali ne li manderà, resterà un mistero imperscrutabile come questa neve che viene da un posto lontano ed è per questo tanto bella.
Sento di voler essere misericordioso, accettare i più stupidi.
Ora sono felice per ognuno, per chi fa tango nei centri sociali di periferia, per chi si dichiara attore di teatro e lo fa malissimo, per chi prova a far ridere e sbaglia tutte le battute, per chi sogna di andarsene in un altro paese e lo dichiara in modo ingenuo.
Potrei anche andare a cena con i più antipatici e trovarci qualcosa di buono, parlare con il più idiota e scovargli una qualità che lo renda degno di attenzione.
Ora mi sento maledettamente umano, in pochi secondi enuncio i miei propositi per il futuro prossimissimo.
Parlare della neve mettendoci dentro tutto: la vita, il mio passato, il mondo e il rovescio delle cose.
So che dovrei scrivere subito perché l’ispirazione non può essere trattenuta da pochi appunti presi velocemente, soprattutto quando scrivi sotto l’effetto di una illusoria felicità che è più simile a un’allergia.
Ho appena lasciato San Pietro e mi viene di usare parole poco usate e perfino brutte, termini come traslare, nemmeno so perfettamente come definirle, non so esprimere quello che provo.
So che i miei propositi e la mia generosità banalmente si scioglieranno appena il sole deciderà di uscire.
Già la neve sta sciogliendosi, le statue sopra i palazzi del centro diventeranno i soliti oggetti di pietra, per me muti e non per loro colpa.
Per fortuna fuori dal centro storico la neve dura di più e il sole invernale non è ancora abbastanza forte da cancellare i segni del suo passaggio.
Per un po’ avrò totale fiducia nel mondo, come un bambino o un maestro.
Durerà un paio di giorni e poi finirà un qualsiasi lunedì in cui le radio e la tv diranno che è tutto a posto, che siamo tornati alla normalità.

giovedì 2 febbraio 2012

Contro i poster







Davanti alla filiale della banca c’è affisso un poster.
Lui e lei si baciano, lei 23 lui 30, c’e scritto così.
1000 sogni, desiderio realizzarne uno.
Il desiderio è il mutuo.
Mi sento di colpo proprietario di casa e senza desideri.
Le banche puntano molto sui sogni dei giovani, negli spot coppie innamorate si prendono per mano, corrono per le strade di città storiche toscane, si presentano dietro gli sportelli fiduciosi.
Nei loro album di Facebook mille pose sorridenti, da soli,  in gruppo, abbracciati, mi danno l’esatta percezione di dove avrebbe potuto essere la felicità.
C’è stato un tempo in cui credevo che in alcuni posti ci fosse la felicità.
Immaginavo si nascondesse in un appartamento di una città portuale qualsiasi del Nord Europa, in qualche luogo intravisto in un film, perfino nell’arredamento di alcuni soggiorni o di bar sconosciuti che mi facevano sentire di essere arrivato finalmente a casa.
Mai pensato che fosse in una giungla oppure in una spiaggia tropicale, ho sempre avuto troppo rispetto della felicità per credere che fosse così facilmente raggiungibile.
Ovviamente anche le mie erano illusioni, la felicità non ha nulla a che fare con la disposizione dei mobili o con l’illuminazione degli ambienti malgrado il desiderio ostinato che ciò accada.
Il desiderio della gente che si aggira all’Ikea, quello che si condensa in tazzine coordinate dai colori allegri.
Da quando ho smesso di farmi illusioni non mi interessa più essere altrove, sono molto più radicato nei posti dove resto.
Non perché li senta miei, continuo a perdermi a Roma anche se ci abito da anni, non capisco la ubicazione dei vicoli e delle strade strette, non ho ancora imparato le scorciatoie per andare più velocemente da un posto all’altro nel centro storico.

Ieri sera Roma era deserta, il gelo l’aveva svuotata di colpo ed io camminavo con la solita andatura dubbiosa di chi non ha la chiara idea di dove sta andando, il mio passato ad un passo.
Le sofferenze che mi aveva provocato erano così remote eppure sono le stesse che mi hanno sempre ferito, che mi continueranno a ferire sempre.
Tutti i bar sembravano vuoti anche se c’erano poche persone sedute agli angoli, era tutto fisso, il mosaico della chiesa di Trastevere a zero gradi spiccava in modo insolito.
Nessuno seduto sugli scalini della fontana.
Le chiedo della sua vita in modo insistito, forse per non farmi chiedere della mia, non è mica un incontro facile, potremmo non avere nulla da dirci, potremmo trovarci insopportabili.
È reduce da anni di impegno, prima era più frivola, anche se già sapevo che quella frivolezza non le apparteneva.
Riconosco la sua risata, il modo nel quale la sua lingua guizza fra i denti quando si compiace per qualcosa.
Mi racconta dei suoi ultimi anni, i pezzi sono inevitabilmente frammentari, mi dice della sua casa in un paesino fuori città, si sta bene, è in campagna.

Tornato a casa, leggo che c’è stata una polemica.
Monti ha detto che fare sempre lo stesso lavoro è monotono, il posto fisso è noioso, bisogna cambiare, ha perfettamente ragione.
Non mi interessano le implicazioni socioeconomiche, le discussioni sul precariato,  ha esistenzialmente ragione.
Bisogna cambiare, mi dico, la crisi è una parola troppo seria per essere utilizzata nella stretta attualità; la crisi ha a che vedere con cinte di contenzione, con parole ripetute davanti ad uno specchio, con le piccole litanie che ripetiamo da anni senza nemmeno accorgerci che stiamo diventando fragili.
Non riesco a dormire, non sono preoccupato per qualcosa in particolare, penso alla coppia del manifesto, a tutti i miei coetanei, anche ai più estranei, vorrei smetterla di pensare a me, una volta per tutte.
Farei di tutto per dimenticarmi ed annullarmi.
Quando lo faccio nessuno se ne accorge, mi intrometto nei dettagli delle vite altrui, in quello che mangiano, è un modo per dichiarare che mi preoccupo per loro.