martedì 27 dicembre 2011

Contro due canadesi



Le due canadesi restano a casa tutto il giorno.
Una ha venti anni, l’altra trenta, ma quella ventenne ne dimostra di più e quella trenta di meno, così paiono coetanee.
Sembrano anche sorelle: stessi capelli tinti male, stessi maglioni sformati, stesse pance prominenti, sono imbruttite malamente per loro stessa mano, sono colpevoli della loro apparenza quanto la natura.

Rimarranno a Roma per tre giorni, stanno attraversando il mondo per il loro grande viaggio.
Hanno girato già mezza Europa ma, confuse, non sanno restituirmi nessuna impressione degna di rilievo.
Dopo andranno ad Atene, dà lì partiranno in direzione del Sud Est asiatico.
Sono sempre stato diffidente verso questi lunghi viaggi con tappe di quattro giorni in ogni posto, attraversamenti bulimici del globo terrestre incitati dall’abbassamento delle tariffe aeree e dalla connettività globale.
Sono un couchsurfer ovvero ospito estranei alla ricerca di sistemazioni gratuite e conoscenze con i residenti locali, da un po’ non ospitavo gente così avevo accettato la loro richiesta.
Avevano detto che il mio profilo era interessante, stimavano i miei gusti cinematografici, volevano discuterne, basta qualche lusinga al tuo ego sotto forma di e-mail per convincerti a dire sì.
Ho offerto loro il mio divano letto in soggiorno e di notte sento che stanno guardando a basso volume delle serie televisive in streaming.
Fanno le quattro davanti ai loro computer portatili, ridono a strappi come iene ben pasciute.
Ci fu un periodo che anche io guardavo serie, S. era sempre informata sulle nuove uscite dei network statunitensi, si occupava del download con la fibra veloce, cercava episodi e sottotitoli in italiano, alcune volte le guardavamo assieme, altre  volte se le vedeva da sola.
Di tutto quel periodo mi sono rimaste un sacco di immagini inutili per la mia esistenza, molti superficiali sorrisi e vani apprezzamenti per le battute e i dialoghi ben strutturati, mi capitava di osservare le serie come fossi un esperto o un futuro sceneggiatore.
Per qualche mese con S. avemmo anche l’idea di idearne una, la volevamo intitolare il Localino, aveva come protagonisti un gruppo di amici che prendevano in gestione un bar nel quale avrebbero fatto lavorare soltanto nani.
Reclutammo perfino un paio di persone che avrebbero dovuto aiutarci a scrivere la puntata pilota, lavorai su una autentica bibbia dei personaggi con caratteristiche della personalità, vizi e virtù, e albero genealogico, da qualche parte devo ancora conservarla, era una follia a pensarci oggi ma non era male allora.
Ora non guardo più le serie anche se sono nel mio appartamento cittadino e ne avrei tutto il diritto, mentre ste due pigre dal culo flaccido ed enorme non trovano niente di meglio da fare che passare la notte a vedere tutto: serie horror e di fantascienza, comedy e poliziesche.
Sono di quelle tipe che non fanno distinzione, ogni tanto ti sorprendono perché cadono in deliquio per un film davvero degno di essere omaggiato ma in realtà si abbuffano di ogni cosa, si deliziano a starsene ore imbambolate davanti a uno schermo, solo in questo modo sopportano la vita che per loro è anche più dura vista la loro inerzia e il loro aspetto.

Hanno anche in troppa alta considerazione il cinema.
Il cinema è quasi sempre una perdita di tempo, a volte un eccitante utile per passare qualche ora, un distraente come può esserlo il gioco d’azzardo o la masturbazione
Soprattutto quando si tratta di film gradevoli e vacui, sia d’autore che commerciali.
Più sono gradevoli e ben scritti, spesso, e più sono una autentica perdita di tempo, e pure una sottile manipolazione.
In fondo grandi uomini hanno vissuto senza mai aver visto un film, ne hanno  fatto tranquillamente a meno.
Tutti quelli morti prima dei Lumiere ad esempio, anche i miei scrittori preferiti del ‘900 andavano mica tanto al cinema, preferivano recarsi nei teatri di rivista.


Le due canadesi restano alzate invece a fare le ore piccole davanti al loro cibo audiovisivo a buonissimo mercato, in tutto simile agli snacks dolci e salati che le hanno trasformate in balene spiaggiate.
Poi si svegliano tardissimo la mattina e non hanno più voglia di uscire, hanno freddo anche se vengono da Vancouver, rimangono a casa a bere tè, bevono tè a vagonate, mettono a scaldare l’acqua nella pentola grande per la pasta.
All’inizio ero quasi convinto che fossero lesbiche, in questo modo mi sarei spiegato le loro nottate e la loro pigrizia assoluta e invincibile, ma quando mi esposero chiaramente la loro eterosessualità raccontandomi dei loro mezzi ragazzi semi idioti che avevano lasciato in qualche sobborgo residenziale, le stimai ancora meno.

Sono andati sprecati i miei consigli di itinerari, sia quelli turistici che faccio per le visitatrici medie, alle quale propongo il solito giro Pantheon Piazza Navona Campo De Fiori con conclusione in Trastevere, sia quelli più alternativi nei quali promuovo zone meno conosciute dagli stranieri o segnalo qualche indirizzo per bere un buon caffè o mangiare un discreto gelato.
Loro dicono che va bene così, anche stare in casa di un italiano è un’esperienza nuova, si stupiscono di qualsiasi abitudine e di qualsiasi novità:
l’ascensore piccolo e dall’aria antiquata, poco affidabile, con le doppie porte che rendono l’apertura macchinosa e lenta; il particolare modo nel quale si accendono certe luci, la insolita conformazione della rubinetteria.
Tutte le abitudini di un posto nuovo ti fregano, ti danno l’illusione che ci sia un mondo più interessante, quando hai imparato a capire il trucco diventi insensibile a tutto, il viaggiatore medio è spesso alla ricerca disperata di questa bugia.

E’ il loro modo di viaggiare mi dicono quando chiedo se non hanno proprio curiosità di andarsene a spasso, così tanto per camminare,  intanto si connettono ad ore alterne con i loro laptop per comunicare con le famiglie o gli amici che si interrogano sulla loro avventura.
Se definissero i miei suggerimenti di itinerari come borghesi e conformisti, le applaudirei a scena aperta ma loro non vagano nemmeno per strade qualunque del quartiere.
Una ragazza recentemente mi ha convinto di quanto sia utile e salutare camminare per ore, evita in modo assoluto metro e autobus, forse proprio il suo continuo trotterellare a velocità costante la rende radiosa.
Fuori nemmeno piove, ma le canadesi restano tappate in casa a preoccuparsi di un eventuale sciopero che farebbe ritardare il loro volo.
Questi viaggiatori si trovano bene soltanto negli scali aerei fra un'attesa e l’altra, ecco perché sono sempre così ossessionati dalle regole sui bagagli da portare in stiva, dalle pratiche relative al check in e dagli orari delle navette fra stazioni ferroviarie ed aeroporti.

giovedì 22 dicembre 2011

anni '30


A che ora ti svegli domani mattina?
Oggi a che ora ti sei svegliato ?
Quante ore hai dormito?
Sono domande che mi hanno sempre dato fastidio
Mi sembrano invasive dei miei ritmi biologici o della mia situazione esistenziale.
Vado a dormire quando mi pare mi verrebbe di rispondere, forse mi infastidisco perché sono un ex insonne occasionale e so cosa significhi lottare contro i pensieri e le immagini stravaganti provocate dall’incrocio fra corpo e lenzuola.
Forse perché non voglio che qualcuno rubi informazioni sulle mie tante o scarse riserve di energia, o sulle mie abitudini, a volte fingo perfino di essermi svegliato più tardi per vivere in incognita qualche ora, ore segrete di cui non deve venire a conoscenza il mondo.

Un'altra cosa che mi irrita è quando cercano di definirmi in base agli anni che porto: gusti musicali, rituali domestici, intensità nell’apprezzamento di liquori pregiati, maniera di concepire i rapporti interpersonali, ogni cosa può essere interpretata secondo schemi basati rigidamente su anni e decadi.
Ho sempre detestato le differenziazioni generazionali di questo tipo, forse perché non mi sono mai sentito un ventenne, un’amica anni fa mi disse che le sembravo un reduce, uno che avesse visto chissà quante cose, un cinico disincantato.
Penso di essere sempre stato in differita rispetto alla mia età, è una sensazione che ho provato  quando mi iniziarono precocemente ad annoiare i cartoni animati di cui si abbuffavano i miei compagni di scuola.
Ora loro conoscono tutte le sigle ed io so bene soltanto le sigle dei cartoni che mi piacevano, di solito storie di orfani e vagabondi senza radici, come Remì ed Heidi.
Non sono affatto un reduce né un cinico, non ho visto guerre né sofferenze atroci, di cose ne ho vissute poche, troppo poche rispetto a quelle immaginate, alle tante viste attraverso libri e cinema.
Il cinema e i libri sono pericolosi, per un po’ dovresti smetterli di vederli o leggerli, altrimenti finisce che ti senti sempre in debito, in debito di amore, di avventure, di esperienza.
Infatti io ogni tanto prendo delle lunghe pause, un igienico modo di evitare confronti da cui uscire perdente, sono in una di queste pause.

Negli ultimi tre mesi ho riletto due libri, quelli nuovi li lasciavo poco dopo averli cominciati, appena c’era un cenno che mi disturbava decidevo di non proseguire, non era la noia, era il timore che mi faceva interrompere la lettura, alcuni erano grandi libri, classici di cui tutti non possono che parlare benissimo.

Forse il rifermento agli anni mi dà fastidio anche perché i miei 35 anni non riesco a viverli come tali, perché sono sempre perfettamente consapevole del loro significato, in modo ben più profondo di quello che può denotare la scelta di una canzone o uno stupido ricordo.
A 35 anni sai che certe cose non le farai più e se le facessi finiresti per sentirti indifeso, fuori sincrono.
A 35 anni non puoi pensare di scoparti due ragazze assieme senza che l'idea ti suoni squallida, non puoi immaginarti a guidare un furgoncino Volkswagen arancione per un viaggio senza meta e senza tappe obbligate da fare in luglio inoltrato.
A 35 anni non puoi pensare di prendere e mollare tutto senza avere prima architettato un piano e aver pesato pro e contro come ti hanno insegnato a fare troppi anni di buona condotta sociale.
A 35 anni non sei più giovane da un pezzo.

martedì 13 dicembre 2011

Contro la divisione della Terra in emisferi





Quando ero bambino il mio Natale era contrassegnato dalle pubblicità televisive realizzate in occasione delle festività dove bambini, di solito ricchissimi e cattivissimi, diventavano di colpo buoni e elargivano doni ai poveri o facevano gesti di generosità improvvisi nei confronti di animali e senzatetto.
In questi spot c’era sempre una neve finta di plastica che cadeva in fiocchi ed invadeva lo schermo venticinque pollici dell’ingombrante televisore in soggiorno.

I bambini delle pubblicità erano attori selezionati dopo faticosi casting fra miriadi di infanti presuntuosi, aspiranti a un successo passeggero.
Erano spot in cui Natale, bontà e marchi commerciali erano connessi in un mostruoso incastro.
Quella bontà aveva una data di scadenza proprio come i panettoni e pandori reclamizzati.
Una bontà destinata a sparire allo scoccare dell'Epifania, quando gli spot sarebbero scomparsi per fare spazio a nuovi inserzionisti pubblicitari più adatti al periodo.

Il pandoro con sopra la Nutella si cominciava a mangiare il sette gennaio a colazione quando il dolce industriale aveva smesso di essere legato al periodo natalizio.
Dopo la Befana, i pandori venivano rottamati a bassissimo costo nei supermercati e diventavano temporaneamente un alimento adatto per la dose di calorie pre-scolastica.
Ho smesso di mangiarlo già quando avevo sedici anni, non sono mai stato uno di quegli studenti fuori sede che si beano del loro status e continuano a ingozzarsene per tutta la carriera universitaria, avendone in cambio brufoli sparsi per tutta la faccia.
Continuo a tenere separati pandoro e Nutella e raramente mi capita di mangiarne.
Anche ora, attorno al tavolo con il pandoro tagliato da coltellini poco adatti, resto in disparte mentre gli altri si avventano sull’involucro di plastica mezzo aperto.
Accenno a dire qualcosa attirando lo sguardo di una tipica divoratrice di prodotti dolciari a basso costo, con sul viso e sul collo alcune bolle rosse sintomo di giovinezza e di alimentazione poco equilibrata.
Anche M. aveva una dieta molto poco ortodossa, beveva in continuazione Coca Cola e mangiava troppi gelati, ma aveva la pelle sempre perfetta.
Il salone è gelido, cosa non sorprendente visto che è inizio dicembre e non ci sono riscaldamenti, la mancanza di caloriferi da noi è sempre vista con sospetto, non è così a Buenos Aires.
È normale lì che non ci siano quando le abitazioni sono piccole come era il suo appartamento.
Metteva una stufetta elettrica e se proprio cominciava a fare più freddo, accendeva il forno a gas aprendo lo sportello per aggiungere del tepore artificiale.
Mi raccontava questi piccoli accorgimenti nelle conversazioni a distanza su Skype.
Era appena tornata a casa, nella sua stagione capovolta.
Ad agosto in Argentina fa freddo, colpa della divisione del pianeta in emisferi.
Questo significa che a dicembre è estate, mi sembrava strano il loro Natale al caldo con le giornate che si allungano e le temperature che salgono, sono sempre stato abituato all’idea del Natale freddo, trovo che sia l’unico possibile, non concepisco la relatività dovuta alla sfericità del nostro mondo.
Quando glielo dissi rispose che la mia visione e l’immaginario in cui credevo dipendeva dalla dominazione yankee del mondo, in fondo Babbo Natale è trainato su una slitta dalle renne ed è un uomo della Lapponia solo a causa delle scelte di marketing della sua Coca Cola.
Se credevo nell’universalità del gelo natalizio era solo per colpa della colonizzazione culturale americana.
Inutile spiegarle che ero semplicemente anche io un abitante dell’emisfero nord, seppure in zona mediterranea, e che Gesù Cristo era nato nel mio stesso emisfero, lei continuava a insistere sulle sue idee citando testi a sproposito.
In teoria le veniva facile trincerarsi nelle sue opinioni, nella pratica andava spesso da McDonald’s che a Buenos Aires trovi quasi ad ogni incrocio, e si faceva spedire tutto a casa: pizza, sushi, empanadas, perfino il gelato, si risentiva del mio stupore sulle sue pigre abitudini.
Come tutti i sudamericani, siano essi conservatori o presunti rivoluzionari , detestava gli statunitensi e ne replicava gli stessi comportamenti, in una maniera inconcepibile per un qualsiasi europeo.
D’altronde anche il suo ex mi aveva apostrofato come cittadino del primo mondo, residente dell’emisfero cattivo, accusandomi per questo di avergli fregato la donna.
Il solito complesso di far parte del secondo mondo, di essere retrocessi in serie B che anche i borghesi covano da quelle parti.
Se la terra fosse stata piatta come una volta si riteneva, se l'asse terrestre non fosse inclinato sull'orbita dell'ellittica, tutti questi malintesi non sarebbero sorti.

lunedì 12 dicembre 2011

Contro il mondo (e gli autori del Trivial Pursuit)


Quale pilota ha vinto un titolo di Formula 1 guidando un auto da lui stesso progettata?
Mi era venuto subito in mente Brabham ma senza una ragione apparente avevo detto Ascari.
La risposta giusta era proprio Brabham e il fatto di averla sbagliata mi aveva provocato uno scatto di disappunto.
Sono una persona competitiva.
Me ne accorgo ancora più di prima da quando pratico la scherma.
Negli esercizi sono contratto, non riesco ad essere sciolto con i polsi, a volte smarrisco il baricentro o piego troppo la schiena, tutti i miei compagni tirano da anni e sono più bravi di me.
Ma quando sono sulla pedana divento grintoso, non mi tiro mai indietro, colpisco, paro d’istinto, vinco spesso all’ultima stoccata.
Mi piace vincere ai giochi, a Subbuteo quando ero bambino, a poker quando avevo quattordici anni, a qualsiasi quiz.
Sono cresciuto con i quiz di Bongiorno, con le domande di cultura generale e di attualità in prima serata, anche rispondere ai quesiti a volta insensati di Trivial Pursuit mi diverte.
Sono piuttosto forte, non sono un fuoriclasse da parole crociate, ho delle lacune sulla mitologia classica e sulla storia antica, e non ho grandi nozioni scientifiche ma per il resto so un po’ di tutto.
La proposta del Trivial Pursuit era l’unica scappatoia che mi era rimasta per evitare il silenzio e il vino bevuto cercando di mantenere un contegno di facciata.
All’improvviso un dettaglio ti può fregare, una parola detta male, una semplice allusione involontaria.
Così le piccole schermaglie, le discussioni sorridenti, i tentativi di suscitare il riso non hanno più senso, crolla tutto e devi cercarti un rifugio provvisorio.
Tutto accade in un attimo, prima eri allineato o almeno fingevi di esserlo, dopo sei completamente tagliato fuori.
Il mio cambio d’umore repentino è potuto sembrare un po’ una posa e forse lo è stata ma qualsiasi posa tenuta a lungo finisce per diventare realtà.
Così me ne sono andato da solo in giardino, mangiando con le mani una fetta di pane e una mozzarella; quando sono ferito non smetto di mangiare, cambio solo il modo di farlo, mi preoccupo ancor meno della forma, ingerisco il cibo guardando fisso un punto nel vuoto.
Hai un modo di guardare strano a volte, mi diceva, ti fissi su un punto e ti perdi.
Come se quel punto non fossero stati troppe volte i suoi occhi.
Seduto sul gradino freddo, sono riuscito con difficoltà a resistere agli assalti ripetuti del come ti senti, ai tentativi di estorcere motivi, mi sono fatto toccare le spalle senza rilasciare alcuna dichiarazione che non fosse palesemente vaga.
Poi me ne sono andato al mare, ritrovandomi davanti ad una rete di ferro con un bicchiere di birra in mano.
Ho appoggiato la fronte alla rete che delimita il campo di basket del villaggio vacanze, ho osservato la luce lunare tagliare il campo immaginando una sequenza da telefilm statunitense.
Il mare agitato alle mie spalle avrebbe potuto essere oceano, d’altronde siamo così platealmente fuori stagione che potremmo fingere di trovarci altrove.
In che stato degli Usa si trova il parco di Yosemite?
Io e Gerald ci siamo stati, sappiamo tutti e due la risposta: è in California.
Uno a uno.
Mi stavo annoiando delle solite due squadre che si erano formate ed avevo suggerito una  variante, giocare io solo contro gli altri sei, l’ho fatto forse per rispettare l’immagine che ho di me o forse soltanto perché mi sentivo in dispari con l’universo.
Ora sto sfidando il mondo.
Paolo contro il resto del mondo.
Come alcune partite di calcio degli anni ’80 in cui la squadra che aveva vinto i Mondiali affrontava in un’amichevole una selezione mista di giocatori delle altre nazioni.
Sono piuttosto ossessionato dagli anni, catalogo così le cose, non soltanto le canzoni, gli stili architettonici e i vestiti ma anche gli oggetti più impensati.
Tutto è preferibilmente anni ’80, ma ci sono anche abitudini anni ’60, tinte anni ’70, concetti anni ’30 e così via.
Non mi sono mai accorto veramente della mia mania prima che lei me lo dicesse, considerai la sua osservazione come l'ennesimo segno di intelligenza acuta, in quel momento corri davvero il rischio di innamorarti. 
Una volta le avevo detto che gli stuzzicadenti sono sicuramente un accessorio anni ’80.
All’epoca tutti li chiedevano dopo pranzo, al ristorante li mettevano sul tavolo assieme ai grissini, anche loro legati indissolubilmente a quegli anni,  ora sono quasi spariti, non li vedo più usare in pubblico, difficile che qualcuno si azzardi a chiederli ad un cameriere.
Io ho sempre detestato gli stuzzicadenti ed adorato i grissini.

Aveva reagito scuotendo la testa e ridendo, ho escogitato perfette battute e osservazioni originali grazie alla sua presenza, peccato non averle registrate o trascritte in qualche modo, avrei potuto servirmene per il futuro, a volte penso che con lei siano andate sprecate.

Per questo forse sfido il mondo e reagisco con piccoli brividi di soddisfazione ad ogni risposta giusta che i miei avversari non conoscono.

Il loro punto di forza è la varietà e il mutuo soccorso, il loro punto di debolezza la democrazia.
Devono riflettere su ogni quesito, a volte si fidano dei componenti più abili, altre volte è inevitabile l’inizio di una discussione pacata che rallenta i loro tempi di reazione, e può portarli fuori strada.
In cima alla lista dei miei viaggi per esempio da anni ho un luogo, per questo ora so benissimo la risposta da dare alla domanda “quale nazione  ha un abitante ogni 1,6 chilometri quadrati?”
Il mondo pondera varie opzioni, Canada, Australia e Russia, la voce che suggerisce l’ipotesi Mongolia è troppo flebile o poco convinta, finiscono per scegliere Canada.
Arriva il mio turno, rispondo Mongolia certo che non ci può essere un’altra nazione così spopolata.
I limiti della democrazia contro l’autosufficienza illusoria del singolo.
Il mondo alla fine vincerà come sempre ma so che lo farà di misura e che potrò consolarmi con un paio di risposte vincenti come questa.
In fondo piuttosto che ubriacarmi come in una brutta sceneggiatura o continuare a girovagare per la spiaggia simulando grandi riflessioni, meglio rimanere qui a sfidare gli autori del Trivial, sempre alla ricerca di domande moderatamente stravaganti.

giovedì 17 novembre 2011

Contro le tessere punti



Di solito le cassiere del supermercato hanno la faccia annoiata e ne hanno tutte le ragioni.
Di solito le cassiere del supermercato sono trattate come se non fossero esseri senzienti dai clienti reduci da scelte ponderate sugli acquisti.
Di solito le cassiere del supermercato non si ricordano i clienti, nemmeno i più assidui, quelli che vanno la mattina e ritornano poco prima della chiusura per comprare un paio di buste di latte.
Di solito riconoscono solo le signore più fastidiose, quelle che discutono sui punti della tessera o si lamentano perché certi prodotti scontati si esauriscono troppo in fretta.
Per questo sono sempre sorpreso che una delle cassiere del supermercato sotto casa si ricordi di me.
Una volta mi propose la tessera punti, e di fronte al mio rifiuto, finse stupore dicendo che avrei potuto risparmiare su alcuni prodotti in offerta ed ottenere dei regali ma non era convinta; sorrideva, in fondo il mio no le era piaciuto.
Da allora le rare volte in cui la trovo in cassa mi riconosce e scherza sulla questione tessera, mi ricorda tutte le pentole che ho perso, non ho alcun rimpianto e vedo nel suo sguardo un lampo di approvazione per la mia scelta.
Sono un pessimo cliente del supermercato sotto casa, quando posso lo evito, cerco di andarci il meno possibile.
Non mi piace la distribuzione dei prodotti; non mi piace guardare i volti della gente che scruta gli scaffali; non mi piace dover chiedere scusa alle signore che, confuse, si fermano di colpo; non mi piacciono quei piccoli scontri di acquirenti fra i corridoi, divento un inguaribile individualista.
I momenti di maggiore angoscia nella mia esistenza li ho sempre vissuti in un supermercato, mi sembra un posto perfetto per una crisi di pianto; il centro commerciale è anche peggio.
Quando ci vado, mi perdo sistematicamente fra i vari colori con cui sono contrassegnati i parcheggi, lamento dei vaghi mal di testa, disprezzo il pessimo abbigliamento dei suoi abitanti.
Vago fra i negozi cercando di farmi distrarre il meno possibile dalle vetrine e puntando dritto verso il mio obiettivo, mentre il sottofondo della stazione radiofonica interna manda canzoni italiane alternate ad annunci sulle ultime offerte, declamati da voci femminili rassicuranti e datate.
Eppure una volta stato felice in un grande centro commerciale.
Stavo facendo la spesa con M.
Dovevamo comprare delle cose che non aveva trovato nel supermercato sotto casa, ma forse le mancavano solo  i centri commerciali oltreoceano e per questa ragione mi aveva convinto a venire fin lì.
Salivamo sulle scale mobili e si attaccò al mio braccio ridendo, avevo detto una battuta al momento giusto e lei mi disse Perché ti dovevo trovare così lontano? Sto così bene con te.
Poi mi disse che fra di noi c’era come una reazione  nucleare a catena.
Da ogni parola ne scaturiva un'altra, ogni frase faceva nascere un nuovo argomento di conversazione e c’era sempre energia.
Forse la sua frase mi colpì tanto perché fin da bambino sono stato ossessionato dalla energia nucleare, d’altronde avevo dieci anni quando ci fu l’incidente di Chernobyl ed a scuola ci comunicarono che non dovevamo bere latte fresco e mangiare verdure a foglia larga.
Sono nato in piena Guerra Fredda e mi interessavo di cose di cui un bambino normalmente non si interessa: seguivo le questioni relative al disarmo bilaterale, i summit fra le due superpotenze, le trattative estenuanti per lo smantellamento delle testate missilistiche in Europa.
Comunque è stata una delle cose più vere che mi siano state dette, anche io comincio a innamorarmi di una persona soltanto se accade quella reazione.
L’ultima volta che andai al supermercato con M. fu a Buenos Aires, lei faceva la spesa solo il lunedì per una questione complessa legata alla sua tessera punti, si segnava tutto su una lista divisa per settori merceologici e sul nastro divideva i prodotti in base ad una sua misteriosa logica.
La cosa paradossale è che non sapeva affatto cucinare né aveva alcun desiderio di imparare.
Quella volta discutemmo, volevo comprare delle cose ed ero andato a cercarle per conto mio sovvertendo i suoi piani. Litigavamo per dettagli,  non sopportava che non ci fosse più quell’energia.
Il supermercato diventò lo scenario abituale che mi ispirava vie di fuga impossibili, di colpo mi parve irreale quel tardo pomeriggio di luglio sotto la brutta luce fredda di un interno climatizzato, quel ricordo di felicità in un luogo così poco adatto.
Sono i trucchi che fa l’amore, ogni posto diventa ugualmente perfetto, indifferente, fino a quando quella bolla si romperà e resterai nudo in mezzo ad un supermercato ostile.


martedì 8 novembre 2011

Contro l'androne e il suicidio


Torno e trovo un bicchiere rotto nel lavabo, non me n’ero accorto nemmeno che si fosse rotto quando sono uscito oggi pomeriggio, deve averlo fatto silenziosamente coperto dai rumori dell’acqua e del sapone per lavare i piatti.
Ero uscito canticchiando un brano triste che parlava di solitudine ma ero di buonumore quando ho sentito un urlo provenire dal piano di sopra.
Un urlo di ragazza disperato, tante volte ho maledetto il mio condominio e il cortile per i suoi rumori ovvi, banali: canzoni cantate male, litigi mediocri fra giovani fidanzati, rimostranze di madri a figli male educati.
Ora chiederò quegli urli, li desidererò tutti quei rumori ovvi banali.
Ho cercato di capire cosa stesse succedendo e ho visto qualcosa cadere, non ho avuto il tempo di decifrare cosa era.
Non ho avuto nemmeno il tempo di vedere l’impatto o mi sono illuso di non averlo visto, l’ho rimosso all’istante, ho sentito il rumore, il tonfo, nessun gemito, nessun lamento.
Un corpo disarticolato, il sangue usciva dalla bocca in un rivolo che ho visto mille volte solo con le nostre protesi audiovisive.
Ma era diverso, non ho provato quasi nulla, non mi è piaciuto.
Sono restato fermo un attimo, indeciso se dovevo precipitarmi giù e certificare la morte certa di una persona, quindi sono risalito di corsa per le scale e ho fatto l’unica cosa logica da fare: sono tornato sul mio pianerottolo e ho bussato alla prima porta, mi hanno aperto subito, marito e moglie visti poche volte di sfuggita, nemmeno so i loro nomi, ho chiesto di chiamare subito polizia ambulanza, con la voce leggermente tremante e decisa ho detto una signora si è suicidata.
Non ho detto ammazzata, non ho detto è morta, ho usato la parola esatta come se nessuna emozione potesse scalfire le mia proprietà di linguaggio, non mi è piaciuto nemmeno questo. Le persone sono uscite dai pianerottoli con timidezza, sapevamo tutti che a distanza di qualche piano la morte è meno paurosa rispetto all’avvicinarsi ad un palmo, siamo rimasti ad aspettare, non c’era omissione di soccorso.
Il corpo era indiscutibilmente morto, la testa piegata da una parte, i piedi puntati in direzioni inconcepibili con l’esistenza.
Poi sono arrivati i carabinieri e i poliziotti, chiedendo chi aveva visto cosa.
Mi sono sentito in dovere di essere un buon cittadino, ho raccontato il poco che ho visto, un carabiniere ha trascritto a penna l’accaduto, quando l’ha riletto ero attento al modo in cui l’aveva buttato giù, era scritta peggio di come l’avrei raccontata in prima persona, non mi piaceva dover accettare una mia versione dei fatti così sgrammaticata: ancora lo scrittore, il testimone, non mi sono piaciuto.
Il primo suicidio di cui mi ricordo fu quello di una donna che viveva nel palazzo di fronte al nostro da bambino, si buttò dalla finestra, non vidi niente, ricordo che il figlio urlava come un disperato mentre lo tratteneva un ispettore della polizia cercando di consolarlo.
Tutti sono attratti dal vuoto, anche io ho pensato tante volte a cosa succedesse se mi buttassi nel vuoto, è un idea del tutto vaga, non legata a nessuna intenzione reale.

È un idea con cui ognuno si balocca per saggiare il suo grado di potenza.
Ho sempre avuto rispetto per il suicidio, dolore e rispetto, i miei vicini non la pensano allo stesso modo, pensano che sia una cosa da folli, un atto inconsulto di debolezza, un lapsus.
Non ci stava con la testa poverina, pensano questo.
Mi hanno chiesto cosa ho visto, ho detto poche frasi ma mi sentivo in colpa per il ruolo del testimone oculare, da un lato temuto, dall’altro agognato
Il portiere era fuori, lo hanno contattato e appena è tornato ha cercato subito di mettersi a disposizione come mai ha fatto in tutta la sua lunga e poco onorata carriera, ha perso la sua arroganza consueta, addirittura quando sa che ho visto l’impatto mi ha fatto un cenno quasi dolce per rassicurarmi, mi invitava a dimenticare.
Fra qualche giorno tornerà il solito stronzo di prima, ma io con lui mi prometto di  essere diverso.
Cerco di ricavare anche dal gesto più drammatico un mio tornaconto, questo nemmeno mi piace e pure mi tocca farlo.
Sono egoista, cerco di capire perché dovevo essere in quell’istante testimone, se questo c’entri con me, non mi piace che ogni cosa finisca per c’entrare con me, vorrei restarne fuori ma non ci riesco.
Cercherò di trarne una lezione, come sempre.
L’unica cosa che posso dire ora è che l’ androne del mio palazzo non sarà mai più lo stesso.

giovedì 3 novembre 2011

Contro il tiramisù di Pompi


A Roma ci sono delle leggende gastronomiche, forse ne esistono in ogni città.
Sono le dicerie collettive per cui un ristorante ha la migliore carbonara, da tal dei tali c’è il miglior gelato e così via.
Spesso quando ci vai resti deluso e non riesci mai a capire se sia stata la fama a peggiorare il posto, un po’ come accade ai cantanti, oppure il problema sia proprio il gusto degli altri.
Preferisci la prima ipotesi, quella tranquillizzante, del successo che dà alla testa, della trasformazione regressiva dall’artigianale all’industriale.
Uno di questi posti è un bar grande e brutto in zona San Giovanni, si chiama Pompi e tutti lo conoscono.
E’ aperto dalla mattina alla sera e la sua fama è dovuta al suo tiramisù, del quale si è autoproclamato addirittura re fin dall’insegna.
Il tiramisù è il dolce con cui sono cresciuto da piccolo, cominciò ad essere di moda negli anni ’80, prima era solo un dolce regionale, veneziano, in quegli anni divenne il dolce nazionale.
Penso che lo divenne perché era facile da fare a  casa, tutti lo possono fare, anche chi non ha mai fatto un dolce, non ha bisogno di cotture in forno, di lavorazioni particolari.
Il tiramisù era un dolce che si portava alle feste, mia madre si era specializzata in quello e nella Charlot, una torta con la panna molto più complessa che nessuno conosce.
In realtà è un dolce da casa, le pasticcerie lo snobbano, lo puoi trovare al massimo nei ristoranti nella versione al bicchiere, forse il successo di Pompi è dovuto all’intelligente scelta di produrlo a ciclo continuo, creando una sorta di monopolio.
M. andava pazza per il tiramisù, scoprii dopo che era una ossessione tutta argentina, quando conobbi sua madre la prima cosa che mi chiese fu il tiramisù.
Non sanno che è diventato di moda piuttosto recentemente, che non è una ricetta tradizionale e di sicuro non è il picco della nostra cucina.
Sono solo savoiardi, caffè, cacao magro e uova.
Feci due volte il tiramisù, una volta per la sua famiglia e un’altra per le sue amiche.
Dovetti affrontare diversi problemi: il mascarpone costa molto e così spesso trovi solo un finto mascarpone e poi i savoiardi non sono uguali ai nostri, sono più scuri e hanno una consistenza diversa.
Di solito poi anche il loro caffè è di scarsa qualità.
Appena entrai a casa sua dopo il viaggio intercontinentale mi preparai un caffè, quando lo misi nella macchinetta vidi subito che non andava affatto bene, era granuloso, aveva un colore troppo chiaro, era mal tostato probabilmente,  dopo due giorni comprai una marca di caffè italiano al supermercato.

M. mi aveva già chiesto di fare il tiramisù a Roma in cambio delle empanadas, ma non avevo il frustino elettrico e alla fine la portai a mangiare da Pompi.
Il segreto dovrebbe essere la leggerezza mentre quello di Pompi invece è densissimo e pesante, hanno creato anche teoriche varianti che in realtà sono altri dolci travestiti da tiramisù per poter sfruttare il successo del brand.
Cose tipo il tiramisù alle fragole.
Lei non poteva notare che era mediocre e sopravvalutato, glielo dissi senza troppa enfasi, lei forse scrollò le spalle, era comunque cento volte meglio di quello che poteva trovare in Argentina.
In fondo è il vantaggio di essere stranieri, tutto ti va bene, ti accontenti con più facilità, finisce che sei perfino più felice.
Ad esempio a M. il tiramisù era piaciuto così tanto che volle tornare da Pompi il pomeriggio in cui doveva partire dall’Italia, prima eravamo andati a informarci per il mio biglietto da visita e avevamo fatto altri servizi, si era scritta tutta con la sua solita pignoleria.
Lei si mangiò il tiramisù e si bevve la sua Coca Cola, io presi un frullato di frutta.
Eravamo tristi, il pomeriggio era nuvoloso, quando tornammo a casa si mise a fare delle ricerche su Internet di nascosto, non voleva che la spiassi.
All’aeroporto era vestita in tuta, volutamente sciatta, la brutta copia della ragazza della sera prima, truccata, in gonna corta e tacchi, avevamo camminato sul Lungotevere, le avevo detto che era una crudeltà tenerla nascosta alla città.
Prima eravamo andati in un ristorante biologico, eravamo raggianti, il cuoco ci chiese come avevamo mangiato e la guardava invidiandomi, ero stupidamente orgoglioso della sua bellezza, solo egocentrismo.
Quando eravamo all’aeroporto la guardai fin quando non superò i controlli di sicurezza, si voltò diverse volte come per controllare qualcosa.
Quando era già fuori dal mio sguardo trovai un bigliettino di carta nei miei jeans, c’era una frase di Barthes che diceva come sia difficile per il linguaggio comunicare l’amore, è sempre troppo povero  o troppo ricco per poterlo esprimere.
Aveva trovato su Internet la frase che cercava, misi il biglietto nel portafogli e uscii dall'aeroporto di fretta per non mostrarmi troppo vulnerabile ai passeggeri in transito.
Da Pompi ho smesso definitivamente di andare.

mercoledì 2 novembre 2011

Contro il pianto


I citofoni sono protetti da piccole grate che permettono al dito di entrare per bussare all’interno desiderato ma impediscono il furto delle pulsantiere.
Da uno di questi esce una musica distorta dalle sonorità anni ’80, cerchiamo di capire se qualcuno abbia tenuto alzato il ricevitore per sbaglio oppure ci sia un misterioso contatto fra le onde di una stazione radio e l’apparecchio condominiale.
La musica si interrompe per un momento poi riprende, ce ne andiamo senza aver risolto il mistero.
E’ notte e la strada stretta è deserta, tutti i portoni sono di vetro, puoi guardare nell’atrio e scorgere l’inizio della scalinata; mi piacciono le città con portoni di vetro e grandi finestre senza tende, le città che ti danno l’illusione di spiare le vite altrui.
Non sopporto i nostri massicci portoni di legno, la nostra ossessione per le persiane e le serrande, l’importanza data allo spessore delle tende, fatte per proteggerci dai raggi solari e dalla altrui curiosità.
Quando ero bambino mia madre e le mie zie parlavano sempre di tende da comprare, sistemare, lavare.
Era più frequente che le tende fossero chiuse piuttosto che aperte, di sera non c’erano soggiorni e cucine da osservare, tutto era perfettamente sigillato.
Questa città ha dei bellissimi interni, perfetti per girare, dico mentre mi aggiro in un cortile dignitosamente decaduto, cerco di immaginare storie che non siano troppo prevedibili.
Siamo a Belgrado e oggi ho visto due, tre, quattro persone piangere mentre camminavano per strada.
A tutte le persone provviste di un minimo di anima è capitato di piangere in un luogo pubblico, per futili o serissime ragioni.
Ma la donna che piangeva con la mano davanti alla bocca non piangeva a dirotto, piangeva di un pianto continuo, inarrestabile.
E' davvero dura vedere piangere qualcuno mentre continua imperterrito a camminare, senza nemmeno accelerare per riuscire ad arrivare prima possibile ad una destinazione in cui le lacrime possano essere occultate agli sguardi altrui.
Quando vedi una persona piangere così capisci che non c’è rimedio, che non sta disperandosi per la fine di un amore qualunque, dentro c’è un tipo di sofferenza che nessun abbraccio riuscirà a lenire.
Io ho pianto in pubblico quando il buio mi proteggeva, in cinema dove appena si accendono le luci fingo di avere straordinari sbadigli o banalissimi raffreddori, o in luoghi di transito, aeroporti preferibilmente.
Forse perché  fra un gate e un duty free hai la sensazione falsa di essere invisibile agli sguardi altrui.
A volte poi ci sono degli spazi fra un gate e l’altro che sembrano sempre vuoti, posti buoni per nascondersi dove addetti aeroportuali appaiono improvvisamente da porticine bianche che mai avresti notato altrimenti.
Belgrado non è più triste di altre città, non c’è nessuna povertà o conseguenza post bellica che tenga, l’autunno è un po’ più grigio ma da tempo ho smesso di credere nella felicità mediterranea.
Negli ultimi mesi ho visto piangere decine di sconosciuti in città dalle temperature diverse, ognuna a suo modo, come ognuno a suo modo ride.
Ho pensato per un po’ che fosse una specie di scherzo atroce
perché la persona che più ne avrebbe avuto bisogno proprio non poteva farlo, e se ne doveva restare lì asciutta e disperata.

Invece sono forse diventato solo più sensibile, guardo meglio gli altri, li osservo negli occhi quando nemmeno se ne accorgono e cerco di capire quando sarà il momento in cui esploderanno.

Quando esplodono gli esseri umani diventano terribili e splendidi come certe stelle esauste.