venerdì 29 aprile 2011

Contro l'Eco (nel senso di Umberto) e le critiche a Mike Bongiorno


Umberto Eco divenne famoso da giovane con un libro in cui analizzava alcuni fenomeni di allora, uno di questi saggi si chiamava Fenomenologia di Mike Bongiorno, il conduttore veniva preso in giro per il suo italiano povero, la sua presunta banalità, il suo essere medio, e quindi proiezione ideale dello spettatore televisivo.
Ben presto Eco fu considerato il Barthes nostrano, senza averne neanche un centesimo della sua genialità.
I soldi veri se li fece con un feuiletton come Il nome della rosa indirizzato alla gente media che detestava, ed altri libri in cui usava la sua arida erudizione per scrivere best seller stile Angeli e Demoni.
Da anni scrive articoli trascurabili sull'ultima pagina di quella rivistaccia che è l'Espresso.
Mike Bongiorno me lo ricordo da piccolo, è sempre piaciuto a mio padre, piaceva anche a me fin quando ho avuto 11-12 anni, era impossibile non vederlo il giovedì sera, poi mi era diventato insopportabile.
I suoi programmi erano concilianti, lui era troppo formale, iniziavo a diventare adolescente, da allora se lo vedevo era per sbaglio o se andava a Sanremo.
Il quiz con il passare degli anni diventò fuori moda, non era più da prima serata, passò nella fascia pomeridiana, poi a mezzogiorno, quindi si trasferì da Canale 5 a Rete 4.
Negli ultimi tempi Fiorello lo aveva riscoperto come spalla comica ed era diventato con l'età molto meno cauto, nelle interviste si raccontava di più, mostrava il suo lato sarcastico.
Lo vidi un paio di mesi prima che morisse, dovevo seguire da producer un promo che faceva con Fiorello per Sky, giocava a fare il rimabambito, si faceva un pò prendere in giro, sembrava simpatico.
Quando morì rividi le sue interviste, la sua fortuna è stata morire ad inizio settembre così non vedemmo le ricostruzioni fatte da altri sulla sua vita.
Nelle interviste raccontava l’ infanzia benestante ma poco felice, il ritorno in Italia, i mesi di prigionia durante la guerra, a San Vittore e dopo in un campo di concentramento, e poi Lascia e Raddoppia, il successo, la follia riuscita della tv commerciale, la passione per l’alpinismo, il Polo Nord raggiunto con le slitte a 70 anni.
Diceva cose molto intelligenti con grande umilità,  se guardate uno spot della Grappa bocchino lo vedete mentre si prepara alle sue imprese, la musica in sottofondo epica e commovente.
Era un perfetto uomo medio che ha vissuto una vita per niente media, e questo la maggior parte degli uomini non lo può accettare, e fra questi c'è anche Eco.
Uno come Eco me lo immagino perso nelle sue citazioni, noioso e trombone come Cacciari, il suo sarcasmo apparentemente acuto, ma sterile, morto.

mercoledì 27 aprile 2011

Contro Wittgenstein


Si possono passare anni a cambiare filosofia scegliendone una adatta, ma sono scelte teoriche, solo l’esperienza conta, solo quella ti cambia.
E l’esperienza nella filosofia non è contemplata, bisogna vivere e non spaccare il capello in quattro, troppa analisi significa stare nella mente e se siamo solo nella mente siamo persi.
Per questo trovavo assurda la sua passione esibita per la filosofia contrapposta alla indifferenza verso qualsiasi artista vero della narrativa, la sua venerazione per Wittgenstein la usai per darle il primo nomignolo e augurarle la buona notte.
Mi aveva citato Wittgenstein e Niechtze per fare colpo, in parte ci era riuscita, dopo mi ero accorto che era un po’ un disco incantato.
Wittgenstein l’avevo già conosciuto, diciamo di vista, durante una lezione di università molti anni fa, ero in compagnia di un cieco.

Non mi piace chiamarli non vedenti, è un termine burocratico che li umilia.
Definereste mai Omero un non vedente?
All’epoca facevo servizio civile all’università e accompagnavo i disabili a lezione oppure da altre parti.
Quasi sempre stazionavo alla casa dello studente, uno dei posti più tristi di Roma malgrado l’impeto giovanile che vi era rinchiuso.
Rinchiuso è la parola giusta vista l’architettura carceraria dello studentato, i mattoni grigi in stile Bucarest anni ’80, la prossimità con l’obbrobrio architettonico del cimitero monumentale del Verano.
Potrei dire che fu un anno utile, ma non so quanto sono stato davvero utile, mi sembrava di essere un impiegato, ero giovane e pieno di inutili riguardi, divenni molto meglio nell’ultimo periodo quando riuscivo a diventare anche stronzo, simpatico e antipatico  a seconda del disabile.

Il cieco  faceva battutine innocenti, cercava di dimostrarsi una persona di spirito ed era arrogante, studiava filosofia e mi tenne una lezione supplementare su Wittgenstein in metro, come se non mi fosse già bastata la noioisissima lezione all’università che mi ero sforzato di seguire perche tanto ero comunque con lui e valeva la pena di sfruttare la situazione.
Mi ricordo che cercò di educarmi alla filosofia mentre si ondeggiava paurosamente come Stevie Wonder, da allora ho scoperto che ci sono ciechi che si ondeggiano e ciechi che sono stabili.

Wittgenstein, ho provato a leggerlo, le sue dissertazioni sul linguaggio sono astruse e indigeribili.
So che c’è un blog famoso che si chiama così, ma non so perchè si chiami così, nè perchè sia così famoso.

martedì 26 aprile 2011

Contro la provincia

Prendersela con la propria città è come attaccare se stessi, non è mai facile.
Per i maestri se vedi qualcosa di negativo è il riflesso di qualcosa che è dentro di te.
Eppure come fai a non criticare una domenica mattina di Pasqua nella tua città di origine, con la gente di ritorno e i residenti fissi che camminano con il pacchetto dei dolci in mano, alcuni addirittura di ritorno dalla messa domenicale?

I conoscenti occasionali ti chiedono quando sei venuto e quando riparti, domandano della tua vita senza entusiasmo, per correttezza tipicamente provinciale.
Giudico l’abbigliamento come indicatore del declino estetico.
Felpe con marchi vistosi, camicie a righine dozzinali, giacche che inseguono un eleganza a loro irraggiungibile.

Spero di evitare gli scocciatori, non riesco a godermi il sole nè la bellezza dei portici, prometto di tornarci dopo pranzo.
Forse dipende dal fatto che conosci le abitudini, sei troppo consapevole di tutto, quando sei in un altro posto puoi illuderti che ci siano cose interessanti.

Prima c’era la provincia diversa dalla città, ristretta, chiusa a volte, ma differente, c’erano cose che in città non si trovavano.
Ora la provincia è solo la brutta copia della città, una parodia, uno scimmiottamento.
È buona per ambientarci la cronaca nera dei giornali.

sabato 23 aprile 2011

Contro la bomba atomica


Non so quando iniziai ad aver paura della bomba atomica, quando iniziai a fare quegli strani sogni in cui bisognava fuggire per scampare alle esplosioni che stavano per piovere a catena dal cielo azzurro e senza nuvole.
Sogni in cui mia madre, sempre attenta al lato igienico delle cose, mentre aspettavamo da un momento all’altro la fine ci diceva prendete la cambiata, cioè mutande, calzini e canottiere pulite da portarci appresso.
Penso che avessi quei sogni perché  andavo a letto troppo tardi e mi impicciavo di cose di cui un bambino  normalmente non si impiccia, probabilmente era per colpa di un piccolo film che andava molto di moda in quegli anni e che ora non passano mai in tv: The Day After.
In quel film si raccontavano  le conseguenze di una  guerra nucleare, la scena in cui tutti i motori delle auto si spegnevano a causa delle onde radioattive era assolutamente impressionante, mi ricordo la luce, un nuovo sole maligno, in fondo esteticamente niente male come morte.
Mi ricordo di come seguivo con interesse le notizie sui summit fra Usa e Urss, di come auspicavo la diminuzione delle testate nucleari e il disarmo bilaterale, di come mi preoccupavo per la voce tropo concitata di una giornalista che parlava dell’epilogo negativo di un vertice a Reykjavik fra Reagan e Gorbaciov nel 1987, avevo solo undici anni.
Mi ricordo l’espressione corrucciata di Gorbaciov che usciva da una porta secondaria ed entrava in macchina sbattendo la portiera e rifiutando di parlare con i giornalisti.
Non si erano messi d’accordo su una cosa semplicemente, eppure mi autoconvinsi che la guerra stesse per iniziare da un momento all’altro.
Io ero per lo scudo spaziale. Reagan, quest’uomo affabile, sempre sorridente, ci prometteva che avrebbe fatto costruire degli scudi per difenderci dai missili sovietici, mi ricordo le animazioni grafiche dei telegiornali che mostravano l’azione degli scudi.
Sarebbero stati in cielo sempre, giorno e notte, cullando il nostro sonno, sarebbero intervenuti intercettando i missili prima che potessero caderci sulle teste.
Non ho mai capito se le tecnologie archeologiche degli anni ’80 avrebbero davvero potuto individuare i missili e distruggerli, comunque allora avevo ancora fiducia nella Nasa.

venerdì 22 aprile 2011

Contro Milano 2


Molti anni fa ho lavorato per pochi mesi a Milano 2, ci arrivavo con un autobus ed a volte scendevo una fermata prima per percorrere a piedi il breve tratto di strada fino al mio posto di lavoro.
Passavo sotto dei portici vuoti a qualsiasi ora del giorno, con negozi dalle vetrine lussuose che apparentemente non vendevano niente a nessuno. Ogni tanto ci passeggiavano ragazze giovani e belle con carrozzine e figli piccoli.
Di lato, sotto dei tendoni, c’erano piscine riscaldate e si sentiva sempre il rumore di una pallina di tennis, c’era sempre qualcuno che giocava a tennis, a qualsiasi ora ci passavi.

Un mio amico mi disse una volta di essersi perso a Milano 2 e di aver avuto paura.

Milano 2 è una specie di Venezia in cemento armato, ci sono questi ponti rossi che servono a unire i due lati delle varie residenze, si chiamano così. Residenze archi, residenze portici eccetera.
Ci sono un sacco di prati e un laghetto e dei cigni, eppure a volte mi sentivo così giù a vedere queste cose che avrei avuto bisogno di guardare una bella ciminiera, di godermi il panorama di una fabbrica.
Era tutto talmente falso che perfino il vecchietto seduto su una panchina vicino al laghetto sembrava di cartapesta: una comparsa.
C’erano un sacco di vecchi che provavano a mantenersi in forma, convinti che il fatto di essere in un posto tanto verde e appena fuori dalla città li mettesse al riparo da infarti e malattie degenerative di varia entità.
Andavano girando sempre in tuta e marciavano o corricchiavano in pieno inverno. Erano tante copie sbiadite di Raimondo Vianello in casa Vianello e gli appartamenti me li immaginavo tutti come quelli della sit-com, stesso scalino per entrare in sala, stesse belle lampade, stesso scrittoio di legno, stessa cucina spaziosa.
Ci dovete andate a Milano 2 se passate da Milano, andate a farci una visita turistica, portatevi le macchine fotografiche.
Per entrare in azienda passavo per uno stretto corridoio ricavato sotto delle impalcature, vedevo dalle vetrate i giornalisti annoiati e senza nessun tipo di privacy, tutti nello stesso stanzone per preparare le edizioni dei telegiornali.
Mi fermavo sempre a vedere i desktop che ognuno usava sul suo computer, ognuno cercava di condensare disperatamente una sua identità, c’era anche una specie di cucina e un grande frigo.

Quando mi capitava di uscire tardi avevo l’impressione che non ci fosse più nessuno, anche nelle case illuminate da lampade a stelo  dal design costoso.
Mi sentivo l’unica persona completamente viva nell’arco di diversi chilometri quadrati e questo fin quando non capisco che poi tanto vivo non lo ero nemmeno io.
Di solito in casi del genere invece di aspettare la navetta che mi portava alla metro facevo un giro per i portici e mi fermavo a guardare i poliziotti privati.
Erano lì per controllare che la notte ridiventasse giorno  e ci fosse qualche ragione perché il tempo continuasse a scorrere in avanti.
Io non ne vedo.


mercoledì 20 aprile 2011

Contro la vela


Una volta stavo lavorando al tg ed è arrivato uno a presentare un libro che stava facendo parlare di sè.
Si chiama Perotti, il libro si  intitolava Adesso basta, quando dice adesso basta intende dire basta lavorare.
Mi dovrebbe essere stato simpatico visto che sono contro l’elogio del lavoro a ogni costo, contro ogni morale ed etica basata sulla fatica, sull’impegno costante per ottenere dei risultati ma non è cosi, la coerenza non è sempre una virtù.
Si presentò in redazione vestito casual elegante, quarant'anni, barbetta, si guardava continuamente le scarpe e sorrideva in giro con aria di superiorità.
E' il solito tipo che faceva il dirigente e infatti orgogliosamente ricorda nelle sue quarte di copertina che faceva un lavoro figo, era arrivato al vertice e aveva mollato tutto, gratifiche economiche e psicologiche, per iniziare a fare lo skipper, era ancora fiero del suo passato e d’altronde il suo passato lo marchia a vita, non ha scampo.
Il suo ego lo accerchia da tutti i lati.
Se lavori anni in una azienda multinazionale e riesci a salire tutti gli scalini fino ad arrivare su qualche cima e guadagnare stipendi, ottenere viaggi in business e sorbirti i complimenti dei tuoi diretti capi senza vergognarti, sei finito in partenza.
Iscriverti a una setta buddista, scappare da qualche parte, andare a circumnavigare il mondo come un Vasco de Gama in fibra di carbonio, non ti può più salvare.

È finito il tempo della conversione, dei San Paolo sulla strada di Damasco, dei cambiamenti di vita, se in questo sistema sei pasciuto fino alla marcescenza non puoi più tornare indietro.

Malgrado i tuoi orribili gilet da vela, resterai sempre il dirigente e arrampicatore sociale che eri, d’altronde in Italia la vela è uno sport per gente di entroterra.

Sei un po’ più asciutto di prima, più atletico certo, hai le lentine al posto degli occhiali da sfigati che portavi prima, quelli ultraleggeri da manager.
Ma la sostanza resta la stessa.
Poi finisce che scrivi un libro, che viene pubblicato da una casa editrice importante che crede in te e cavalca l’onda, finisce che hai successo e vieni invitato a parlare della tua filosofia trita e ritrita e il ciclo si chiude.
Sei quello di prima, la tua vita di prima ti assale da ogni parte, ne parli per contrasto ma ne sei invischiato sempre.

martedì 19 aprile 2011

Contro la lavatrice

Aveva il controllo totale della lavatrice, era disposta a lavare i miei panni ma non potevo avvicinarmi, mi diceva che era troppo complicata, neanche fosse una centrale nucleare.
A me sembrava una semplice lavatrice di quelle in cui il bucato lo metti da sopra, lo so hanno un nome specifico ed uno scrittore meticoloso avrebbe fatto una ricerca su google per trovarvelo ma io preferisco essere vago, evitare di fingermi un idraulico o un venditore di elettrodomestici.
Non funzionava così bene perché varie volte ho trovato sui miei jeans delle macchie di detersivo, evidentemente non si scioglieva sufficientemente in acqua.
Su uno dei miei jeans ancora sono rimaste, sembra vernice, sto provando a toglierle inutilmente, dovrò passare in tintoria.
Per lei se i bermuda comprati assieme si erano un po’ stinti era solo colpa mia, li avevo lavati a trenta gradi mentre avrei dovuto lavare tutto a freddo, su questo punto era intransigente, non avrebbe mai riconosciuto un suo errore.
Io mi occupavo quasi sempre di stendere i panni e mi piaceva farlo.
E’ bellissimo stendere i panni a Buenos Aires, tutti lo fanno sulla terrazza del tetto condominiale, vai su e vedi tutti la città, c’è quasi sempre vento e devi mettere quattro mollette per panno.
Mi piaceva starmene lì a stendere mentre il piccolo cane del portiere  mi abbaiava e poi di colpo si zittiva. E mi piaceva vedere tutti i vestiti stesi, le mie magliette dai colori vari, le sue quasi tutte magenta, gli slip e i reggiseni, le sue taglie piccole.
Quando splendeva il sole, il panorama mi ricordava gli spot che si girano là perché le location sono anonime e metropolitane, buone per impersonare una specie di città che può essere ovunque.
Ero bravo a stendere, mi prendevo il mio tempo. 
Ora nel mio soggiorno stendo in fretta e furia, dalla finestra intravedo il cortile interno in varie tonalità di ruggine e grigio, non si stendono i panni fuori e il terrazzo condominiale è solo un tetto con le antenne paraboliche e vecchi cavi in disuso.

sabato 16 aprile 2011

Contro la depilazione

L’altro giorno ero al Macro e c’erano delle polaroid bellissime di Mario Schifano, frame televisivi fotografati nel soggiorno di casa sua, che l’artista aveva successivamente ritoccato con dei tratti di colore.
Aveva fatto varie fotografie delle donne dello 005, quei numeri erotici su cui ci si masturbava a quattordici anni in mancanza di meglio.
Alcuni corpi nudi avevano fighe pelose e questo mi ha fatto pensare alla depilazione femminile.
L’incipit di Schifano mi serve a nobilitare un post che per alcuni potrà  sembrare ingiustamente volgare.
Io sono sempre stato per la figa pelosa, probabilmente dipende dal fatto che la mia prima educazione sentimentale è avvenuta con le pellicole interpretate da Edwige Fenech, quelle commedie erotiche piene di donne con fisici poco modificati dalla palestra e vulve con molto pelo.
Eravamo ancora ai confini con gli anni ’70 e sulle spiagge la depilazione delle ascelle era un opzione e non un dovere inderogabile.
Adesso, non che abbia una così vasta esperienza ma ne sento parlare in giro, sembra che sia molto forte la tendenza delle ragazze contemporanee a depilarsi le parti intime in modo scriteriato e completo.
Più sono giovani e più si depilano.
Una mia amica mi ha detto di aver visto in palestra perfino strane sculture di pelo, in ogni caso la depilazione completa una volta  prerogativa delle ballerine ora si è estesa e trova apprezzamenti impensabili fra gli uomini.
Senza scomodare pulsioni da lolite, per me la figa senza pelo è un non sense, tenderei a dire che visivamente la figa è il pelo, l’assenza di discussioni sull’argomento mi sorprende.

venerdì 15 aprile 2011

Contro le ragazze malinconiche



Quando presentai a mia nonna una ragazza di tanto tempo fa, la guardò a lungo, sorrise e disse la signorina ha gli occhi malinconici.
Io, stupido, non ci avevo mai riflettuto, mia nonna era più intelligente di me.
Tutte le mie ragazze hanno avuto occhi malinconici, un po’ smarriti, e scarsa capacità di interagire con il prossimo.
Io, con il passare del tempo, aumentavo le mie competenze sociali e agli occhi della gente apparivo solare e  divertente, estroverso e talvolta perfino brillante.
Eppure continuavo a scegliere ragazze con tendenze depressive più o meno evidenti e una misantropia di fondo che è solo il riflesso della mia parte oscura.
La malinconia me la porto dentro, mi piace la bossanova.
Le ragazze malinconiche ti incantano con il loro essere sfuggenti, promettono più di quanto possono mantenere, pensi di trovarci dentro chissà quali abissi in cui perderti.
Tutti vogliono perdersi in un abisso, è questa la molla dell’amore, nessuno ci riesce ma tutti anelano al vuoto.
Ora però non mi fregano più, ora almeno sono consapevole del trucco.

Ora finalmente quando conosco una ragazza che sembra eccessivamente felice  non me la prendo più, non mi sembra un atto innaturale, anzi sono contento.
Mi piace vedere l’energia altrui, mi piace la gente che balla anche quando non c’è musica giusta per ballare e anche se lo fanno da soli.
Mi piace persino fare il deejay per finta, fingere di muovere i tastini circolari del mixer per darmi un tono, abbassare e alzare la musica a mio piacimento, scegliere i brani come un dio onnipotente, vedere le scelte premiate o castigate dalla platea di aspiranti al divertimento temporaneo.

A volte se c'è la musica giusta, metto un pezzo e mi butto anche io, poi mi piace ritornare e decidere il prossimo pezzo, pensare ai collegamenti, essere banale oppure spiazzare.
L’eccessivo entusiasmo a volte ancora mi spaventa, ma sento che è solo un mio problema.
Non sono come loro, o lo sono solo a momenti, ma non c’è nulla di male in questo.

giovedì 14 aprile 2011

Contro gli autogrill


Non so quando e come sia iniziata l’idea dell’autogrill come luogo dotato di un certo fascino.
Anzi forse lo so, canzoni come quelle di Ligabue che cantavano di questi autogrill dove si festeggia, o di donne un po’ mamme e un po’ porche, la parodia della provincia americana trasferita in Emilia, l’on the road liofilizzato e depurato di tutti gli aspetti controversi, un po’ come il mito della harley e della route 66 spacciato da baristi quarantenni.
L’autogrill è il luogo per eccellenza della decadenza italiana, ogni volta che mi fermo sulla Caserta Roma ho la netta sensazione che tutti i difetti italiani si condensino in un luogo solo.


Libri di ricette, album di cantanti di Amici e di Vasco Rossi, libracci per convincere il tuo capo a darti una promozione, testi per adolescenti in calore.
Facce da Gomorra chiedono in malo modo caffè macchiati al banco mentre di lato ci sono pile di Saviano, in certi autogrill tipo Teano senti il peggior dialetto napoletano.
Non quello nobile di Totò ed Eduardo ma quello gergale, tipico dei manovali della camorra o di quelli che con la camorra ci convivono fin troppo bene.
Poi vestiti orrendi, facce che scrutano le informazioni sul traffico, famiglie rovinate dalla televisione e dai giornali, che parlano senza ritegno perfino di politica, di immigrati e Lampedusa.

mercoledì 13 aprile 2011

Contro il bengalese sotto casa


Sotto casa ho un chiosco gestito da bengalesi, è un posto molto utile perché è aperto fino a tardi la sera, almeno fino alle undici,  così è perfetto per la tua voglia di frutta e verdura o se ti serve una birra.
Insomma il classico posto indispensabile a Roma, in particolare da aprile in poi.
Il chiosco ha un capo, un bengalese sposato con figlia piccola, e degli aiutanti.
Sono un couchsurfer e quindi mi è capitato di ospitare gente in casa:
ho ospitato coreani, turchi, statunitensi, argentini, spagnoli.
Sono stato visto con ragazze di diverse nazionalità e questo unito al mio lavoro creativo, o pseudo tale, nel mondo dell’audiovisivo ha fatto di me un loro falso modello.
Sono convinti che tutte le ragazze siano mie amanti, e quando sono solo mi fanno battute, mi dicono tu non fidanzato vero? Tu furbo..? tu cambi ragazza sempre e poi mi chiedono dove è la bionda? Dove la spagnola? Dove è la turca?

Un aiutante in particolare è piu audace degli altri, quando mi serve ha sempre un mezzo sorriso malizioso, sembra sempre sul punto di chiedermi qualcosa, non è invidioso, sembra compiacuto dell’immagine che si è fatta di me.

Una volta capitai con la mia ragazza da loro a comprare della frutta: melone, pesche, albicocche, era luglio e volevamo farci una macedonia.
E il tipo prendeva la frutta e poi mi guardava facendomi una sorta di occhiolino, una specie di strano tic, davanti a lei senza ritegno annuiva con il capo complimentadosi a suo modo, sembrava la tipica scena recitata male che mettono nei  film porno fra due amplessi.
Non penso di essere mai stato tanto imbarazzato, il suo atteggiamento era subdolo eppure chiaro, dovevo solo provare a far finta di niente e reggere il gioco, non avevo altra scelta.
Così ora mi trovo sempre un po’ in difficoltà quando devo andare a comprare da loro frutta e verdura, ne risente la mia alimentazione.

lunedì 11 aprile 2011

Contro il mio biglietto da visita (che adoro)

Il mio biglietto da visita è bellissimo, quadrato, con un buchino in mezzo per guardarci dentro, è talmente bello che a volte mi pesa, sento che devo fare molto di più per meritarlo.
Con il biglietto da visita iniziò tutto.
Mi diede il suo biglietto dicendo non si sa mai e rimase ancora a parlare per cinque lunghissimi minuti al finestrino appena scesa dall’auto.
Io sul sedile dell’auto e lei in piedi, come se non volesse proprio tornare in albergo e infatti non voleva proprio salirci, poi disse che il mio biglietto da visita doveva essere arancione, il mio colore preferito.
Mi sembrava una frase di addio, un buon addio, di quelli che non so proprio come dare.
Tempo due giorni e ricevetti in mail il suo biglietto da visita, arancione, pensato per me. Quella frase non era un addio, ma era un principio e quasi non me ne ero accorto.
La mia giacchetta di jeans stilosa ha ricevuto oggi due complimenti convinti, dove le compri cose così ? mi hanno detto.
I miei occhiali non passano inosservati, fanno pendant con il mio colore preferito: arancio come il naranjito del mio portachiave e come le spremute di cui non posso fare a meno.
Complimenti anche per un paio di magliette, con belle grafiche che si adattano alle mie passioni, su una c’è lo schema del modulo lunare Lem.
Tutti questi complimenti devo girarli a lei, mi ricordano cose che mi piacevano.
Molti anni fa scrissi un racconto, si intitola Spremuta.
Nell’epilogo c’è una ragazza che si chiama Marianna, un nome che non so proprio come mi venne in mente.
Il giorno del biglietto da visita creato per me, mi disse anche che per lei ero come un deja vu inviandomi una canzone che si chiamava proprio così, era quello che aveva provato conoscendomi.
A pensarci ora aveva ragione, magari ci eravamo conosciuti in qualche altra dimensione, in fondo nel racconto avevo sbagliato solo di una n e anche lì la storia finiva male.




sabato 9 aprile 2011

Contro le barzellette

Gino Bramieri era famoso per le sue barzellette, erano il suo cavallo di battaglia.
Comico milanese, aveva un programma senile che si chiamava Gino Bramieri Show e che era una sorta di varietà di serie B, da giorno feriale.
Diceva battute piuttosto caste e le barzellette, almeno che non siano spinte, raramente ti strappano un minimo sorriso.
Era garbato e anticomico, aveva una dentiera scintillante  e finì la sua carriera recitando in una sit-com  perfettamente in armonia con il berlusconismo, si chiamava Nonno Felice.
In realtà a me le barzelette non piacciono proprio, detesto i ibri di barzellette e quelli che hanno sempre una storiella da raccontarti.
Pensavo fossero fuori moda, tipiche dell’eta pre adolesenziale dove diventano una forma di scoperta della sessualità incipiente, con il tempo diventano trite e noiose.
Mi piace la battuta improvvisata, fugace, non la gag precostituita, e la barzelletta con il suo schema usurato è la gag precotta per eccellenza, la salvezza di chi non ha sarcasmo vero e quindi deve rifugiarsi in un archivio preesistente preso a prestito da altri.
Chi è che crea le barzellette? Come si propagano? Me lo sono sempre chiesto.
Per esempio come e quando Berlusconi ha imparato le sue barzellette, le ha lette su manuali di quelli che si trovano sulle bancarelle a due euro oppure le ha racimolate nella sua lunga vita di imprenditore, fra cene d’affari e colazioni di lavoro?
Ultimamente Berlusconi ne sta raccontando varie, e al solito Repubblica non scherza nello stargli dietro, riesce sempre a trovare il lato sbagliato della cosa.
Se Berlusconi fa ridere i suoi sindaci lacchè del Pdl con una barzelletta un po’ pesante, da basso impero Romano, dicono che non sta bene sganasciarsi dalle risate e che tutto suona come poco istituzionale.
Se il giorno dopo Berlusconi cambia registro e racconta una barzelletta sporca depurata, rendendola così incomprensibile (pulire una barzelletta sconcia è operazione praticamente impossibile), il giornale sottolinea il gelo dell’uditorio e dice che Berlusconi non fa più ridere e ha perso la sua proverbiale verve.
Eppure se vedete il video delle ultime barzellette, non è tanto lui che mi inquieta, ma chi gli sta attorno: il consigliere regionale obeso e dagli occhi lucidi, il tipo che si sforza di ridere con la morte nel cuore, il presentatore dalla barbetta luciferina che sembra un incrocio fra un tenore  e un presentatore del Mi-sex (la Fiera del Porno che si tiene a Milano).
Quelli sono gli italiani medi, quelli lì sono uguali al pubblico di Zelig, hanno bisogno sempre di nuove gag e tormentoni.

venerdì 8 aprile 2011

Contro i bar

I bar hanno tavolini di design, bianchi, di materiale leggero che non so riconoscere, a volte possono essere anche di legno se il posto deve ricordare un altrove, quando non hanno abbastanza soldi ricorrono all’Ikea.
Quando sono messi ancora peggio hanno dei banconi industriali lucenti e comprati da qualche capannone all’ingrosso.
A volte prendono tavoli, poltrone e sedie da mercatini, allora diventano apparentemente rivestiti di un’atmosfera vecchia, ma di solito sono solo ricercati e pretenziosi, sono bar per amanti del modernariato.
Oggi perfino i bar hanno bisogno di avere un marketing minimo e un profilo facebook, hanno bisogno di fingere eventi, di mostrarsi inutilmente vitali.
A me piacciono i bar con i tavolini di plastica e le sedie bianche e rosse con sulle spalliere loghi pubblicitari di marche di gelati, mi piacciono quei posti senza nessuna pretesa, con una veranda esterna e il rampicante non in forma.
Posti pigri dove non accade nulla, dove si vengono a sedere di pomeriggio vecchie e badanti, coppie improbabili con bambino piccolo figlio solo di lei che bevono birre da alcolizzati, piccoli intermediari di affari inesistenti, per pavimento mattonelle consumate che mi ricordano vecchie terrazze frequentate da bambino.
A volte hanno lampade bianche con lampadine fluorescenti ad  alto inquinamento, quelle che fanno una luce più bella.
In un bar come questo quando una vecchia sola con badante, si è seduta affianco a me, ho pensato che era giusto metterle un accompagnamento che le ricordasse la sua gioventù.
Ho fatto partire dal mio computer Gino Paoli e Sergio Endrigo, sapore di sale e lontano dagli occhi.
Per un momento mi è sembrato che mi sorridesse lievemente rievocando il passato, ma era solo una illusione.
A commuovermi sono stato solo io.

Contro i giornali


Le barre di combustibile continuano a sciogliersi e  lo iodio a sversarsi in acqua..nasceranno bambini malformi e aumentaranno di percentuali spaventosi i malati di tumore.
La parola percentuale è rassicurante, diceva Fiodr, scientifica, asettica.
Il corriere aveva in prima pagina per alcuni giorni un contatore, il banner riportava il numero di giorni a cui era arrivata guerra in Libia.
Adesso sono passati già troppi giorni e il contatore è stato eliminato, la guerra in Libia non merita più una grafica ad hoc, eppure continua imperterrita, malgrado le esigenze della stampa.
I giornali in prima pagina hanno nuove notizie da mettere, non sono più importanti delle vecchie, ma sono nuove, questo è sufficiente.
Berlusconi, maggioranza e opposizione, processo  Ruby, perfino qualche fatterello di cronaca e qualche curiosità assortita va in testa alla hit parade.
Tsunami e terremoto, al meno che non ci siano altre catastrofi improvvise, sono eventi cronici, pure la guerra lo è diventata con il suo stallo così noioso da descrivere.

mercoledì 6 aprile 2011

Contro i cantanti che non si rassegnano al passaggio del tempo


Il meglio deve ancora venire sta scritto su grandi manifesti alla stazione Termini.
Sembra una minaccia, è solo lo slogan con cui Ligabue lancia il suo ultimo concerto.
A Sanremo Max pezzali vestito da contadino padano con giacca di velluto e camicia a scacconi dice di voler vedere il suo secondo tempo e che di sicuro sarà splendido, allunga le vocali per enfatizzare l’ottimismo.
Vasco Rossi in autogrill è affianco alle mentine, il suo album ha un titolo vitalista: vivere o niente.
Tutti questi cantanti, una volta che l’ispirazione, se mai l’hanno avuta, è svanita completamente, iniziano a parlare del passaggio del tempo.
Lo esorcizzano con canzoni e canzonette, non è solo una moda italiana, lo fanno anche gli insopportabili dinosauri della musica, i tizi tipo rolling stones che fanno quei tour dai titoli evocativi.
Cose tipo siamo ancora qui, the last tour, eccetera eccetera.
La musica non è fatta per i vecchi, mi viene da pensare, almeno che non cambi completamente e ti metti a cantare nuove cose, almeno che non sei Johnny Cash.

lunedì 4 aprile 2011

Contro l'attualità


Quando avevo venti anni ero un idiota fatto e finito, credevo ancora nell’attualità.
Leggevo il giornale ogni giorno, ascoltavo il telegiornale perfino, seguivo i talk show politici, ascoltavo parlare per ore ministri, segretari di partito, opinionisti.
Ed ingenuamente pesavo le cose, ero raziocinante e stupido, ora mi basta poco per svelare ipocrisie  e bugie.
Quanto tempo perso, credevo in piccoli cambiamenti, mi facevo incantare dall’attulità piccola e dimenticavo le cose importanti.
All’università feci persino un esame con Michele Santoro, mi chiese una domanda sulla Raitre di Guglielmi.
Mi allargai spaziando dalla tv verità agli anni del post guerra fredda, dissi quello che voleva sentirsi dire e me ne tornai con un trenta e lode.
Dopo che ho lavorato al telegiornale, pur con un ruolo per fortuna periferico, ho perso qualsiasi fiducia nella politica.
Ho visto politici ingrassarsi sotto i miei occhi, ho visto immagini di facce da patibolo sedute a congressi pomeridiani, ho visto visi magri, tetri aggirarsi per i corridoi e alcuni di loro avrebbero dovuto essere vicini alla mia teorica parte politica.

I giornalisti non sono quasi mai degni di essere letti, il rito dell’aggiornamento da quotidiano è operazione quasi mai utile.

domenica 3 aprile 2011

Contro l'ipocondria


La gente sfugge alla morte in mille modi, la paura di morire si esprime di solito in consulti medici, in un continuo ossessivo cialrare di malanni fisici.
Troppo complicato riflettere sul senso del presente o sull’eternità, troppo complesso cercare di aggirarla attraverso la meditazione o l’anima.
L’anima, o la mente, devono sempre essere cose di cui parlare in tono scaramantico, come fanno i bigotti e le vecchie in treno.
Ne parlano al telefono in treno, ne parlano di persona, ascolto la descrizione di viaggi e visite, con deferenza si parla di medici come se fossero competenti santoni e benefattori, si discute di ospedali e di medicinali.
Sono donne del sud, calabresi e siciliane,  ingenuamente fiduciose nella chirurgia ma fataliste all'occorrenza.
Quando vedo le farmacie stracolme di gente che chiedono medicinali per ogni minima cosa, o quando leggo della spesa pro capite degli italiani in aspirine e antistaminici capisco quanto la gente abbia bisogno di sicurezze o di distrazioni.
L’ipocondria è generalizzata e sottile, non ha più il volto di Moliere, è la medicalizzazione della vita.
Armadietti strapieni di sostanze chimiche e di rallentatori dell’età, e ognuno vuole sfuggire al tempo e ne resta sempre e di continuo imbrigliato.

venerdì 1 aprile 2011

Contro una signora che è contraria alla lettura in autobus



La signora dice di venire dalla campagna, è una di quelle signore che in autobus iniziano a chiedere indicazioni sulle fermate e sui posti da visitare e poi si prendono prepotentemente il centro della scena.
Viene da un certo ospedale in cui è andata a trovare qualche parente, vuole comunicare le sue sensazioni sulla città e ha bisogno di un pubblico, in fondo è come me, è una critica della vita senza saperlo.
Così inizia a fare una tirata, ma non contro la sporcizia o il caos, non contro la confusione dei mezzi pubbici, i zingari o l’immigrazione clandestina, la signora non è una normale qualunquista e ha la faccia buona: occhiali spessi, viso un po’ aguzzo, età compresa fra i cinquanta e i sessanta anni.
Se la prende a sorpresa con quelli che leggono dei libri in autobus, parte da una considerazione meramente fisica e comprensibile, quella della difficoltà personale di leggere su qualsiasi mezzo in movimento, ma poi inizia a addurre ragioni pretestuose.
Sostiene che i lettori sono degli irresponsabili perché rischiano di essere borseggiati, perché distraendosi mettono a rischio il loro portafogli.
Non capisce come si fa a leggere in mezzo a una metro, attaccati in modo poco stabile sui sostegni metallici, con la gente che spinge da ogni parte, poi continua affermando che alcuni ragazzi osservati erano anche gracili, come se questo fosse una ulteriore aggravante al loro strano vizio e mettesse a rischio la loro incolumità.
Attorno una coppia di anziani e un paio di giovani la stanno ad ascoltare sorridendo come si fa con una stramba che ha voglia di sfogarsi, anche se la tirata della signora non è il tipico monologo da matto d’autobus,il volto è sempre sorridente, l’espressione quasi stupita di questa strana abitudine metropolitana.
In realtà nessuno sta leggendo sull’autobus, io stavo per tirare fuori il mio libro, ma poi temendo di scatenare una discussione decido di non farlo.
Ho sempre letto in autobus, sui treni, in aerei, forse le letture migliori, e per una volta sento chiaramente di essere il bersaglio di una critica.