domenica 13 marzo 2016

CIAO ITALIA




(Foto di Giovanna Eros)


Aveva 14 anni e si annoiava.

Aveva 14 anni, si annoiava e ammazzava mosche oppure girava in circolo per il soggiorno.
Aveva 14 anni, si annoiava, ammazzava mosche girando in circolo nel soggiorno e nello stesso mese c’erano i Mondiali di calcio in Italia.
A causa degli stessi Mondiali il ragazzo possedeva un quaderno che riempiva ogni giorno con le cronache stringate ma ben realizzate, corredate da voti e tabellino, di ogni singola partita.
Il compilatore era il ragazzo stesso che aveva un futuro già scritto da giornalista sportivo.
Il ragazzo guardava ogni singola, maledetta partita di quei Mondiali e se c’erano partite in contemporanea barava, fidandosi poco convinto dei resoconti dei giornalisti.
Il ragazzo non diventò giornalista sportivo e probabilmente a quest’ora starà facendo un lavoro qualsiasi.
Quei Mondiali furono fra i più noiosi di ogni tempo e il caldo non c’entrava proprio niente.
Quei Mondiali però avevano un bellissimo simbolo, incompreso da tutti, dagli adolescenti fino a tutta la stampa nazionale.
Un simbolo scelto con un concorso in cui vinse un grafico di media caratura, il nome anche fu scelto per concorso.
Potevi scegliere sul retro della schedina fra cinque opzioni: chiamarlo Ciao, Amico, Beniamino, Dribbly oppure Bimbo.
Vinse Ciao, la soluzione più facile, ma quel simbolo di amichevole e di ciaoistico aveva poco.
Non era un pupazzo o un animale, non una frutta o una verdura antropomorfizzata.
Più Linea di Cavandoli che manufatto Disney insomma.
Vettoriale, geometrico, gelido, scomponibile, rifletteva l’esordioo del digitale, era già adatto per finire in avveniristiche proiezioni 3D.
La Rai non era ovviamente pronta a sfruttare la sua potenza immaginifica, i capostruttura erano in imbarazzo, restavano di notte insonni a pensare a come farlo interagire con conduttrici opulente ignoranti di calcio.
Avrebbero preferito un orsacchiotto, un asino o magari un ulivo, una quercia.
Le riproduzioni del logo come soprammobile erano sempre agghiaccianti, soprattutto per colpa del pallone che in quella linearità bianco, rosso e verde, sembrava sempre beffardo e mal posto.
Non poteva diventare un oggetto o un souvenir, nulla da poter abbracciare; Ciao era già nella virtualità, era fantascienza applicata ad un evento di massa.
Non se ne vendettero molti oppure si vendettero per uso aziendale e finirono dimenticati in scatoloni e armadi, in ogni caso non diventarono oggetti da recupero vintage, non ce n’è traccia nei mercati.
Eppure qualcuno pensò di rendere omaggio a quel simbolo che prometteva il futuro mentre l’Italia si avviava allegramente alla rovina.
Qualche anonimo geometra inconsapevolmente stava ottenendo dal suo progetto il capolavoro definitivo, un’opera che vale più di tutta l’arte contemporanea della penisola.
Più dei singoli graffiti degli “street artisti” che rendono ogni città uguale all’altra, come duty free di un aeroporto.
Non sappiamo chi a Palagonia, nella profonda Sicilia, propose di onorare una rotonda con una copia di un Ciao a grandezza innaturale.
Una copia con un pallone rosso, inquietante come un Super Santos da film horror.
Non sappiamo se sia stata una licenza dello scultore, non sappiamo nemmeno se dietro ci sia uno scultore o se sia stato prodotto da un’azienda che fabbrica statue di gesso di Padre Pio nelle zone industriali delle nostre cittadine del sud, così distrutte e così amate.
Il manufatto di ferro piazzato in uno slargo qualsiasi deve avere avuto un’inaugurazione trionfale fra assessori del Psi e della Dc.
Tangentopoli era alle porte, due anni e quello splendore sarebbe stato intaccato per sempre.
Poco importa se sia stato vero o falso, era splendore che mai più sarebbe ritornato.
Ora Ciao resta in piedi, arrugginito, nessun essere umano ha sentito la minima pietà e ha provato a restaurarlo, e questo è stato un bene.
Da questa inedia si è formata l’opera.
Un’ opera collettiva, ma non come quei collettivi che inondano di finta arte ogni spazio.
Nessuno ha avuto nemmeno il coraggio di rubarlo o di requisirlo o di proporne la distruzione come se fosse un’opera di regime.
E questo è un bene anche; non ha suscitato emozioni di odio, invidia o avidità.
L’indifferenza a volte può essere la nostra maggiore ancora di salvezza.
La statua di Palagonia meriterebbe di essere protetta come impersonificazione commovente di una decadenza tutta italiana, di venticinque anni di declino, molto più significativo di qualsiasi monumento ai caduti.
Un monumento al caduto.



Ciao Italia

Aveva 14 anni e si annoiava.
Aveva 14 anni, si annoiava e ammazzava mosche oppure girava in circolo per il soggiorno.
Aveva 14 anni, si annoiava, ammazzava mosche girando in circolo nel soggiorno e nello stesso mese c’erano i Mondiali di calcio in Italia.
A causa degli stessi Mondiali il ragazzo possedeva un quaderno che riempiva ogni giorno con le cronache stringate ma ben realizzate, corredate da voti e tabellino, di ogni singola partita.
Il compilatore era il ragazzo stesso che aveva un futuro già scritto da giornalista sportivo.
Il ragazzo guardava ogni singola, maledetta partita di quei Mondiali e se c’erano partite in contemporanea barava, fidandosi poco convinto dei resoconti dei giornalisti.
Il ragazzo non diventò giornalista sportivo e probabilmente a quest’ora starà facendo un lavoro qualsiasi.
Quei Mondiali furono fra i più noiosi di ogni tempo e il caldo non c’entrava proprio niente.
Quei Mondiali però avevano un bellissimo simbolo, incompreso da tutti, dagli adolescenti fino a tutta la stampa nazionale.
Un simbolo scelto con un concorso in cui vinse un grafico di media caratura, il nome anche fu scelto per concorso.
Potevi scegliere sul retro della schedina fra cinque opzioni: chiamarlo Ciao, Amico, Beniamino, Dribbly oppure Bimbo.
Vinse Ciao, la soluzione più facile, ma quel simbolo di amichevole e di ciaoistico aveva poco.
Non era un pupazzo o un animale, non una frutta o una verdura antropomorfizzata.
Più Linea di Cavandoli che manufatto Disney insomma.
Vettoriale, geometrico, gelido, scomponibile, rifletteva l’esordioo del digitale, era già adatto per finire in avveniristiche proiezioni 3D.
La Rai non era ovviamente pronta a sfruttare la sua potenza immaginifica, i capostruttura erano in imbarazzo, restavano di notte insonni a pensare a come farlo interagire con conduttrici opulente ignoranti di calcio.
Avrebbero preferito un orsacchiotto, un asino o magari un ulivo, una quercia.
Le riproduzioni del logo come soprammobile erano sempre agghiaccianti, soprattutto per colpa del pallone che in quella linearità bianco, rosso e verde, sembrava sempre beffardo e mal posto.
Non poteva diventare un oggetto o un souvenir, nulla da poter abbracciare; Ciao era già nella virtualità, era fantascienza applicata ad un evento di massa.
Non se ne vendettero molti oppure si vendettero per uso aziendale e finirono dimenticati in scatoloni e armadi, in ogni caso non diventarono oggetti da recupero vintage, non ce n’è traccia nei mercati.
Eppure qualcuno pensò di rendere omaggio a quel simbolo che prometteva il futuro mentre l’Italia si avviava allegramente alla rovina.
Qualche anonimo geometra inconsapevolmente stava ottenendo dal suo progetto il capolavoro definitivo, un’opera che vale più di tutta l’arte contemporanea della penisola.
Più dei singoli graffiti degli “street artisti” che rendono ogni città uguale all’altra, come duty free di un aeroporto.
Non sappiamo chi a Palagonia, nella profonda Sicilia, propose di onorare una rotonda con una copia di un Ciao a grandezza innaturale.
Una copia con un pallone rosso, inquietante come un Super Santos da film horror.
Non sappiamo se sia stata una licenza dello scultore, non sappiamo nemmeno se dietro ci sia uno scultore o se sia stato prodotto da un’azienda che fabbrica statue di gesso di Padre Pio nelle zone industriali delle nostre cittadine del sud, così distrutte e così amate.
Il manufatto di ferro piazzato in uno slargo qualsiasi deve avere avuto un’inaugurazione trionfale fra assessori del Psi e della Dc.
Tangentopoli era alle porte, due anni e quello splendore sarebbe stato intaccato per sempre.
Poco importa se sia stato vero o falso, era splendore che mai più sarebbe ritornato.
Ora Ciao resta in piedi, arrugginito, nessun essere umano ha sentito la minima pietà e ha provato a restaurarlo, e questo è stato un bene.
Da questa inedia si è formata l’opera.
Un’ opera collettiva, ma non come quei collettivi che inondano di finta arte ogni spazio.
Nessuno ha avuto nemmeno il coraggio di rubarlo o di requisirlo o di proporne la distruzione come se fosse un’opera di regime.
E questo è un bene anche; non ha suscitato emozioni di odio, invidia o avidità.
L’indifferenza a volte può essere la nostra maggiore ancora di salvezza.
La statua di Palogonia meriterebbe di essere protetta come impersonificazione commovente di una decadenza tutta italiana, di venticinque anni di declino, molto più significativo di qualsiasi monumento ai caduti.
Un monumento al caduto.