lunedì 30 maggio 2011

Contro i palloni di cuoio


I miei eroi facevano acrobazie incredibili: palleggiavano con destrezza, stoppavano al volo, calciavano con una coordinazione straordinaria.
Avevo nove, dieci anni e queste acrobazie le facevano dei miei coetanei in cortili di forma irregolare, con un pallone rosso arancione di gomma dura.
Quando gli stessi giocatori bambini si trovavano su un campo di terra battuta dalle dimensioni rettangolari, con le scarpette ai piedi e un pallone di cuoio vero da calciare, non erano più loro, inciampavano sul pallone; niente più andava allo stesso modo.
La differenza era nel tipo di pallone: era un problema di leggerezza, di traiettoria.
I miei eroi erano campioni da Super Santos.
Di Super Santos però non ce n’era uno, non è mica così facile; quello fabbricato dalla Mondo, quello ufficiale, lo trovavi nei negozi di giocattoli in città, al mare spesso dovevi accontentarti di una imitazione.
Ti accorgevi che non era l’originale dalla stampa del marchio sbiadita, sfocata, dalle cuciture imprecise, dalle imperfezioni vistose.
Almeno era quello che pensavamo all’epoca, perché non ci sono conferme delle contraffazioni da parte di nessuno.
D’altronde quando l’imitazione non riguarda borsette di lusso e vestiti di marchi celebri, passa sotto silenzio e in fondo nessuno potrebbe stimare in modo preciso quanti Super Santos si vendessero all’epoca in prossimità delle spiagge italiane, sbaglierebbe certamente per difetto.


Il Super Santos lo trovavi dentro retine di plastica colorate.
Per sceglierlo ci voleva tempo, dovevi tastarli, osservarli da vicino, evitare quelli che avevano una forma da sfera allungata, in linguaggio tecnico ovalizzati, in dialetto napoletano semplicemente a cuzzutrumbolo, e poi c’era un segreto: il Super Santos migliorava invecchiando.

Si perfezionava man mano che lo usavi, almeno fin quando non si bucava.
Per bucarlo non ci voleva un chiodo appuntito, non è mica come stare in un cartone animato; bastava un ramo acuminato, un coccio di bottiglia, una pietra tagliente.
C’era solo una soluzione in quel caso: fare una pezza di plastica a caldo; si passava un coltello riscaldato sul pallone e poi si metteva la pezza sul punto in cui c’era la bucatura ma era una cosa complicata, da fare al volo.
In alcuni casi la rianimazione non andava a buon fine e  l’unica soluzione era comprarne un altro ed a volte capitava che si faceva tardi ed eri costretto a rimediare con un Super Tele.
Il Super Tele era leggero, leggerissimo, di materiale plastico in vari colori e dallo spessore impalpabile, era un pallone da femminucce.
Solitamente venduto dai tabaccai e dai negozi di giocattoli di second’ordine, il suo nome composto sembrava quasi prevedere quello che sarebbe avvenuto in seguito: la televisione che ingurgita il calcio.

Il Super Tele andava bene per farlo volteggiare in aria in una parodia di pallavolo o per usarlo in acqua in una strana pallanuoto da mare in cui potevi anche non nuotare, ma per giocarci a pallone dovevi essere davvero disperato.

La Mondo realizzava anche altri palloni: il più famoso era il Tango, prodotto  su licenza della Adidas. Il Tango era la versione economica del pallone ufficiale del mondiale di Argentina ’78.
Se il Super Santos era il pallone allo stesso tempo proletario e borghese, interclassista per eccellenza, il Tango era una chimera, un desiderio poche volte soddisfatto, un oggetto snob.
Era di gomma ma fingeva di essere di cuoio, era duro, anche troppo, era un pallone raffinato. Costava tre volte il Super Santos ed era una sofferenza vederlo schiacciato da una 128 qualsiasi.
Le partite giocate con il Super Santos erano più spettacolari perché più imprevedibili, il pallone prendeva effetti strabilianti e poi andava bene su qualsiasi superficie, anche se dava il suo meglio sull’asfalto sbrecciato e sulla spiaggia al tramonto.

In varie parti d’Italia ci furono palloni concorrenti come l’Elite e il San Siro ma già i nomi li connotano come sottoprodotti di nicchia, che non potevano scalfire il duopolio Tango - Super Santos.
D’altronde in quegli anni non c’era l’offerta sterminata di prodotti di cui il mercato ha bisogno per alimentarsi, le scelte erano più facili e immediate.
Coca Cola o Pepsi? Brooklyn o Big Babol? E così via.
Super Santos deve il suo nome, anche se perfino su questo mancano risposte certe, alla squadra in cui Pelè ha militato per quasi tutta la carriera: il grande Santos di Pelè, calciatore per noi già lontano, mai visto davvero giocare, eccetto che nella sua comparsata in Fuga per la Vittoria, ma ancora presente nella memoria dei più grandi, dei padri e degli zii.
D’altronde negli anni ’80 il Brasile era ancora il centro del calcio mondiale.
Tutti i campioni più forti venivano da lì: Zico, Falcao, Cerezo, Junior, Socrates.
Tutti sognavano di avere un brasiliano nella squadra del cuore, bastava pronunciarne il nome per immaginarsi sfracelli, anche se a volte dovevi accontentarti di un Pedrinho o un Luvanor qualsiasi.
Le partite del calcio brasiliano, con l’erba altissima che rendeva lenti i passaggi, le trasmettevano certe tv locali e la gente le guardava con ammirazione, altro che Premier League e Liga.
Il calcio era lentissimo e affascinante, c’erano lunghissimi passaggi al portiere che accarezzava il pallone fra le mani per un tempo interminabile se la sua squadra era in vantaggio, e poi la rilanciava quasi controvoglia.

Se rivedi in tv Italia-Brasile del 1982 puoi sorprenderti ad ammirare il pallone rotolare pian piano in mezzo al campo.
Un pallone pigro perfettamente sintonizzato con il caldo estivo in cui si giocavano i Mondiali, ritmi ancora immuni dal pressing a tutto campo che ora ti ritrovi anche a luglio inoltrato.

Il calcio è proprio cambiato e di Super Santos, Super Tele e delle loro innumerevoli contraffazioni, ai giorni nostri, se ne vedono davvero pochi in giro.
“I bambini non giocano nei cortili” direbbe qualche osservatore con un approccio sociologico e quando giocano vogliono qualcosa che ricordi il calcio che si vede in tv: palloni bianconeri, di simil-cuoio, fin dalla più tenera età.
Oppure palloni con i colori delle squadre più famose, con milioni di tifosi, che si possono permettere un merchandise su larga scala.
Palloni così belli non si vedevano certo per le strade negli anni ’80: erano palloni da calcio a 11, da settore giovanile, da aspiranti professionisti.

Io mi ricordo che sul Super Santos la gente dipingeva delle cose, usava dei pennarelli neri per fare strani geroglifici, scrivere frasi misteriose, mandare messaggi cifrati.
Sullo sfondo rosso arancione si stagliavano dichiarazioni d’amore e di odio, passioni politiche e gusti musicali, a volte semplicemente uno ci scriveva il suo nome per non farselo rubare quando lo portava in classe per l’ora di educazione fisica.
Anche se spesso il Super Santos era una proprietà collettiva, acquistato con collette faticosamente raccolte, era di un gruppo più che del singolo e tutti avevano il diritto di marchiarlo con un proprio segno distintivo.
Di sicuro trovare un Super Santos immacolato era cosa rara, invece non era difficile vedere Super Santos sgonfi e ormai inservibili, esausti per sempre.
E non c’era nulla di più triste di un Super Santos abbandonato ai margini di una strada, bucato, con le scritte raggrinzite, invecchiato senza più la speranza di essere preso a calci.

venerdì 27 maggio 2011

Contro le fotocamere digitali

Le fotocamere digitali hanno permesso a tutti di diventare fotografi.
Non è difficile, con una buona camera, ottenere delle belle foto.
Una conoscenza sufficiente di Photoshop e dei programmi di ritocco fotografico permette, in seguito, di tarare al meglio contrasti e colori.
Il digitale trasforma tutti in giapponesi: la gente fotografa tutto e tutti senza ritegno.

Ai tempi del rullino le foto erano limitate e, come ogni bene, la scarsità ne incrementava il valore: non tutte le foto scattate avevano il diritto di essere mostrate dopo lo sviluppo.
Ora invece si fotografa ovunque, dovunque ti giri ci sono camere e zainetti con obiettivi, ragazze di vent’anni se le portano dietro in gita, al parco, nelle piazze cittadine, in feste private.

Tutte queste foto di primi piani e espressioni studiate, tutte queste istantanee di viaggio finiscono negli album di Facebook.
La gente guarda le foto, clicca mi piace e poi se ne dimentica.
Quasi mai le stampa, spesso si accumulano nel computer e si rimanda sempre il tempo in cui potranno essere stampate e quando quel momento arriva ormai è troppo tardi.
Il tuo amore non c’è più, il tuo viaggio non può essere resuscitato, non hai più voglia di stampare il tuo passato.

Così le sue foto sul mio computer restano dove stanno e, prima o poi, spariranno quando il mio hard disk sarà costretto a una violenta formattazione.
Molte nemmeno le ho, me le mandò solo in bassa definizione, i pixel sgranati non rendono merito ai nostri sorrisi.
Una volta in auto scherzavamo sulle foto di matrimonio, trovavamo banale che tutti vogliano scattarsi le foto nei soliti posti, sarebbe il caso di fotografarsi nei posti dove ti sei conosciuto.
Ci mettemmo ad elencare i posti dove avremmo potuto farle: il chiosco del bengalese; il ragazzo del negozio di abbigliamento che ci aveva ammutoliti, chiedendoci quando ci sposavamo; il piccolo ristorante dove l’avevo portata a cena; la gelateria dove avevamo passato seduti ore senza accorgercene; il suo albergo sull’Aurelia.
Mi ricordai del gioco e le regalai un album con tutte le foto dei posti, vuoti senza di lei; non era una buona idea.
Quell’album me lo restituì, prima di andarmene l’ho lasciato davanti al suo portone; di sicuro qualcuno se l’è preso, avrà buttato le foto.

Gainsbourg parlava, in una canzone, delle foto scattate in Asia a duecento Asa; quelle foto sicuramente erano in un album da qualche parte, quell’album si sfogliava nei momenti di felicità, si teneva nascosto quando un amore finiva, si risfogliava presi dalla nostalgia o magari le foto finivano strappate per la rabbia, bruciate in un atto liberatorio.
Bisognerebbe sempre avere delle foto da bruciare, da conservare o nascondere in qualche cassetto.

giovedì 26 maggio 2011

Contro San Patrignano


Una pubblicità progresso contro la droga degli anni ’90 mostrava un ragazzo che rifiutava la siringa offerta da qualcuno della comitiva, un tipo dallo sguardo incerto e sarcastico, e  la gettava via. 
La siringa si infilzava in un tronco d’albero, come una freccetta sul bersaglio, e una voce fuori campo diceva qualcosa sul non imitare gli altri.
Il ragazzo che rifiutava aveva lo sguardo volitivo, che doveva suggerire personalità, sembrava un piccole eroe con la mascella in rilievo.

L’idea che uno si drogasse per imitare il gruppo era molto di moda in quegli anni presso i sociologi da televisione e i preti delle comunità di recupero; a me è sempre sembrata una stupidaggine.
E’ un idea che tarda a tramontare, ci sono ancora pubblicità progresso con giovani che sanno sempre scegliere la cosa giusta, malgrado le pressioni delle cattive compagnie.
Una delle ragioni per cui non mi avvicinai alla droga è che l’eroina allora si iniettava endovena e io avevo terrore della siringa.
Avrei avuto tutto per diventare un potenziale tossico: ero malinconico, mediamente borghese, provinciale e timido.

Negli anni ’80  la gente moriva di eroina per le strade e nei parchi, ed era pieno di chiassosi predicatori che mettevano su comunità in campagna per recuperare i tossicodipendenti.

Il peggiore di tutti era Muccioli: una specie di padre severo, che si era improvvisato per motivi misteriosi salvatore dei drogati iniziando a raccoglierne diversi nel suo casale, senza avere alcun tipo di conoscenza pregressa in materia.
Prima per un periodo era stato medium e spiritista, aveva persino fondato un gruppetto che si occupava di parapsicologia, si chiamava Il cenacolo.
Nel suo San Patrignano i drogati, tossicodipendente è la solita parola eufemizzante che entrerà in uso anni dopo, li chiudevano in celle di contenzione, li incatenavano e li mettevano a lavorare duro per stimolare la loro voglia di vivere.

Riuscirono a coinvolgere imprenditori e star nei loro raduni annuali per raccogliere fondi, al tempo fra i suoi sponsor principali c’erano Red Ronnie e Letizia Moratti.
Red Ronnie era un conduttore e tuttologo musicale che si vantava di intervistare le star dando loro del tu, trattandoli in modo confidenziale.
La sigla del suo programma più famoso, Be bop a lula, era un montaggio di scene in cui scherzava con Vasco Rossi e vari musicisti di fama internazionale.
Collezionista di chitarre, ne aveva comprata una carissima appartenuta a Jimmy Hendrix, craxiano e amico dei giovani, era riuscito a  convincere cantanti in perfetta buona fede a recarsi da Muccioli.
Jovanotti disse nella sua canzone di successo Io penso positivo di volere un'unica grande chiesa che andasse da Che Guevara a Teresa di Calcutta, passando per San Patrignano.

Letizia Moratti e consorte invece andavano ogni anno a tenere agli eroinomani dei verbosi discorsi su come dovessero tornare nella società a tutti i costi.
Discorsi sul lavoro, sulla produttività dell’esistenza, sulla necessità di crearsi una famiglia; quando penso ora a quegli edificanti monologhi mi immagino tanti ex muccioliniani in falange compatta che disprezzano i loro ex compagni che non ce l’hanno fatta.


I drogati di Muccioli, quando diventavano ex drogati o erano in via di guarigione, li portavano in pellegrinaggio nei programmi di Mike Bongiorno a parlare di agricoltura o attività artigianali varie, mentre il conduttore li guardava con fare paternalistico e giustamente poco convinto, li trattava come bambini a cui non si può credere del tutto.
C’era assieme a loro Muccioli in persona, o un suo delegato, che sorrideva alle battute cercando di non darlo troppo a vedere.
Non avevano più gli occhi vuoti degli eroinomani di provincia che mi capitava di vedere da bambino vicino a certi parcheggi dove andavamo a giocare a calcio, ma apparivano comunque svuotati, quasi senza personalità, come se fosse stata loro imposta una cura drastica stile Lodovico di Arancia Meccanica.
Avevano trasformato dei possibili ribelli, ribelli mancati, falliti, ma comunque ribelli, in umili scimmiette.
Io diffidavo di Muccioli con l’istinto di un bambino, ben prima che cominciassero i processi sulle presunte violenze fatte a ospiti della comunità: dalle percosse a varie forme di tortura, fino ad alcune morti sospette e ad atti di violenza sessuale.
Nei casi più leggeri, pugni e schiaffi, Muccioli si difendeva dicendo che erano violenze legittime motivate dal difficile contesto, sulle accuse più pesanti smentiva categoricamente.
Smentiva di  aver usato il suo sperma come fluido per poter disintossicare ragazze.
Di certo a San Patrignano regnava un'atmosfera pesante, le regole erano così dure che qualcuno fu punito soltanto per aver osato alzare gli occhi dal piatto mentre stava mangiando.
Questo tipo di comunità favorisce sempre i  conformisti e punisce gli originali, quelli che provano a discostarsi dalla tirannia della maggioranza.
Indipendentemente dalla conclusione giudiziaria delle sue faccende - Muccioli uscì assolto in Cassazione da un processo e colpevole di favoreggiamento in un altro - l’ho sempre trovato un personaggio pericoloso.
Se Muccioli era il peggio di tutti, non sono mai stato simpatizzante degli altri preti da comunità, sia quelli di destra, vicini al potere, come don Gelmini, sia quelli che avevano l’aria dei buoni curati di paese e cercavano una sponda fra i progressisti.
Sacerdoti come Don Mazzi che finii per diventare una spalla di Mara Venier in Domenica In; le comunità avevano un forte legame in quegli anni con la musica e la televisione.
Delle comunità se ne parla molto poco di recente.
Al massimo si vedono al centro di Roma alcuni ex tossici che cercano di estorcerti qualche euro sospetto facendoti firmare un inutilissima firma contro la droga; mi ricordano certe frasi di politici conservatori, li trovo insopportabili.
Il crollo di consumo dell’eroina, l’avvento delle droghe sintetiche e l’uso di massa della cocaina rendono più complicato giustificare la loro presenza.
L’eroina ti faceva uscire dal mondo, un eroinomane era un alienato, uno che usciva dalla società e si autorelegava come reietto.
E le comunità erano i luoghi dove si educava a tornare nel mondo, quasi sempre per diventare di nuovo una pedina efficiente ed utile.
Le comunità erano pensate per l’eroina, si trovano in difficoltà ad affrontare sballi chimici e drogati che di giorno hanno vite normalissime e efficienti, in linea con i desideri imprenditoriali e i tempi della società.
Il drogato è entrato nella società e le comunità non hanno più un nemico chiaro da combattere, ospitano i dipendenti da pasticche ma non è la stessa cosa.
Anche in televisione le sostanze chimiche fanno meno share degli eroinomani che avevano scritti in faccia i segni del loro suicidio.

mercoledì 25 maggio 2011

Contro Superman



Ci sono quelli che cercano vecchie piccole cose in rete per provare quel sentimento mieloso che è la nostalgia.
Da non confondere con la malinconia; la malinconia è totale, completa, non ha a che vedere con il tempo, è fuori dal tempo.
Cercano spot, ascoltano vecchie canzoni, aspirano a un come eravamo infantile, alla Fabio Fazio.
E poi ci sono quelli che cercano per trovare altro; guardando uno spot vecchio puoi capire tante cose sulle persone, sui loro sogni soprattutto.
A volte perfino su te stesso ma devi andarci piano, senza aspettarti niente.
Così capita che sono qui a girare disperatamente su internet alla caccia di una vecchia pubblicità.
Non ricordo il claim, non ricordo la marca, so solo che è una marca di profumo e nemmeno tra le più famose. Non riesco a trovarla, e così mi resta in testa la colonna sonora e un effetto audio: un bip.

La colonna sonora è basata fondamentalmente su un sassofono.
Il sax è anni ’80 (mi ricordo le copertine dei dischi di Fausto Papetti con sopra foto di donne nude, preferibilmente meticce; le scoprii, per la prima volta, a casa di mio zio, tutti avevano uno zio che li comprava), i suoi assolo servivano a trasformare una canzone pop nella canzone pop perfetta.
Per colpa di tutti quegli assolo ascoltati da bambino, il sassofono divenne il mio strumento musicale preferito, e quindi mai suonato.
Nella pubblicità una donna in piedi apre le tendine, quelle bianche che si chiamavano veneziane, e permettevano ai direttori della fotografia di giocare con il controluce.
È mattina presto, è in sottoveste, recupera i suoi vestiti, lasciati su una sedia costosa e sul pavimento.
Indossa un tailleur, forse giallo, si mette collant e tacchi,  è bella: una tipica modella da pubblicità anni ’80, donne così non ne hanno fatte più.
Sta andando al lavoro: è un impiegata in carriera, una avvocatessa rapace, una segretaria ambiziosa.
Un uomo dorme steso, con il lenzuolo a tenere scoperta la fascia degli addominali e i pettorali; lei si veste piano per non svegliarlo.
Non ricordo il montaggio, mi mancano particolari e inquadrature, ma l’atmosfera la percepivo bene già allora: 
il sesso resta impresso anche a un bambino di dieci anni.
Il sesso per me era quello: la mattina e una donna che non ti sveglia, l’energia prosciugata, la scena patinata.
Il bambino di 10 anni comprende il prima e il dopo, crescendo darà importanza al durante, fin quando non capirà improvvisamente che contano di più il prima e il dopo.
Tanta fatica per tornare al punto di partenza: è sempre così.
Nello spot, a questo punto, c’è un ellisse. La donna esce, si sente la porta chiudersi e dopo poco parte un bip, inserito nella colonna sonora con un mix audio leggeremente scorretto. Scatta una ingombrante segreteria telefonica, all’epoca segno distintivo da yuppie, è lei che lascia un messaggio.
Non ricordo le parole ma è una specie di sveglia lussuriosa, una gratificazione virile.
Fa una domanda del tipo stai ancora dormendo?  Non sono una coppia, non vivono assieme, non sono fidanzati.
Sesso occasionale.
L’uomo apre gli occhi, fa un sorriso compiaciuto, dettaglio sul flacone di profumo.
Due o tre anni, e sarebbe arrivato un opuscolo che spiegava cosa era l’Aids.
Era estate, lo portò mio padre nella nostra casa a mare, ne parlavano tutti, qualcuno insinuava che il contagio avveniva con la saliva, bastava un bacio; l’opuscolo non tranqulllizava come avrebbe voluto, i complottisti trionfarono per qualche mese.
Lo Stato rispose seminando paura, come era consueto in anni da guerra fredda, in tv passarono una pubblicità progresso contro l’Aids: c’era un tizio che tradiva la moglie con una collega d’ ufficio.
La collega era provocante come quella dello spot del profumo, rideva in modo eccessivo seduta alla scrivania e aveva attorno un alone viola, simbolo iconico della malattia.
La colonna sonora era elettronica, con vocalizzi da sintetizzatore ansiogeno.
I due andavano a scopare in auto nel garage aziendale. L’uomo tornava a casa con il Corriere sotto il braccio e l’ alone viola attorno al corpo; la moglie lo aspettava a braccia aperte, in gonna lunga, castigata, con un sorriso onesto, borghese.
Lo speaker, con una voce piattamente allarmante, diceva che era rischioso cambiare troppo spesso partner ed erano sconsigliati i rapporti occasionali.
Nell’ultima scena si vedono moglie e marito camminare su un marciapiede affollato, tutti e due racchiusi nello stesso alone viola coniugale; fra la folla, qua e là, avevano aggiunto in postproduzione altri aloni.
Il preservativo si vedeva solo alla fine, come ultimo, parziale, e quindi inefficace, baluardo: era bianco, ospedaliero, serviva solo a ridurre il rischio.

Avevo tredici anni e tutto il mio immaginario sessuale cadde in frantumi.
Tutto per colpa di troppa sollecitudine statale, delle pubblicità progresso finite nelle mani sbagliate, come quasi sempre accade, anche oggi.
Vado su You Tube e mi guardo per l’essesima volta lo spot degli aloni. 
Scopro che quella musica così angosciante era di Laurie Anderson.
Il titolo è O Superman.

martedì 24 maggio 2011

Contro Jim Morrison

Che fine ha fatto Luca N.?
Era il ragazzo perduto della scuola, senza essere davvero un duro, era quello che si faceva dieci canne al giorno e aveva sempre l’aria smarrita.
Quello che piaceva alle ragazze e del quale avevo un  immotivata soggezione.

Era quello che assomigliava molto vagamente a Jim Morrison.
Capelli lunghi, ondulati, viso delicato, androgino, da angelo caduto; di tipi così ne è pieno il mondo, sono stereotipi vaganti, ribelli da canzone di Ligabue, eppure riescono sempre ad essere credibili.
Giacca di pelle, jeans sdrucito, e come moto una Red Rose.
Una moto di cilindrata 50 che imitava le custom e aveva stampata una rosa sul serbatoio.
La rosa ricordava il simbolo dei Guns N’ Roses: c’era molta confusione in quegli anni.
Morrison, Axel Rose e Cobain si incrociavano e si mescolavano offrendo modelli diversi e tuttavia ognuno di loro era un modello falso, virtuale, che strideva con la realtà di una cittadina sonnacchiosa.
Fra tutti i modelli spiccava Jim Morrison.
All’epoca Kurt Cobain era troppo contemporaneo per la provincia, morì nell’aprile del 1994 quando io e Luca eravamo in quinta liceo.
L’influenza di Cobain si limitava alle camicie di flanella, quelle camicie da boscaiolo di qualche stato settentrionale degli Usa.
Luca me lo ricordo in gita, stravaccato sul sedile posteriore di un pullman diretto da qualche parte nella notte ellenica, mentre si scolava di nascosto del Southern Comfort: quel bourbon dolciastro e stomachevole bevuto perché era il preferito di Jim Morrison.
Pochi anni prima il suo mito era stato rilanciato dalle major, a causa di un film di Oliver Stone dedicato alla sua vita.
A scuola Luca non andava bene ma nemmeno era il tipo da doppia bocciatura consecutiva, l’irrecuperabile; era il classico ragazzo da 36, veniva rimandato ogni anno in tre materie.
Era in un'altra sezione e di sera non era sotto il mio portico.
Ogni gruppetto aveva il suo spazio. Luca era in quello adiacente al mio, spesso se ne stava seduto sugli scalini fumando una sigaretta, a volte era in piedi addossato al muro, sorridendo.
Se qualche ragazza gli girava attorno, lui le dedicava del tempo in modo distratto, faceva parte del personaggio.
La prima volta che lo sentii parlare rimasi deluso: aveva una voce acuta, poco virile, strascicata, con un forte accento della mia città che toglieva autorevolezza al suo essere Jim.
Erano gli anni in cui tutti volevano provare l’avventura europea comprando un biglietto Inter-Rail, alcuni si vantavano di aver visto sette paesi in tre settimane e una delle tappe preferite era il pellegrinaggio al cimitero di Pere Lachaise per recarsi davanti alla lapide del cantante dei Doors.
Da anni non vedo Luca, non ho avuto più sue notizie, avrei potuto chiedere a qualche conoscente comune ma ho preferito che le cose accadessero casualmente, o forse non volevo restare deluso.
Ora però Facebook è una tentazione, stamattina non ce l’ho fatta a resistere e l’ho cercato, ovviamente abbiamo vari amici in comune.
Avevo paura di trovare un bancario precocemente incanutito, con foto di moglie e figli e commenti sdolcinati di amici e parenti.
E’ facile giocare al ribelle quando hai diciott’anni, dopo è più complicato perché il mondo vuole vedere la tua vera maschera.
Il suo profilo è aperto, la prima informazione utile è che vive a Londra, è un buon inizio, quantomeno si è tirato fuori dalla provincia e poi mi sembra città consona al suo stile.
Vedo le cose che gli piacciono.
Gli piacciono Marx, Lenin, Gramsci e Trotsky, non si fa mancare niente, si definisce marxista-leninista, eppure non lo ricordavo impegnato politicamente, la cosa in qualche modo mi sorprende.
È  fan dei partigiani, ha taggato una copertina di una rivista dal titolo La voce del partigiano e una specie di quadro di Garibaldi che brandisce una bandiera rossa in mezzo a una battaglia, un’illustrazione risorgimentale, di quelle che piacciono a me.
Guardo le sue foto, in una accarezza un gatto e ha lo sguardo perso, ma non è lo stesso smarrimento della sua adolescenza, la vita sembra averlo ispessito più di me.
Poi ci sono foto di viaggi in posti nordici: Svezia, Norvegia, Danimarca; ha messo anche su muscoli, si è fatto un tatuaggio sul bicipite e ha il viso un po’ piu pieno.
Posso dedurre la sua vita solo in modo superficiale, ma una cosa mi sembra certa.
Abbiamo molte più cose in comune ora di quante ne avevamo quando era costretto, oltre la sua volontà, a interpretare un Jim Morrison posticcio.

venerdì 20 maggio 2011

Contro gli amori con ragazze straniere

Luca non può più cucinarsi le crepes da quando la sua ragazza francese se ne è andata via.
Francesco non mette più piede all’Ikea da quando la sua ragazza svedese lo ha mollato. 
Non può sopportare la vista di un letto Oppdall o di un trancio di salmone Gravad Lax nell’angolo gastronomico.

Carlo sobbalza sempre se, camminando per strada, ascolta una pronuncia tedesca.

La fine di un amore con una ragazza della tua stessa nazione è meno complicata, lascia meno riflessi nel mondo.
Non ci sono state nuove abitudini da assimilare, nuove parole da imparare, nuove espressioni non verbali da comprendere.
Prima di conoscerla, prendevo lezioni di tango con una mia amica.
Il maestro era bravissimo, riusciva a trovare  un senso da ogni passo, e diceva parole bellissime sull’amore e sugli uomini.

Riuscire a fare un movimento apparentemente impossibile per le mie stupide gambe era una piccola vittoria.
Lei non ballava il tango, in realtà non le piaceva nemmeno.
Quando le dissi che in Italia era di moda si morsicò il labbro inferiore e scosse la testa, segnale che in seguito avrei imparato a decifrare come perplessa commiserazione delle strane abitudini altrui; si stupiva che i giovani lo ballassero così tanto.
Malgrado questo mi portò, con l’unica sua amica tanghera, in una milonga di Buenos Aires.
Bevemmo qualcosa e guardammo la gente girare in tondo, la pista era affollata.
Lei era refrattaria ad ogni tipo di ballo, anche se avrebbe il corpo perfetto per la danza.

Quella sera mi chiese, a un certo punto, cosa vuoi da me? sorridendo e stringendosi al mio corpo come non era sua abitudine. In quel momento era gelosa in senso vago: gelosa del mondo, delle possibilità che mi offriva, era innamorata.
La cosa mi faceva sorridere, non ho mai creduto molto alle possibilità, quando giocavo a Monopoli ero attratto più dalle carte rosse degli imprevisti.
Quando eravamo a distanza tutto le ricordava me.
A Buenos Aires, l’Italia, anche se in versione simulata e approssimativa, è ovunque.
Negozi di pasta fresca, ristoranti con qualsiasi nome di nostra città vi possa venire in mente, e bandiere, marchi commerciali, perfino termini del dialetto locale.
Per me l’Argentina, invece, erano i giocatori di calcio così numerosi nella nostra serie A e il tango, promosso da volantini sparsi per la città, sopra i tavoli dei bar.

Il calcio non posso fare a meno di seguirlo, il tango non riesco più a ballarlo.

giovedì 19 maggio 2011

Contro i distinti (dello stadio)

Ero in auto, nella 126 di mio padre, la minuscola radiolina era sintonizzata sulle emittenti locali che trasmettevano jingle pubblicitari con i brani pop degli anni ’80.
Sade, Mike Francis e gli Spandau Ballet servivano per promuovere carrozzerie,  supermercati e colorifici.
Un mio cugino aveva inaugurato una palestra ed era molto orgoglioso del suo spot radiofonico; aveva scelto, come sottofondo, l’intro strumentale di Friends cantata da Ami Stewart.
Il ritornello diceva Take me to the top.
Negli anni ‘80 era frequente ascoltare la parola top, non solo nel senso di model.
La tastiera Roland, la musica da piano bar e la magrezza della cantante suggerivano che ci fosse una cima, economica e sociale, da raggiungere.
Il successo mondano era legato all’ amore fin dal principio, in modo brutalmente onesto.
Il funky degli Eight Wind and Fire era usato in occasione delle radiocronache in trasferta.
Serviva uno stacco strumentale per riempire i lunghi minuti in cui i conduttori non sapevano cosa dire, o erano in attesa dei risultati dagli altri campi; ora tutte le radio, perfino quelle più scalcagnate, sono un flusso continuo di brani e chiacchiere insignificanti.

La squadra di calcio della mia città era in serie B,  detto ora non fa lo stesso effetto; allora non c’erano mica tutte le partite in televisione.
A scuola la nostra suora aveva sulla cattedra il portapenne con i colori sociali, sopra c’era scritta la classifica alla fine del girone d’andata: la Cavese era terza, virtualmente promossa in serie A. Era un gadget realizzato a campionato in corso, un gadget provvisorio, catturava per sempre il momento felice, come fanno le foto; alla fine del campionato saremmo finiti sesti.
Di sabato pomeriggio andavo dal barbiere e la nostra squadra di calcio era l’unico argomento di discussione dei clienti, quella sensazione da vigilia costante del grande evento non si ripeterà più.
Nella mia vita sono stato in tutti i settori del mio stadio, eccetto la curva degli ospiti.
Andavo a vedere le partite in tribuna coperta con mio padre, circondato da politici locali,  assessori e consiglieri comunali: medici, avvocati e commercialisti che si facevano saltare i nervi per un fuorigioco.
Comunisti e democristiani si dividevano equamente i seggolini rossi della tribuna coperta, che non aveva nulla di vip.

Quando avevo dieci anni passai da quella coperta a quella scoperta, lì la visione del terreno di gioco era ostruita dalla cancellata verde; se capitavi sulle prime gradinate, però, sentivi bene il rumore del pallone.
Quindi, per qualche anno, andai in curva, però non sono mai stato un ultras.
Non comprendevo il loro arnamentario esistenziale: strano miscuglio di machismo, odio verso i celerini, simboli politici e musicali (fascio, Guevara e Bob Marley su tutti). Stavo in una posizione decentrata, pencolante verso la tribuna.
Successivamente, andato via dalla mia città, sono diventato un tifoso occasionale e discontinuo, e ho iniziato a frequentare il settore distinti.

I distinti sono la tribuna opposta alla tribuna, non saprei definirli in altro modo, sono una tribuna con il biglietto a prezzo inferiore.
Non c’è una motivazione plausibile per la differenza di prezzo, è puro classismo. Se hai più soldi, o più ambizioni sociali, vai in tribuna, altrimenti ti accontenti dei distinti.
In ogni caso, anche il termine distinti è avvolto nel mistero più assoluto dato che associa una parola evocante grazia e nobiltà d’animo al peggiore settore dello stadio.
La curva è tumultuosa, potenzialmente pericolosa, fanatica e faziosa, ma è anche ottimista e fiduciosa, mentre i distinti rappresenta (o rappresentano? Creano perfino problemi di coniugazione) i peggiori vizi del cittadino medio.
È un luogo scettico, cinico e diffidente.
Ho visto gente criticare la sua squadra dopo dieci secondi dall’entrata in campo, non essere mai contenta della disposizione tattica o delle scelte dei singoli calciatori; ho ascoltato le più ardite fantasie su torti arbitrali e incompetenze dell’allenatore o dei dirigenti.

A differenza della tribuna, dove chi ha pagato qualcosa in più non se la sente di  deprecare a cuor leggero lo spettacolo, qui tutti i risentimenti e le frustrazioni della settimana lavorativa hanno libero sfogo.
La gente si sente in dovere di commentare a voce alta le azioni, di dirigere i piedi dei giocatori, di discutere con il proprio vicino, cercando rassicurazioni al proprio ego scosso da motivi extra calcistici.
Tutti hanno diritto di parola, trionfa una democrazia meschina da Processo di Biscardi, la stessa che fa telefonare alle radio per fare osservazioni campate in aria.
La mia squadra di calcio è retrocessa qualche giorno fa, ora è in Seconda divisione Lega pro, anche il nome della categoria è diventato gelido, prima si chiamava C2, poteva sembrare umiliante ma era un nome più consono a un campionato.
Non oso immaginare come l’abbia presa il pubblico dei distinti.
Da parte mia, anche se vi sembrerà assurdo, posso assicurarvi che in tanti anni di frequentazione saltuaria non ho quasi mai criticato qualcosa o qualcuno.
Anche il critico, ogni tanto, sa farsi da parte.



Contro il critico

La commentatrice sconosciuta del mio blog dice che non so guardare  le cose buone della vita, non so trovare il bello, come fa lei, in una poltrona abbandonata in mezzo alla strada. Facile criticare, dice.
Troppo semplice attaccare le reflex e le ragazze che fotografano di continuo.
Troppo semplice prendersela con il povero De Gregori, di cui è acritica estimatrice; è giovane, va ancora ai concerti con entusiasmo, le piacciono le parole da poeti.
Volo, cielo, leggero, anima: parole aeree.

E’ più difficile trovare il bello che l’imperfetto, aggiunge; come se non lo sapessi fin troppo bene.
Per trovare il bello, però, la scrittura non serve; se vivessimo pienamente le nostre vite, non perderemmo un secondo a mettere parole su carta.
Quando sarò tutt’uno con il mondo, impresa disperata a cui tutti dovremmo aspirare, non avrò più bisogno di scrivere, non cercherò di comporre una inutile poesia per descrivere cosa provo.

Lo scrittore precario mi compatisce perché ci sarebbero tante cose belle di cui parlare, secondo lui non apprezzo abbastanza la vita, come se la scrittura non fosse, anche, cacciare fuori il veleno: dimenticare e ricordare allo stesso tempo, con un movimento simultaneo ed opposto.

I miei contro sono, spesso, per capovolti, ma la cosa passa inosservata, e forse non hanno tutti i torti.
Così esco, deciso a far pace con il mondo.
Sorrido alla ragazza seduta, di fronte a me, al tavolo del bar; 
è buddista, lo sta raccontando a una aiutante parrucchiera, curiosa di provare i mantra.
La ragazza vuole attaccare bottone perché è estroversa e non le piace mangiare sola; a me basta sorriderle, passarle i condimenti e suscitare domande. Ci siamo già visti altre volte, la rivedrò, non c’è fretta.

Vado dal chiosco dei bengalesi, dopo mesi di assenza, e faccio pace anche con loro.
Il padrone mi chiede che fine avevo fatto e dove siano spagnole, coreane, turche, e così via.
Rispondo inventando una storia di sana pianta, sono stato via alcuni mesi, sono appena tornato dal Sudamerica, girandolo in lungo e in largo. Mi chiede com'è l’Argentina.
Di tutti i paesi del continente ha scelto quello sbagliato, ma non mi scompongo.
Mi ha chiesto dell’Argentina perché ha delle mele che arrivano da là, mi fa vedere il cartone, sopra c’è scritto Patagonia Fruits, mi chiede se viaggio molto.
Fingo di essere stato in posti dove non ho mai messo piede; è divertente cambiare la realtà, di tanto in tanto.

In Sudafrica mi chiede? Da là arriva l’uva
Rispondo di sì e accenno due frasi stereotipate su natura incontaminata e stile di vita.
Nuova Zelanda?
Da lì arrivano i kiwi
Sì.
Marocco?
Datteri…
Annuisco, rispondo sì a tutto.

La frutta arriva da tutto il mondo, il capo dei bengalesi prova a immaginarsi i luoghi, quando va a ritirare le casse al mercato.

Mio cugino va a vedere ogni sera le previsioni meteo di qualche città sperduta della Finlandia o della Mongolia; anche conoscere le temperature di posti remoti è un modo per essere parte del mondo, per sentirsi più vicini all’altro.

Alla fine il bengalese mi chiede di nuovo notizie dell’Argentina, domanda: è meglio là?
Resto zitto per alcuni secondi e poi gli rispondo: no, no, è meglio qua.