mercoledì 27 luglio 2011

Contro il valdese

Sembro l’uomo più buono del mondo, o almeno il più pacifico, solo per chi non conosce i miei scatti di rabbia.
I miei scatti di rabbia erano il problema fondamentale con S., lei era mansueta e vegetariana.
Una volta mi mandò dall’omeopata per risolvere la questione: era una dottoressa gentile e sorridente, l’emblema perfetto della medicina alternativa.
Mi fece delle domande sul perché fossi lì,  mi chiese del corpo e della mente, si mise a scrivere velocemente su un foglio come una psicoanalista dai modi spicci.
Le parlai dei miei scatti, cercai di spiegarle le mie motivazioni, forse barai un poco, alla fine mi diede un rimedio adatto a chi ha un forte senso della giustizia.
I miei scatti sarebbero dovuti ai tentativi di raddrizzare le cose che mi sembrano ingiuste, aveva fatto il ritratto di un utopista che non ero.
I miei scatti di rabbia non hanno nulla a vedere con l’alcool o con l’assunzione di sostanze esterne, sono già dentro di me, sono me.
A volte dipendono dalle circostanze, a volte dalle persone.
Avevo sempre avuto un pregiudizio positivo e immotivato nei confronti dei valdesi, qualcuno mi aveva detto che erano più aperti dei cattolici, che addirittura meritavano l’otto per mille.
Non so molto dello loro storia e forse nemmeno mi interessa, so che arrivarono dalla Francia, che sono insediati prevalentemente nelle valli piemontesi, che hanno subito delle persecuzioni in quelle idiote controversie religiose medievali che non capisco.
Infatti il pastore che affitta la terrazza in pieno centro ha l’accento piemontese e non di Torino, parla un italiano strano, con parole formali e burocratiche che mette una affianco all’altra in modo piuttosto sgangherato.
Invece di fermare dice stazionare, invece di deviare direzionare.
Non ti guarda mai negli occhi, ha il viso pingue e il mento cascante, ha quarant’anni che potrebbero essere sessanta come trenta, in bocca mastica un sigaro incongruo, non si armonizza con la sua figura.
È un timorato di Dio, non capisco come possa trattare con le persone, figuriamoci con le anime.
All’appartamento al piano di sotto ci sono quadri di vecchi pastori con i baffi spioventi, sono vestiti in modo sobrio, questo invece non ha autorità, Roma l’ha rovinato, è una città grande e piena di tentazioni, vivere  vicino Piazza Venezia può essere pericoloso per un membro di una minoranza religiosa.
Il terrazzo che fitta è sul tetto del loro palazzo, ad angolo con Piazza Venezia, si vedono l’Altare della Patria e il Quirinale, San pietro e alcune colline fuori Roma.
Lo abbiamo preso per farci una festa, il tipo è di quelli che non sa cosa sia la franchezza così so che avremmo problemi, l’ho capito dal giorno prima.

Mi era antipatico e sapevo che la sua bonomia apparente non ci avrebbe procurato nulla di buono, si mostrava disponibile, cercava di smussare i problemi non affrontandoli,  aveva lo sguardo spaurito di chi scappa.
Cercava di minimizzare le eventuali lamentele dell’olandese vicino di casa, un colonnello che si era messo nel suo angolo in terrazza a leggere libri, probabilmente di storia.
Mi piace organizzare feste, è la parte solare del mio carattere, quella che cerco di nascondere nelle foto non scattate a tradimento, quella che combatto come se fosse poco dignitosa.
E’ una parte di me che è stata sempre in contrasto con le ragazze con cui sono stato, sempre introverse o misantrope, almeno nella fase in cui mi incrocio con le loro esistenze.
Non amavano le feste e gli assembramenti, erano capaci di tenere il broncio o di dichiararsi annoiate nel mezzo di una situazione confusamente divertente.

Con alcuni amici pazzi malati, qualche anno fa, organizzai una festa delle medie 1985.
Nella festa c’erano letture sugli anni ottanta, il gioco della bottiglia rivisitato e musica a tema.
Ho provato a organizzare altre feste, alcune sono rimaste ipotetiche e virtuali come La Festa della Luna, altre sono fallite come una festa di cui non ricordo nemmeno più  il nome.
Altre feste invece poi le ho davvero messe in piedi, per i miei trent'anni affittai una consolle e chiesi agli invitati di fare il deejay portando i propri cd.
La festa riuscì ma io feci il deejay solo per cinque minuti.

La mia parte preferita delle feste è la vigilia, o la conclusione, con quella sensazione malinconica in cui puoi crogiolarti.
Di solito durante le feste, se sono coinvolto in qualche modo, c’è sempre qualcosa che non va.
Un gioco che non si può più fare, un mixer che salta, un cavo a cui non ho pensato, oppure la gente che giustamente decide che i miei piani sulla festa sono diversi dai loro desideri, così si crea sempre una inevitabile distanza fra quello che ti aspettavi dalla festa e quello che realmente accade.

Quando stavamo mettendo la musica a mezzanotte e mezzo e il valdese è venuto per la prima volta a chiederci in modo timido di abbassarla radicalmente, abbiamo provato solo a abbassarla leggermente.
Il valdese si avvicinava senza salutare, in modo poco convinto, aspettandosi già il peggio, il suo atteggiamento da vittima predestinata istigava alla violenza.
E’ tornato due volte, prima ha interrotto la dance anni novanta, c’era la terribile Scatman, dopo era previsto
Saturday Night e Bailando Bailando, la gente si stava divertendo come nelle mie previsioni, mi piace vedere ballare la gente, prima o poi comincerò  davvero a fare il deejay.
La seconda volta la gente era era giù un po’ troppo rilassata ma stavamo provando a risvegliarla in tutti i modi, non avendo libertà sul volume, l’unica soluzione era puntare su canzoni dall’energia indiscussa,  c’era The Passenger, dopo erano previsti i Clash.

Non si può interrompere Iggy Pop dopo venti secondi, eravamo appena entrati nel primo inciso quando ha detto stoppate tutto, sempre senza salutare, sempre con quell’aria da spaventato, sempre incespicando, sempre parlando come su un terreno accidentato, senza nemmeno riconoscere la canzone.
L’ho aggredito con le parole, gli ho detto che non c’era nessuna onestà nell’affittare un terrazzo dei suoi avi e intascare i soldi per sé in nero, che l’avrei potuto denunciare, che doveva stare attento, l’ho minacciato ma ho pensato anche di peggio.
Ho pensato che la sua comunità a Roma è inesistente e quel palazzo sovradimensionato dovrebbero toglierglielo, ho pensato che lui non è un pastore degno dei suoi antenati nelle foto al piano di sotto e dovrebbe ammettere la sua inadeguatezza.
Il valdese non mi ha risposto, ovviamente non mi ha nemmeno guardato, soltanto dopo ha detto ad altri di esser stato aggredito verbalmente e perfino fisicamente, ha avuto paura, ha sempre paura.
Qualcuno si è avvicinato e mi ha calmato anche se in realtà il mio scatto di rabbia è durato molto meno di quanto è sembrato, stava già scemando, c’era della posa dentro, c’era la mia parte teatrale, quella che mi fa sbattere i piedi rimanendo sul posto.
Penso di averla presa da mio padre, si arrabbiava se le nostre partite di Subbuteo sulla moquette diventavano troppo lunghe, veniva e sbatteva i piedi provando a fare la faccia feroce, sapevamo che non avrebbe mai alzato una mano.
Non entrava nemmeno in campo con i piedi, al massimo per sbaglio, per errore di misura, sono rimasti decapitati un paio di giocatori.
Non mi pento della mia rabbia, semmai della mia parte teatrale sì.
La rabbia dovrebbe essere completamente sincera e assoluta.
Se provi gioia sii felice completamente, se provi rabbia sii rabbioso con tutto se stesso, senza compromessi, senza reprimerti.





martedì 26 luglio 2011

Contro il revival

Quando sono le quattro e mezza di notte non hai più il senso della vergogna e puoi ballare qualsiasi cosa.
Non sto parlando degli anni Ottanta, quelli sono storicizzati e rivalutati, avevano musiche solo in parte scadenti, continuano a rivivere nella dance contemporanea nascondendosi in mille forme.
Né degli anni Settanta con il funky e quelle derive orchestrali illogiche: la disco dance perfetta, eterna.
La trash vera è quella anni Novanta. 
Gli anni novanta erano gli anni Ottanta simulati, ripetuti senza entusiasmo, a tavolino, come a tavolino gruppi di dj ed etichette discografiche olandesi e belghe decidevano di ingaggiare cantanti spagnole e di fare hit in castigliano mescolando basi di Rotterdam e ritmiche dalle suggestioni latine.
Così sono nati singoli perfetti come Bailando Bailando o Bandolero pensati per l’Europa diventata ormai unita, puntavano all’Est come all’Ovest ora che il comunismo era definitivamente archiviato.
Gruppi nordici rubavano la scena a britannici e statunitensi, nascevano collaborazioni fra musicisti che duravano due anni, erano gruppi virtuali con sedi in città improbabili e fabbricavano musica dall’immaginario spiaggesco.

Alle quattro e mezzo, così,  può capitare che gente di diversa nazionalità balli con molto più entusiasmo Bailando Bailando dell’ultimo  pezzo di Lady Gaga, oppure dell’ultimo remix della Lambada di Jennifer Lopez, ancora i maledetti Ottanta che hanno monopolizzato la nostra esistenza e non vogliono dannatamente lasciarci perdere.

Un brano come Bailando Bailando, quando avevo gli anni per ballarlo, mi faceva schifo, se lo mettevano in una festa scuotevo la testa e mi muovevo controvoglia, se proprio non potevo farne a meno.
Di certo non urlavo né battevo la mani o ripetevo la strofa del ritornello composta da parole così semplici che chiunque era in grado di ripeterle, una sorta di esperanto della disco.
La parte dell’inciso nelle canzoni da discoteca di quel periodo aveva raggiunto un vuoto così assoluto che di sicuro doveva significare qualcosa.
Non può essere che sia tutto lì, nella richiesta di baci, nel solito fascino dell’uomo latino.
Torno a casa e un brano come Bandolero mi resta in mente come non mi è mai capitato all’epoca, quando credevo ancora nella discoteca come mezzo di abbordaggio, quando avevo venti anni e tutto mi sarebbe stato perdonato, quando ero a Lloret de Mar, in un lungomare creato della speculazione edilizia più selvaggia.

Eravamo sulla costa Brava, uscivamo soltanto alle cinque, il mare non meritava, non era abbastanza pulito, soffiava sempre vento, non ti veniva voglia di fare il bagno.
Eravamo troppo provinciali per posti del genere, gli italiani erano ancora una minoranza, seppure in aumento.
I tedeschi erano la comunità più rappresentata, le pr sul corso principale ci offrivano le consumazioni e  le riduzioni sui biglietti in discoteca; i pr uomini promettevano figa con la schiuma, esibizioni di cubiste fra bolle di sapone, il loro sguardo furbesco prometteva molto più di quanto poteva mantenere.
Andavamo in localini moderatamente turistici  con le sedie di legno grezzo e mangiavamo sopra finte botte di rovere.
Bevevamo sangria scadente, la avrei vomitata dopo qualche ora, una volta intasai il lavandino e non mi ricordavo di averlo fatto, mi ero svegliato di notte come un sonnambulo.
Avevamo le formiche che ci camminavano in albergo e le combattevamo con la schiuma da barba però eravamo sempre inappuntabili in camicia e polo, riconoscibili come italiani che hanno il senso della moda.

L’unico che scopò lo fece il giorno dopo che eravamo arrivati, a inizio serata e con la discoteca ancora mezza vuota, si portò in bagno una francese,  ci illudemmo che fosse facile e non ci impegnammo come avremmo dovuto.
La canzone dell’estate era Saturday Night di Whigfield, nel videoclip una ragazza in asciugamano  si vestiva per uscire, si truccava.
In tutti i videoclip si usava lo split screen: a due, tre, quattro riquadri, a volte simmetrici, a volte a geometria variabile.
Da un lato la ragazza in primo piano, da un altro qualcuno che ballava, da un altro ancora qualcuno comunicava con qualche mezzo, preferibilmente il telefono fisso, o faceva un’attività fisica qualsiasi per esibire il corpo.
In quasi tutti i videoclip dell’epoca c’era, prima o poi, una ragazza che doveva scegliere un vestito, che si guardava lungamente allo specchio o sceglieva il colore del rossetto, si esagerava la fisiologica vanità femminile.
C’erano sempre ragazze che si dovevano preparare per il venerdì o sabato sera, ce ne sono anche nei video contemporanei ma sono aggressive ed irreali, e i video hanno montaggi veloci che non mimano la realtà ordinaria.
Ora le cantanti da disco sono quasi sempre bionde intercambiabili, molto fighe, prima prendevano anche ragazze magre e con il naso pronunciato.
Ragazze fra il mediocre e il sufficiente, le sistemavano per farle apparire desiderabili.
Come la cantante dei Paradisio, il gruppo di Bandolero e Bailando Bailando, Wikipedia dice che il gruppo è esistito fino al 2003 ma in realtà ha avuto solo tre anni di successi, dal 1995 al 1998.

Vado a rivedere il videoclip: ci sono i ballerini gay che fingono di essere incredibilmente virili e ballano a petto nudo facendo piroette, e immagini di spiagge e mari che non sono affatto tropicali ma pretendono di esserlo.
Cascate d’acqua cadono su corpi disponibili al martirio, la cantante flirta in modo esplicito con i ballerini dando l’esempio di ciò che era auspicabile aspettarsi in disco.
Assomiglia a Lady Gaga: caschetto blu, trucco simile, eppure di lei non è rimasta traccia alcuna.
Se ne andò dal gruppo nel 1998, saliva solo lei sul palco ma c’erano due dj che producevano e componevano, se si può usare lo stesso verbo che si usa per le sinfonie di Mozart, i brani.
I due dj presero un’altra cantante spagnola, provarono a fare altri singoli ma questi gruppi hanno una data di scadenza precisa ed era giusto che fosse così, ballare per tre estati era già un successo.
Mi immagino il dj belga nel suo studio che si chiede se resisteranno un'altra estate, la sua ansia.
Forse immaginava che i loro brani di enorme successo a stento avrebbero varcato l’autunno, non avevano la forza di altri brani, non sarebbero diventati evergreen remixabili con facilità come Rhythm of the night di Corona o Rhythm is a dancer degli Snap, inni da villaggio vacanza adatti ad ogni occasione.
Ma forse quella è la loro forza, restare per tanto tempo inascoltati e rimossi, tornare all’improvviso alle quattro e mezzo e resuscitare di colpo.






giovedì 21 luglio 2011

Contro le monete

La metro a Buenos Aires non è così sottoterra come a Roma, il cellulare prende bene, la telefonai che era uscita da poco dal lavoro ed era sulla strada di casa.

Ero a Roma e le dissi che mi piaceva ascoltare i suoni di una città che ancora non conoscevo, si mise a ridere, ebbi l’impressione che pensasse fossi intelligente, i rumori non erano poi tanto diversi da mille altre città, non avevo detto nulla di così acuto.
La metro a Buenos Aires funziona meglio che a Roma, è meno affollata, anche d’estate non fa mai un caldo infernale ma lei comunque la detestava; detestava il contatto umano degli sconosciuti, non sopportava il loro odore, in cambio aveva un senso dell’estetica quasi perfetto, astrattamente perfetto, come una nazista.

La metro lì è molto più capillare e moderna, hanno più linee, non hanno problemi di rovine romane né le scocciature degli archeologi e dei soprintendenti con le loro inutili scoperte di scavi antichi.
Anche gli autobus sono bellissimi.
Ogni linea ha un colore diverso, sono degli autobus vecchi che assomigliano più a delle corriere però vanno più veloce dei nostri tutti identici e anonimi, e gli autisti sono più bravi a guidarli, sono più coraggiosi.
Qui ogni tanto fanno dei concorsi per reclutare degli autisti e prendono un po’ di tutto: giovani raccomandati di politicanti da circoscrizione che non hanno alcuna conoscenza né passione per il mezzo, ultimamente tendono ad assumere donne dalla faccia terrorizzata, in ossequio idiota alle pari opportunità.
Gli autobus di Buenos Aires sono più inquinanti e più frequenti, viaggiano tutta la notte.
Li chiamano colectivos, suona come qualcosa di populisticamente demagogico, come demagogico è il concetto di popolo lì.
El pueblo unido, la solidaridad, il corteo funebre dell’ex presidente era pieno di sindacalisti e di bandiere con il volto di Evita.
In Europa abbiamo una visione del Sudamerica molto idealizzata, ogni volta che in un festival c’è un progetto di documentario sul Sudamerica pensato da europei inizio a preoccuparmi, di solito siamo banalmente buoni.
Pensiamo che lì ci sia uno spirito intatto, i luoghi comuni di Gianni Minà sopravvivono ancora, ad esempio nelle canzoni dei Negrita che dicono rotolando verso sud e citano in ordine sparso Città del Messico e Buenos Aires, San Paolo e Napoli, oppure nei ritmi sudamericani importati dal pop rock più becero.
I disegni sulle fiancate dei colectivos hanno qualcosa di tribale, sembrano strisce indiane.
Ci sono molti segni indiani in Argentina anche se di Indios non è rimasto nulla, perfino sulla bandiera c’è un sole rubato a una tribù trucidata dai loro generali spagnoli, eroi nazionali.
Per non parlare degli emigranti italiani, tedeschi e polacchi che nulla hanno delle popolazioni native. Una volta vidi davanti a una banca una guardia armata bionda, era un tedesco di quelli che in Germania ormai non ne nascono più, il prototipo dell’ariano dallo sguardo bovino, un perfetto kapò da campo di concentramento.
M. aveva fatto una tesi su questo argomento, la appropriazione dell'identità Indios per costruirci sopra l'immaginario di una nazione, per uno dei suoi dieci corsi, ecco perché so qualcosa dei segni Indios, ma non molto in verità.
Me ne aveva parlato una delle prime volte, pensavo ad altro, l’avevo ascoltata solo parzialmente, sapeva essere maledettamente verbosa e monologante, come me, più di me.
Mi inviò anche una versione della sua tesi in pdf, da qualche parte del mio computer deve esserci ancora; non l’ho mai letta, non la leggerò più.
Faceva tesi molto politicamente corrette dal punto di vista antropologico, contraddette dal suo comportamento negli autobus e per le strade.
Ci eravamo conosciuti da poco e mi telefonò da Palermo, era un po’ spaventata perché era pomeriggio e per arrivare al centro della città aveva preso un autobus e sopra c’erano quasi tutti neri, le chiesi qual era il problema, stupito.

Sui colectivos c’è sempre musica, non quei suoni che si ascoltano su certi schermi al plasma degli autobus romani che fanno da sottofondo a orrende animazioni con eventi, oroscopi e storielle.
La musica viene dalle stazioni radiofoniche su cui si sintonizzano gli autisti per il tragitto.
Il biglietto si paga salendo dalla porta anteriore: uno y veinte, uno y veinticinco, lo dici all’autista che preme dei bottoni corrispondenti alla tariffa, quindi devi inserire le monete dentro una macchinetta.
Il sistema tariffario per i percorsi è molto complesso, M. liquidò la cosa dicendo paga sempre uno e veinticinco se non sei sicuro.
Il problema principale quando devi prendere un autobus è proprio l’approvvigionamento delle monete.
Il problema delle monete a Buenos Aires è una delle cose più idiote che abbia mai visto in tutta la mia vita, le monete sono indispensabili per girare in colectivos, non ci sono altre forme di pagamento ma c’è una incredibile carenza delle stesse.
Tutti conservano le monete che riescono a ricavare dalle spese quotidiane e non se ne privano per nulla al mondo.
La stragrande maggioranza dei prodotti nei chioschi sono venduti a un prezzo determinato per evitare di doverti dare il cambio in monete, ognuna è preziosa.

Tutti prima o poi sono costretti ad andare in banca per cambiare le banconote in monete, capitò anche a me.
Mi accompagnò M., quando se ne andò la salutai con un bacio sulla fronte, non so perché lo feci, non intendeva essere un gesto protettivo.
Lei mi disse mi piace così, voglio che mi saluti così sempre, sorridendo felice, non voleva baci sulle labbra in pubblico.

M. aveva una piccola scatolina dove conservava le monete, le mettevamo ogni volta che ne avanzava una e da lì le prendevamo quando serviva.
Io non ero abituato a questa cosa delle monete e così capitava che le usassi per comprarmi un caffè o il giornale quando avrei potuto evitarlo, qualche volta inavvertitamente mi feci fregare dando un veinte cent preziosissimo a qualche negoziante furbo.
Era inevitabile che prima o poi avremmo discusso su questo, l’ultimo litigio fu proprio colpa delle monete.
Eravamo davanti alla fermata e mi accorsi che non avevo soldi sufficienti, non mi ricordo dove era l’errore, ma quando contammo le monete mancavano veinte cent.
Forse mi ero confuso  e nella fretta di uscire di casa avevo sbagliato a conteggiare l’importo esatto oppure avevo perso qualche moneta dalle tasche.

L’autobus arrivò troppo presto senza darmi il tempo di  comprare qualcosa al negozio all’angolo, lei intanto mi diceva che non potevo sbagliarmi, mi diede dell'idiota, non pensava più in quel momento che fossi così intelligente; 
io le risposi dandole della stronza, non avevo mai pensato fosse davvero buona.
Era in ritardo e salì sull’autobus, io rimasi giù e presi quello dopo.
Quell’ultimo litigio ovviamente era solo una goccia, non cambiò niente, tutto era già cambiato.
I conti non tornavano, certo non per colpa delle monete.

Tornato in Italia mi accorgo che di tutti i miei viaggi restano sempre le monete, dentro vecchi portafogli, lasciate distrattamente sopra mensole, incastrate nei posti più impensabili.
Ho fiorini ungheresi, corone norvegesi, penny inglesi, lire turche, ma non pensavo di avere pesos argentini.
In fondo erano così difficili da trovare e se ne avevo conservato qualcuno, pensavo di averlo speso prima di partire.
Ero arrivato cinque ore prima del volo come se non vedessi l’ora di staccarmi.
L’altra sera invece ho trovato un veinte cent, era in fondo ad uno zaino, chissà magari ero quello che mi mancava per il biglietto.

martedì 19 luglio 2011

Contro le lampadine a fluorescenza

Eravamo una sera in un ristorante di Gent, le lampadine erano a incandescenza: quelle che fanno una luce gialla, calda, le lampadine di sempre, fra poco saranno completamente sostituite dalle nuove lampadine a risparmio energetico, nulla può essere fatto contro le due parole risparmio energetico, non c’è speranza.

Le nuovi luci a fluorescenza sono maledettamente fredde, diffondono una luce blu, non ricordano il fuoco.
La luce era perfetta e portavano in continuazione costolette di maiale, spare ribs a volontà, bastava alzare la mano e chiedere.
Lei era vegetariana e si doveva accontentare di una semplice couch potato e di un insalata un po’ povera, eppure era contenta per me e non si lamentava del posto troppo carnivoro.
C’erano belle luci per tutta la citta, dentro e fuori, riflettevano sul bianco della neve che si stava sgelando.
Eravamo lì per qualche giorno di vacanza, l’idea assurda di andare in Belgio a dicembre era mia, la accettò senza entusiasmo, subendola; a dire il vero non fu una grande vacanza, non ci furono quasi mai belle vacanze con lei.
Lei era esigente, io facevo errori e mi arrabbiavo per niente, si litigava troppo spesso per stupidaggini ed io avevo quasi sempre una buona parte delle colpe.
A volte però come quella sera a Gent fra i campanili illuminati poco, con alcuni palazzi che mi ricordavano, per alcuni strani simboli da cooperativa socialista o forse per il freddo, una Unione Sovietica che mai vedrò, eravamo quasi felici.
Le ho fatto del male, varie volte ed in modo ripetuto, non avevo cattive intenzioni ma pessima volontà.
Le ho fatto del male con la mia freddezza, l’ho pagata tutta con gli interessi ritrovandola in un altro amore ed essendone ferito allo stesso modo.
Le ho fatto del male con la mia vigliaccheria, con l’incapacità di accettare che le cose cambiano, con il mio attaccamento al passato.
Le sto facendo del male, magari anche ora, dedicando tanti racconti al mio amore più recente e pochi accenni a quello più importante.
Accenni di sfuggita, fatti in una riga, senza profondità.
Fra qualche anno spero di leggere tutto questo e sorridere di aver cosi distorto la realtà.

domenica 17 luglio 2011

Contro Ligabue


A 18 anni fai molti errori.
Tipo che ti innamori di una bionda anche se probabilmente già sai che è stupida come un’oca e che nel suo futuro non ci può essere davvero qualcosa di buono.
Non hai nemmeno parlato con la bionda, sai che è stupida dal modo in cui si muove, in fondo ha vinto miss matricola, è una reginetta di bellezza senza avere la perfidia di quelle dei college film.
Sai che non ci parlerai nemmeno e forse è meglio così, l’unico amore inattaccabile è quello non corrisposto e virtuale, ma comunque le dedichi delle stupide poesie.
Per quella bionda ti lasci struggere ascoltando brani di Ligabue che ti sembra un ribelle plausibile con un retroterra di letture simile alle tue
Letteratura statunitense, Henry Miller e il sopravvalutassimo Bukowski, Salinger e Kerouac.
Alla fine quasi tutti gli autori che hai letto li molli, restano i migliori e dopo qualche anno ti sembra assurdo aver creduto perfino alle parole di Ligabue.
Ma hai 18 anni e tutto può esserti perdonato.
Grave quando cresci e resti così.
A Campovolo ci sono 120000 persone per il concerto di Ligabue, migliaia di migliaia si sono assiepati per il tour finale di Vasco Rossi e io assolvo completamente solo quelli che hanno meno di 23 anni, perdono parzialmente quelli sotto i 30 e condanno all’ergastolo gli altri.
Condanno di più chi ascolta Ligabue.
I fan di Vasco Rossi hanno meno pretese, ce ne sono di destra e di sinistra, leghisti e borbonici, Vasco è capace di dire niente per anni e ogni tanto come per incanto fa un pezzo bello.
Ci sono dei brani così tristi che mi piacciono, non so Vivere, sono preghiere disperate molto superiori alla capacità media di comprensione dei suoi adepti.
I suoi adepti sono quelli di Rewind, comprano bottiglie di whisky, sognano vite spericolate che non vivranno, il massimo del pericolo una amante.
Invece i fan di Ligabue pensano di capirne, leggono Bukowski come se facesse ancora scandalo, apprezzano delle citazioni letterarie,  sono di sinistra.
Oggi sul Corriere c’era un confronto fra le due rockstar italiane, era un articolo ridicolo, sembrava quasi che ci fosse qualcosa da interpretare.
Ligabue veniva definito come un bello dalla carnagione india perennemente abbronzata.
Una volta c’era la Pivano in un programma televisivo e disse che Ligabue era un poeta, che i poeti contemporanei sono i cantanti come lui.
Disse un’idiozia ma era rispettata solo perché aveva conosciuto degli scrittori importanti e li aveva tradotti, forse era solo stata la loro amante anche se da vecchia nessuno si ricordava più di questo, a volte la vecchiaia ti dà una saggezza e un rispetto che non meriti.

venerdì 15 luglio 2011

Contro i libri di grammatica per stranieri

I libri per imparare un'altra lingua hanno sempre frasi stereotipate sul lavoro che fa Juan o sulle uscite serali di Anna.
Sono pieni di espressioni che mai nessuno ha usato e raccontano un mondo che non esiste: un mondo in cui ogni problema quotidiano diventa di primaria importanza e le questioni esistenziali e i tormenti amorosi non sono contemplati.
Avevo sempre il mio libro nella borsa, assieme alla penna e al quaderno degli appunti.
Andavo a lezione come uno scolaretto, facevo colazione al bar all'angolo della scuola con un caffè cortado e tre medialunas di manteja leggendo i giornali argentini e finendo gli esercizi assegnati.
A lezione eravamo in pochi: una studentessa di biologia che era venuta a Buenos Aires per finire la sua tesi, era già innamorata dell'Argentina e inevitabilmente si sarebbe lasciata con il suo ragazzo toscano, ora è tornata in Italia e mette status su Facebook in spagnolo rimpiangendo la città perduta; una francese sempre sorridente che viaggiava per il mondo con una leggerezza che mai avrò, e un canadese del Quebec che non capiva nemmeno una parola di spagnolo e parlava male persino l’inglese, si era appena messo in pensione e aveva deciso di venire a Buenos Aires per seguire suo figlio che si era trasferito lì da qualche mese.
Aveva qualche problema con lui e voleva cercare di recuperare il rapporto, ma il figlio a stento gli parlava e così il canadese restava in casa senza nemmeno poter scambiare una parola con i suoi due coinquilini, degli argentini stronzi che quasi non lo salutavano.
Una volta nell'intervallo scoppiò in lacrime, vedere singhiozzare un uomo di cinquantacinque anni ancora pienamente in forma mi scosse.
Sono cose che il libro di grammatica per stranieri non contempla.

Di professori ce n’erano tre, insegnavano a rotazione, ognuno aveva il suo metodo:
uno era ossessionato dalle regole e scriveva in continuazione sulla lavagna coniugazioni di verbi e esempi di frasi; un altro era un musicista frustrato, ogni occasione era buona per divagare e sfuggire ai suoi doveri didattici, e poi c’era il mio preferito, Alejandro: pelato, psicoanalista e gay, frequentava solo brasiliani perché detestava l'arroganza dei portenos, era di Mar del Plata e viveva con la vecchia madre.
Cercava sempre modi ingegnosi per spiegarti le cose.
Io ero il migliore del corso, ma avevo una lacuna che mi porto dietro anche ora, non riuscivo a pronunciare bene la J, in spagnolo si chiama la cota.
M. disse ad Alejandro che il suo nome era la prima parola con la cota che avevo provato a pronunciare perché era il titolo di una canzone di Lady Gaga molto di moda l’estate scorsa.
Quando parli una nuova lingua la prima parola che provi a dire ha la sua importanza.



M. mi era venuta a prendere di sorpresa, voleva accompagnarmi dall'oculista, aveva bussato ed aveva chiesto se potevo uscire, proprio come si fa con gli alunni.


Con M. parlavamo italiano anche in Argentina, il suo spagnolo era troppo smozzicato e rapido, perfino le sorelle a volte dicevano di non capirla, anche il mio italiano è veloce e poco comprensibile, tronco troppo le finali ma lei si era abituata.
Provai a rallentare la mia voce solo all'inizio, per qualche ora credo, poi presi a parlarle normalmente.
Lei studiava italiano da un anno e mezzo, era la seconda della classe, ma dopo aver imparato a decriptarmi era diventata nettamente la migliore.
Si preoccupava ancora degli esercizi e degli esami perché era scrupolosa ma in fondo sapeva benissimo che non c’era nulla da preoccuparsi.
Correggevamo gli esercizi assieme sul letto, c’era il suo gatto ai nostri piedi, lei aveva la matita magenta che le avevo regalato e con piccoli scatti ansiosi indugiava su una frase.
Sbagliava poco, ogni tanto le spiegavo qualche particolarità grammaticale di cui venivo a conoscenza solo attraverso la pratica.
E’ strano quanto riflettiamo poco sulla lingua che parliamo o sulla cucina che cuciniamo, ce ne rendiamo conto solo quanto siamo davanti a uno straniero che sta provando ad impararla.
Allora ci rendiamo conto delle nostre espressioni, del modo in cui ordiniamo le parole o degli ingredienti che ci mancano.

Ad esempio girai tre supermercati per trovare una mozzarella che avesse una consistenza appena paragonabile a quella che si trova in Italia, mi serviva per una parmigiana di melanzane e non sono proprio riuscito a trovare il mascarpone perfetto per il tiramisù.
M. volle che andassi persino a una lezione di italiano, mi presentò le sue compagne di classe e la sua professoressa, argentina con i genitori di Avellino, mi fece anche entrare dentro.
Mi chiese di farle da assistente, controllai alcuni esercizi, risposi con fatica a una domanda difficile, M. si sentiva molto sicura di sé, faceva battutine, era simpatica ed estroversa come non era di solito con il mondo, si sentiva al sicuro fra le quattro mura della classe.
Erano quasi tutte donne eccetto un avvocato rigido che non sorrideva mai, fra di loro c’era una che tutte prendevano in giro.
La tipa era una cinquantenne un po’ troppo truccata ma inoffensiva e dalla faccia simpatica, ho sempre pensato che il modo in cui M. schiettamente la detestava avesse a che fare con la paura di invecchiare, con il terrore di perdere tempo prezioso che la circondava come una condanna.

Quando sono tornato in Italia per un po’ ho avuto l’allergia allo spagnolo.
Non leggevo più giornali on line come facevo prima per conoscere meglio la lingua argentina e capire la loro folle società.
Per un periodo sapevo tutto delle lotte all’interno dei radicali per decidere il candidato contrapposto alla Fernandez, di Cobos e di Moyano, un sindacalista imbroglione capo dei camionisti amato dalla loro sinistra populista e ignorante.
Però quando sono andato qualche settimana fa in Spagna e sono riuscito a parlare e farmi comprendere mi sono reso conto che era una cosa buona, mi faceva piacere perfino parlare con il loro accento, con il vos e con la doppia l che suona come una sc.
Bisogna sempre vedere il lato buono.




mercoledì 13 luglio 2011

Contro l'alta velocità


Nella mia vita ho preso molti treni notturni, li prendevo quando vivevo a Milano e scendevo verso Salerno.
Li conosco bene, so chi ci viaggia, una volta volevo fare un documentario tutto girato sui treni raccontando le storie di quelli che lavorano tutta la settimana al Nord in qualche cittadina della pianura padana e tornano a Napoli per il fine settimana, di solito faticano in imprese di costruzione come muratori o fanno gli operai più o meno specializzati.
Oppure volevo mostrare i militari di leva che andavano a fare il carro e viaggiavano in gruppo parlando di licenze e di piccoli soprusi con la soddisfazione degli eletti.
I treni notturni diretti verso Sud erano sempre pieni di gente orgogliosa di portare la divisa anche quando avrebbe tranquillamente potuto farne a meno.
Il documentario lo fece poi un regista che ora è considerato una specie di genio, tale Pietro Marcello, è pure delle mie parti, solo che invece di far vedere le storie che non riusciva a seguire perché troppo chiuso in se stesso, nel documentario partì per la tangente con immagini di binari e tentativi mancati di poesia notturna.
I treni notturni non li prendevo da un po'', quasi  me ne ero dimenticato l'esistenza in tempi di alta velocità.
Negli espresso c'erano dei quadretti che avevano un'aria quasi risorgimentale, sopra illustrazioni campestri o edifici architettonici di qualche provincia anonima della penisola.
Nei corridoi a volte c'erano anche dei quadri più grandi con una mappa dell'Italia che aveva qualcosa di pre-bellico, le regioni erano delimitate con colori differenti, mi ricordavano le mappe di alcuni libri di storia da scuola media.
I quadri borghesi contrastavano con le donne e gli uomini che si portavano dietro il mondo in valige che mi ricordavano libri e canzoni ormai passate o sul punto di passare.
In realtà anche quei vecchi e quelle valige stavano per sparire e i trolley erano sul punto di prendere il posto delle borse morbide.
L'altra settimana ho preso un treno notturno dopo molti anni, nessuna traccia dei quadretti, chissà in che magazzino li hanno riposti.
Le cose funzionano peggio di prima da quando l'Italia ha puntato sull'alta velocità ma dietro questa considerazione non c'è nessun intento politico, non so nulla ad esempio della questione no Tav della Val di Susa, non so chi abbia ragione o torto.
Semplicemente noto che sul treno notturno le cose vanno sempre peggio: i bagni sono sempre più rovinati, le poltrone corrose dal tempo e smangiucchiate dagli acari, le tendine lise.
Nulla si chiude bene, nulla si apre bene, i finestrini sono rumorosi come il vento che entra di notte in mancanza di aria condizionata, ma questa in fondo è una cosa buona.
Quando sei su un espresso notturno sei sopra a un treno ancora, non è come con gli Eurostar dove sei sopra la pallida imitazione di un aereo con l'aria compressa nei vagoni e quei tentativi patetici del personale di bordo di prima classe di spacciarsi steward e hostess.
Nel treno che prendo in direzione di Bardonecchia c'è una coppia vecchio più giovane, sono padre anziano più figlio giovane, anche se facendo due conti potrebbero anche essere nonno precoce e nipote maggiore.
Il figlio/nipote è gentile più di quando mi potessi aspettare dalla maglietta con stampato sopra un enorme carro armato e una scritta che deve indicare il nome in codice del mezzo o una missione militare dimenticata.
Un mezzo militare ormai vetusto e una t-shirt di cui inutilmente cerco di comprendere la genesi.
Il giovane avrà vent'anni, ipotizzo che suo fratello maggiore abbia partecipato a quella missione.
Il vecchio anche è gentile,si intuisce dallo sguardo, non dalle parole, perché quasi è muto.
Scopro che non è muto soltanto quando lo sento parlare in corridoio, in modo improvviso chiede al controllore se il treno è in orario, in italiano stentato ma corretto.
Il controllore gli dice di sì senza nemmeno rallentare il passo, con sufficienza e una punta di arroganza riservata a quelli che non contano.
Ho sempre detestato i controllori quando trattano così i più deboli perché so che dopo saranno deferenti con i forti.
Mi viene voglia di dire al vecchio che questi treni qui non sono mai in ritardo perché ci mettono una vita per arrivare, capita persino che viaggino troppo veloci, in fondo di notte non possono mica fermarsi ad ogni stazione e così a volte si fermano in mezzo al nulla, al centro di una pianura, e in quel momento i passeggeri si svegliano all'unisono e guardano fuori nella notte e si chiedono reciprocamente dove ci si trovi e nessuno lo sa e la domanda sembra fatta per rassicurarsi a vicenda.
Su treni notturni come questi ho passato notti senza quasi dormire, ho conosciuto gente strana, mi ricordo un tipo che cambiava rapidamente argomento in modo allegro, da napoletano colto.
Aveva deciso di mettersi al centro del vagone come se fosse una scena: c'erano una ragazza cattolica, una vecchia all'apparenza introversa e un altro signore di mezz'età dall'aria ingegneristica, e poi c'ero io.
Il tipo, visto che era un treno strapieno e che nessuno aveva intenzione davvero di dormire fino alle 3, decise di parlare della vita in modo straordinariamente vago e generale, come si può fare solo in un vagone e non certo in quell'open space pieno di trilli e segnali minimi di allarme che sono gli Eurostar.
Faceva domande, esigeva risposte, spargeva battute come riesco talvolta a fare io adesso.
Il tizio più incredibile però che ho conosciuto in un treno notturno è Il folle dei peluche.
Aveva con sé decine e decine di leoni, tigri e pantere di peluche, sosteneva che gliele avessero date in una specie di asta di beneficenza o qualcosa del genere e che fossero di un materiale speciale, venivano prodotte in qualche parte dell'Africa dove sosteneva di essere stato, dietro c'era qualche oscuro scopo sociale che non ricordo più.
Li portava giù ai suoi nipoti e agli amici dei nipoti, e poi se ne fossero rimasti ancora abbastanza, agli amici degli amici dei nipoti.
Era di Battipaglia, vicino casa mia, era magro e alto, con un accenno di pizzetto e capelli lunghi lisci, venni a sapere che era stato per qualche mese in una clinica psichiatrica, che aveva scritto un libro di poesie dal titolo "Ho fatto l'amore con Gesù" e dal modo di fare sembrava omosessuale anche se ci teneva a smentirlo parlando occasionalmente di una sua ex fidanzata.
Il resto dello scompartimento non gli diede molta corda, io ero interessato invece al libro di cui non voleva rivelare i segreti profondi, ai suoi viaggi inventati in Africa e ai ripetuti attacchi alla sua città e all'ambiente familiare in cui era cresciuto.
Sosteneva di essere un artista, ma io vedevo solo il folle e l'effeminato represso.
Quando scendemmo a Salerno mi chiese se lo aiutavo a portare i suoi peluche, continuava a parlare dei suoi peluche come qualcosa di prezioso.
Lo aiutai a trasportarli fino alla banchina, poi recuperò una specie di carrello e li mise tutti su, mi accorsi che portava una valigia molto piccola.
L'ho visto di spalle arrancare per uscire dalla stazione, aspettava qualcuno.