domenica 27 febbraio 2011

Contro il deejay medio


Il deejay radiofonico medio è fra gli esseri umani più stupidi e superficiali del pianeta.
È patetico quando prova a spacciare la sua allegria forzatamente come una droga tagliata male.
Dice sempre urlando al telefono come va..? Buongiorno? Quanti anni hai?
Poi dice sempre che il lunedì è la giornata più pesante, che il venerdì bisogna essere contenti per il weekend, ciarla del sole e della pioggia, legge notizie di gossip e trafiletti dei giornali su studi di certe università anglofone su sentimenti e fedeltà.
Fa battutine a doppio senso leggere, a volte quando è un dj radiofonico un po’ più famoso si permette di enunciare luoghi comuni tipici da canzone di Ligabue e da cinema italiano contemporaneo, vedi fabio volo, tipico esempio del dj mediocre di successo, non a caso diventato attore, scrittore e venditore di opinioni senza la benchè minima profondità.
Molti di loro sono rimasti al gioca Jouer e quando sono ingaggiati in quei locali dove si replicano continuamente gli anni ’90 e dove ancora vige ancora la abitudine del ballo sui tavoli, intervengono continuamente sulla musica cercando di fare battute.
Provano a interagire con il pubblico con scarso successo, tollerati come se fossero inevitabili anche dalle persone con camicie bianche a colletto ampio e dagli sguardi vuoti di comprensione umana.
Poi in certi momenti della serata succede pure che urlano che lo spumante nel privè è stappato come acqua minerale.
Il privè dei locali il punto più basso, niente a che vedere con il club privè degli scambisti che ha una sua ragione di essere ed esistere.

sabato 26 febbraio 2011

Contro Isoradio


Isoradio è la radio dove mettono i dj che sono stati considerati troppo noiosi per radio Rai, ci finiscono quarantenni e cinquantenni che sono costretti a lanciare rubriche sul camionista, a intervistare maggiori e tenenti della polizia stradale e del servizio meteorologico, a volte perfino dei carabinieri.
Viaggiare informati, del Cis, bollettini del traffico a tarda notte di un lunedì qualunque.
Ovunque senza problemi, traffico scorrevole, che poi quando ci sono gli esodi o succede qualcosa sono sempre in difficoltà, sempre un po’ in ritardo, vittime dell’impreparazione burocratica di chi li dirige.
Deejay costretti ad essere seriosi, a battutine inoffensive, garbate, mentre i loro colleghi delle radio commerciali si possono sbizzarrire e dire stronzate e luoghi comuni giovanilistici senza doverne rendere conto a nessuno.

Deejay che sono costretti a lanciare musica vecchia e già morta, in mono.
Così passano Sanremo degli anni ’90, pezzi italiani che non si ascolterebbero mai e che non rientrano fra i brani ingiustamente rimossi, e poi classici stranieri, dance anni ’70, in una programmazione surreale e folle in cui a Barry White può seguire Fiordaliso oppure un pezzo hip hop anonimo, senza nessun apparente nesso logico.


martedì 22 febbraio 2011

Contro gli autobus e “scende alla prossima?”


L’autobus già di per sé è un posto piuttosto insopportabile.
Ci sono i vecchi che provano in ogni modo ad arrampicarsi sui due scalini fatti apposta dal Comune per sterminarli, guardati con sufficienza dai cinquantenni che si attaccano al cellulare a parlare di seconde case e noie al lavoro per sentirsi produttivi e viventi; ci sono gli studenti usciti dal liceo bene e quelli di periferia, che discutono sghignazzando di donne e calcio; ci sono i folli e i dementi, in viaggio da un capolinea all’altro persi in una litania ossessiva di parole e guardati con perplessità dagli altri passeggeri che si aspettano sempre il loro scoppio improvviso per poi prendersela con il governo e lo stato.
Ci sono i filippini e i peruviani, i rumeni e i cinesi, a cui la pubblicità cerca di vendere tessere telefoniche e modi nuovi e più economici per trasferire denaro in patria.
In autobus tutti stanno stretti e scomodi e tutti cercano di mantenere un contegno, di fingere, dai pochi sorrisi degli autobus romani si percepisce il grado di infelicità del paese.

Poi ci son quelli che cercano a tutti modi di rispettare le regole, tipo si scende solo dalla porta centrale e si sale dalle altre due, anche se l’autobus è strapieno la regola ottusa per loro prevale sempre.
Per non parlare di quelli che chiedono ad alta voce di andare sempre un poco più avanti rifiutando di arrendersi alla legge dell’impenetrabilità dei corpi, mi ricordano quell’ossessione per il progresso di certi economisti e sindacalisti ossessionati dai punti percentuali del Pil.
Questa razza di scocciatori da autobus prima o poi ti domanda ansiosa, preoccupata “scusi, lei scende alla prossima?” e tu con il sorriso più solare che hai a tua disposizione provi a rassicurarli dicendo “no signora, ma non si preoccupi, la faccio passare, mi sposto…”
Eppure loro, soprattutto se signore borghesi sulla sessantina, non sembrano mica così convinte, percepisci che hanno paura di restare su quell’autobus pieno e surriscaldato a vita, senti che non vedono l’ora di andare a casa o al negozio e dimenticare l’autobus ed allora continui dicendo “non si preoccupi, scendo anche io e poi risalgo..
Così finalmente si quietano un pochino, anche se in fondo ai loro occhi c’è sempre come un’inquietudine, una malcelata sfiducia che è poi nient’altro che la sfiducia verso l’altro.

Contro gli zainisti (e le battute)



A volte certe storie d’amore nascono con una battuta e finiscono con un'altra battuta, nel frattempo sono successe delle cose e spesso nel mezzo nemmeno ce ne siamo accorti, nel frattempo l’effetto della battuta è cambiato.

Apparentemente è lo stesso: sorriso la prima volta, sorriso nell’ultima, e in tutti e due casi il sorriso, questo fa male, è ugualmente sincero però è cambiato.
Le due battute sono come una parentesi.
Ho sempre odiato le parentesi, quelle tonde, quadre, graffe, mi ricordano la matematica e l’algebra.
Preferisco i puntini sospensivi, a volte li uso anche non hanno senso, una specie di mio tic grafico.
Il termine zainisti l’ho inventato per una ragazza, stavo pensando alla traduzione dallo spagnolo del termine mochilero, che significa viaggiatore con lo zaino in spalla, e mi resi conto che in Italia non esiste un termine analogo.
Si usa a volte, ma solo di recente, e solo molto raramente, il termine inglese backpackers ma altrimenti ti capita di leggere  dei viaggiatori zaini in spalle, una perifrasi decisamente verbosa per un ruolo così dinamico e giovanile.
Per questo avevo inventato il termine zainista e denominato lo zainismo come l’attività di chi viaggia…eccetera eccetera.
Per la stessa ragazza avevo inventato un manuale per scoprire il mancino che è in te e in quel momento mi accorsi definitivamente di averla conquistata, parola tremenda da usare, ma la adopero per pura convenzione.
Il mancino che è in te, le dissi, è un manuale che ti aiuterà a scovare tutte le cose da mancino che alcuni destrorsi imperfetti come me fanno.
Ad esempio io tengo il coltello con la sinistra e la forchetta con la destra oppure ho problemi di lateralizzazione per cui molte volte non so esattamente dirvi se dovete girare a destra o sinistra, non ne intuisco immediatamente la differenza, devo pensarci un attimo.
Forse sono nato mancino, ma poi in qualche fase della mia crescita me ne sono dimenticato.
Insomma questo per dire che si inizia con una battuta e si finisce con una battuta, e non conta se la battuta sia davvero ben riuscita, non deve strappare risate per forza, non è una gag da cabaret, non è Zelig, non Luca e Paolo.
E quella degli zainisti fu l'ultima battuta.
Potrei ora parlare a lungo contro gli zainisti e i loro piccoli riti da viaggio, ma non ne ho più voglia.

venerdì 18 febbraio 2011

Contro la sparizione del passato remoto



In Argentina la professoressa di italiano non spiega più il passato remoto ai suoi allievi perché sostiene che ormai in Italia non si usa più e ha ragione, al Nord e nel linguaggio comune è completamente sparito.
Se dici fui la gente ti potrebbe guardare strano, se usi stetti potrebbero perfino non capirti.
Sono del Sud e da noi il passato remoto un po’ resiste, come resiste l’uso del rispettoso voi al posto del gelido lei che non ci appartiene.

Non ho mai avuto molto interesse per le questioni linguistiche, le trovo spesso polverose come i classici latini e greci di cui è piena la biblioteca di intellettuali come Umberto Eco, eppure la sparizione del passato remoto mi colpisce.
Forse perché quando superi i trenta anni hai raggiunto una certa maturità e senti di avere un passato remoto di cui poter parlare.
In ogni caso il passato remoto ha un senso ben preciso, ed invece ascolti frasi dove gente è andata dieci anni fa in qualche posto, ha perso la testa per una ragazza quando era un bambino, tutto al passato prossimo come se la memoria si fosse dileguata.
La gente non vuole ricordare e allora finge sempre che le cose siano accadute ieri, rimuove, appiattisce tutto in un finto eterno presente.
Alcuni in modo pragmatico parlano di questioni fonetiche, di inevitabile divenire del linguaggio, di semplificazione della lingua, ma in inglese il passato remoto continua ad essere utilizzato, e nello spagnolo è usato spesso più del passato prossimo.
Ogni tanto mi capita di usarlo e qualcuno me lo fa notare, una volta anni fa litigai per difenderlo e prima o poi frequentando stranieri che parlano un buon italiano, la questione esce fuori.
Sono le tipiche questioni che escono fuori parlando con stranieri: perché la gente vota Berlusconi, il declino del nostro paese, la vita molto meno dolce e meno divertente di quello che si aspettavano, l’uso scriteriato del doppiaggio nei film.
Unite gli argomenti come quei giochi con i puntini che ci sono sulla settimana enigmistica e forse qualcosa ne ricavate.
Io intanto mi impongo di usare il passato remoto più spesso che posso, indifferente agli sguardi perplessi che raccoglierò.

giovedì 17 febbraio 2011

Contro il lavoro


Che l’Italia sia un paese fondato sul lavoro lo dice il nostro articolo 1.
D’accordo è anche la pizzettara di Piazza Vittorio, dice di aver imparato fin da piccola che la cosa più importante è lavorare sodo, duro.
La signora occhialuta con una prosciutto e funghi in mano annuisce, ha il volto dell’impiegata di basso rango e sostiene con un detto mai passato di moda che il lavoro nobilita l’uomo.
Passare scartoffie non la nobiliterà di certo.
In questa pizzeria a taglio tutti sembrano concordi su questo punto che unisce destra e sinistra, sopra e sotto, industriali e operai si sarebbe detto in altri tempi.
Anche la mia ex era convinta di questo, ogni tanto mi faceva notare che non lavoravo abbastanza, manifestava i suoi dubbi in modo un po’ indiretto, dubitava delle mie ambizioni.
Lei aveva sempre lavorato  mi diceva, anche quando studiava, qui lo fanno tutti continuava.
Lavoro di ufficio, non tanto gravoso e lei lo sapeva, ben pagato, anzi benissimo pagato tenendo conto dei redditi medi di là.
Se le ricordavo la sua buona stella, che poteva svegliarsi tardi, assentarsi, continuare a fare l’assistente universitaria senza perdere un soldo, si inalberava.
Avevo il torto di essere franco.
Mi diceva che le dava fastidio sentirsi dire che non lavorava abbastanza, chiaramente si sentiva in colpa, il suo piccolo ruolo la definiva, era il tipo che si complimentava per la sua ascesa economica e sociale.
Ascesa che la seguirà come un'ombra tutta la vita, aveva il terrore di ridiventare povera, l’ansia della gratificazione.
Tutti si definiscono per ciò che fanno, chi ti chiede come prima cosa che fai e non chi sei non ha capito nulla della vita.
Spiegarle queste cose era pressoché impossibile, ero costretto a eludere, a rimanere sulla superficie, laddove tutti vogliono che tu rimanga.



martedì 8 febbraio 2011

Contro quelli che sbagliano numero di telefono


Cercano tale Cinzia, cercano la Comes, azienda di compensati, cercano Giorgio, cercano una agenzia immobiliare, cercano lo studio medico del dottor Taroli, cercano un negozio di alimenti per animali.
Chiamano alla mattina svegliandomi, ma Cinzia si sveglia sempre così presto? E cosa avevi di così importante da dirle?
Chiamano mentre sto mangiando, ma pensi che la segreteria del Dottor Taroli sia sempre a tua disposizione?
Non credono di aver sbagliato numero, quasi li sento stupiti, perplessi, come se fossi uno che non vuole passargli Giorgio o Stefania, una sorta di sabotatore, o magari un misterioso nuovo amico.
Mi chiedono ho fatto il numero scusi..0686….. e io confermo e loro devono accettare che Giorgia non è più lì da un pezzo, che la azienda di compensati forse ha cambiato quartiere o intestazione sociale.
Questo è il mio numero da diversi anni, vorrei dirgli, non ne so nulla di compensati, anche io vorrei sapere tutta questa gente dove è andata a finire, quando ha traslocato telefonicamente, quando ha staccato la linea senza avvisarvi.
Anche io vorrei sapere se dietro la loro assenza c’è qualche segreto interessante oppure solo un semplice cambio di utenza, qualcosa di stupidamente burocratico.
Io non sbaglio numero come voi, non sbaglio mai, piuttosto lo controllo e lo ricontrollo prima, me lo segno a penna da qualche parte e osservo attentamente ogni cifra, forse perché ho un passato da timido e l'apparecchio telefonico mi mette sempre un po' di soggezione.

Sicuramente questo numero sbagliato non l'avete trovato in nessun tipo di elenco, doveva venire da vostre  vecchie agende o rubriche che continuate imperterriti ad usare malgrado siano datate.
Il tempo passa sapete, anche io ho numeri che non chiamo più, sono numeri che non ho più diritto di chiamare.

lunedì 7 febbraio 2011

Contro le zuccheriere con il buco e le bustine di zucchero dei bar

Sono nostalgico delle zuccheriere da bar di una volta,  ormai quasi completamente sparite, quelle grandi, con i cucchiaini, argentate, nei bar di lusso dorate o di argento vero, in quelli più scalcagnati e di periferia con lo zucchero sempre un po’ bicolore perché macchiato dal caffè.
Allora potevi scegliere quanto zucchero effettivamente mettere nel caffè.
Un cucchiaino, mezzo cucchiaino, uno e mezzo, insomma potevi decidere il tuo grado di dolcezza, cosa che sarebbe utile anche in altre occasioni della vita ed eri tu il responsabile.
Ora invece sei costretto ad aprire, ed io trovo sempre un po' di difficoltà nel farlo senza che qualche briciola non vada a finire sul ripiano del bar o sopra il piattino, quelle bustine con orribili loghi pubblicitari, che fra l’altro inquinano.
Difficile o impossibile dosare, il libero arbitrio è stato sconfitto dalla dose prestabilita subdolamente imposta.
Tutto questo per la stupida mania dell’igiene a tutti i costi, per una paranoia tipica delle direttive comunitarie.
In alcuni bar poi pensano di risolvere il problema con una diavoleria ancora più assurda, le zuccheriere  chiuse ermeticamente, quelle da cui lo zucchero esce da un piccolo buco all’estremità.
In realtà quasi sempre queste zuccheriere sono bloccate, lo zucchero ostruito trionfa contro la legge di gravità newtoniana, non esce o quando esce è sempre troppo o troppo poco.
Un rivolo bianco o una cascata che ti rende imbevibile il caffè, e poi sono anche brutte da vedere, poco allegre, strambe.
Come si possa avere questo tipo di zuccheriera in casa, ho conosciuto persone che la usano con soddisfazione, resta per me un autentico mistero.



domenica 6 febbraio 2011

Contro l'ombrello


Qualcuno ha detto che l’ombrello è un manufatto borghese, come l’orologio da polso e non so cos’altro.
L’orologio da polso è stato distrutto dai cellulari, mentre l’ombrello imperterrito continua a minacciare le nostre teste nei marciapiedi troppo stretti e troppo affollati.
Stecche che si rompono, ancora più facilmente da quando la fattura media degli ombrelli è decisamente peggiorata, e da quando una buona percentuale degli ombrelli nelle strade è stata comperata dai bengalesi fuori dalla metro.
Stecche di metallo appuntite che ti minacciano le pupille, sguardi cattivi quando due persone si incrociano per la strada e bisogna evitare a tutti i costi il contatto, e poi gli ombrelli ti fanno sempre scorrere l’acqua sui pantaloni, sono ingombranti anche quando si fingono pratici e mini.
Non sai mai dove metterli quando entri in un negozio, ceni al ristorante, o entri in un auto.
Insomma i danni procurati sono molto superiori ai benefici.
Per non parlare di chi porta l’ombrello appena vede all’orizzonte nubi più grigie del solito, o di quelle donne che lo nascondono nelle loro borse capienti.
Negli anni ottanta era molto comune ricorrere ai k-way, ora sono tornati ma più per moda che per necessità.
Eppure mi sembra che un buon impermeabile possa sostituire l’ombrello nella stragrande maggioranza dei casi di precipitazioni.

giovedì 3 febbraio 2011

Contro il semaforo



Il semaforo blocca le nostre vite, in uno stato di attesa tensiva,
vorremmo tanto poterci fermare e non pensare a nulla, ma invece dobbiamo sempre fissare quel rosso.
L’auto dietro anche senza bussare mostra impazienza ottusa fin dal paraurti, osserviamo dallo specchietto retrovisore i gesti dell’uomo dietro di noi cercando di intuire se sarà il tipo pronto a bussarci appena quel rosso diventerà verde.
Se siamo i primi della fila abbiamo una tensione e una responsabilità insostenibile, recuperare quei decimi di secondo che serviranno all’ultimo della fila a fare in modo che il rosso diventato verde non ridiventi di nuovo rosso e non gli faccia perdere un appuntamento prezioso con una donna, o che i figli restino altri minuti a traumatizzarsi nell’androne della scuola.
Siamo padroni del suo destino.

D’altra parte se siamo invece secondo  o terzi, se siamo insomma fra due auto, la tensione non è minore, essendo anche noi attenti a quello che accade davanti, concentrati nello stesso tempo sul rosso e sul parafanghi del nostro compagno di sventura.
Che poi i semafori mica sono sincronizzati bene nelle nostre città,  a Roma ci sono semafori rapidi come un battito di ciglia e altri che sembrano durare insopportabilmente troppo, non capisci mai il meccanismo  che li governa.
C’è un ingegnere preposto al comune? Chi si occupa del tempo dei semafori ? Chi decide quanto dura un semaforo e quando il semaforo può diventare nella notte splendidamente giallo lampeggiante?

mercoledì 2 febbraio 2011

contro le receptionist delle palestre



In palestra o nei circoli sportivi di solito le ragazze che lavorano alle reception e al bar sono tutte al limiti del subnormale, evidentemente sono state tutte selezionate sulla base di favori sessuali, non capiscono mai quando chiedi una fattura invece di uno scontrino, o cerchi di fare delle domande sulla struttura e sui vantaggi della convenzione sconto.
Ti dicono tuti i vantaggi della palestra come se si fossero imparati a memoria un discorso e sono in difficoltà se una tua domanda esce fuori dagli schemi o se li interrompi con una considerazione inattesa.
Sono sorridenti e inebetitite, e se sono al bar, decisamente non capaci di gestire i resti e occuparsi delle priorità di ordinazione per un panino.
Per questo motivo sono molto contento che nella palestra in cui mi iscriverò alla reception c’era un vecchio con la pelle cascante sul collo e la faccia da un ex allenatore di pugilato sorridente, di quelli che nei film sono sempre rimpianti quando muoiono.

Contro Argentina 2


Gli argentini sono nostalgici, perché una volta erano uno dei paesi più ricchi al mondo e dopo il 2001 hanno cominciato ad emigrare, e spesso se la prendono per questo con i loro cugini più poveri, mostrandosi xenofobi contro boliviani, peruviani e paraguaiani, che chiamano paragua perché vendono gli ombrelli.
Li ho chiamati cugini perché questa cosa li fa infuriare.


Hanno poco rispetto per la bellezza, in questo non sono molto diversi dagli italiani.
 I bellissimi palazzi anni trenta di Buenos Aires rischiano nel giro di pochi anni di essere abbattuti per far spazio a orrendi palazzi alti di cemento armato, costruiti a scopo speculativo, e Puerto Madero a tal proposito è un quartiere residenziale orrendamente europeo.


Gli abitanti di Buenos Aires sono generalmente egocentrici, si calcola che la percentuale dei psicoanalisti per abitante sia la più alta al mondo, superando anche la media della Manhattan di Woody Allen.

Malgrado le donne si considerino indipendenti, è tuttora in uso il “pirome”.Ovvero al passaggio di una donna gli uomini per la strada fischiano e commentano a voce alta come nei film italiani del dopoguerra. A seconda della donna, e dell’uomo che commenta, si può andare da un opinione galante fino al peggiore degli apprezzamenti.


La loro carne è buona ed economica, ma è sopravvalutata come le loro parrilla

La loro dieta alimentare è poco salubre, basandosi per lo più su carne, e mancando di frutta e verdura, che pure potrebbero avere in grandi quantità.Quasi impossibile trovare una insalata buona in un ristorante.

La loro presunta italianità è sempre più spesso così labile che rischia di diventare inesistente, a tal proposito la pizza è quasi sempre alta e indigeribile, piena di un formaggio bianco che spacciano per muzzarella, negli stati uniti mediamente è molto migliore ed anche la loro pasta, compresa quella che orgogliosamente chiamano fresca, è assolutamente scadente.