mercoledì 15 giugno 2011

Contro le buone maniere (a tavola)

Nei film americani quando si vuole evidenziare la crudeltà paterna ci sono sempre delle scene in cui il genitore tratta malissimo il figlio perché non mangia in modo composto, perché usa le mani quando non dovrebbe usarle o si ingozza troppo rapidamente senza rispondere alle domande di rito su come è andata la giornata.
Il figlio di solito finisce per abbozzare, per dire sì signore e poi viene obbligato a finire i piselli e le carotine poco invitanti, distribuite in modo paranoicamente regolare nel piatto.
A volte se il figlio è stato disobbediente e non ha rispettato le regole del galateo familiare, il padre lo caccia via da tavola senza fargli nemmeno finire la cena.
A volte ci sono delle scenate: il figlio piange, il fratello pure, la madre lo protegge dallo schiaffo in arrivo abbracciandolo forte.

Questo mi ha fatto sempre pensare che ci sia una relazione stretta fra l’eccesso di formalismo a tavola e il sorgere di pesantissimi complessi infantili.
A casa mia non ho mai avuto di questi problemi.
Mio padre mangia in modo velocissimo, riesce a ingozzarsi una mela in tre morsi, divora le cose con avidità.
E non si è mai preoccupato molto del modo in cui mangiavamo, se avevamo una posa corretta mentre stavamo a tavola oppure se non masticavamo a sufficienza prima di ingoiare.
Mia madre lo ha sempre ripreso vanamente, i loro scontri ci lasciavano la libertà di regolarci come volevamo.
Lo so, alcuni potranno trovare questo comportamento un po’ troppo lassista, però io penso che sia meglio dell’imposizione di regole ferree che ti rovinano la vita.
Tutte le persone che denotano durante i pranzi degli eccessi di pignoleria, hanno di solito delle turbe nel loro passato.
Alla prima cena al ristorante con M. ordinai della pasta lunga, non ricordo se tagliatelle o qualcosa del genere, di conseguenza era inevitabile qualche piccola difficoltà.
Ho visto stranieri usare forchetta e coltello per tagliare gli spaghetti oppure aiutarsi con il cucchiaio, come facevano i nostri bisnonni, ma è una cosa inammissibile ai giorni d’oggi per un italiano.
Appena fummo più in confidenza, e dopo varie sessioni di osservazione silenziosa, M. iniziò improvvisamente a fissare le sue regole a tavola: non si parla mai quando si mangia, si sta diritti, non si usano mai le mani per aggiustare qualcosa che non riesci ad infilzare perfettamente con la forchetta.
Inutile dire che in casi di riunione conviviale qualche strappo alla regola del non parlare quando mangi si può fare, anche per non bloccare la comunicazione in un rigido schema; una volta, a cena con dei miei amici, M. si accorse che non ero il solo a violarla occasionalmente e pensò, con la solita arroganza argentina, che fosse un comportamento tipicamente italiano. Sul mio modo di tenere forchetta e coltello, poi, intraprese una sua personale battaglia.
Io sono un mancino a tavola, ovvero tengo la forchetta con la destra e il coltello con la sinistra, nel caso di pietanza che abbia bisogno di entrambe le posate.
La cosa potrebbe essere legata alle mie difficoltà di lateralizzazione, per cui  ho bisogno sempre di riflettere un attimo prima di decidere qual è la destra e quale la sinistra.
Oppure più probabilmente è solo una cattiva abitudine, o semplicemente una abitudine, presa da bambino.
La forchetta, impugnata con la mano destra, la adopero come una sorta di  supporto perpendicolare al piatto per bloccare l’alimento, mentre con la mano sinistra piego il coltello in un modo poco convenzionale ed esteticamente non bello a vedersi.
Non essendo un autentico mancino, questo stravagante modo di mangiare ha anche una ricaduta sul piano pratico, così la pizza ad esempio la distruggo in malo modo.
M. si impose di farmi cambiare abitudine, cercò di farmi invertire le mani con cui afferravo le posate o almeno, se volevo continuare ad essere mancino, pretendeva che tenessi forchetta e coltello in maniera più corretta.
Ogni volta che iniziavamo a mangiare una parrilla diceva ah ah e sorridendo mi ricordava della cosa, dopo qualche giorno come un cane pavloviano al suo ah reagivo afferrando le posate nel modo ortodosso.
L’ultima volta che andammo a cena assieme mi riprese due volte, senza accorgermene avevo sfiorato con la mano delle patate al forno e mi ero piegato un po’ troppo verso il piatto.
Io non giudicavo mai le sue lacune, eravamo su due piani diversi, per la prima volta ero il buono.
Quando stavamo per finire la cena, che per il resto era andata apparentemente bene, mi ricordò del nostro primo appuntamento, della scelta sbagliata di quella pasta lunga e mi consigliò di non fare un errore del genere a un altro primo appuntamento.
Aveva deciso di lasciarmi e non conosceva il tatto, la decenza, o il coraggio, di sapere come fare; era maldestra come io sono maldestro in altre mille cose molto meno importanti.
Adesso non so più come mangio, non ho nessuno che mi controlla, a cui interessi davvero ma neppure nessuno a cui dia fastidio, o che voglia usarmi come cavia.
Per inerzia continuo a prendere coltello con la sinistra e forchetta con la destra, come ho fatto per trentacinque anni.
Ma qualche volta  mi fermo un attimo e ci rifletto, allo stesso modo in cui ci metto un attimo prima se dirvi se dovete girare a destra o sinistra.

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