Gli
americani vanno al campo di concentramento come ad una scampagnata, due coppie
una dietro l’altra in viaggio di nozze per la vecchia Europa come in un film di
Woody Allen.
Una
delle due donne dice qualcosa prima di partire al suo maritino perfettamente
rasato, ha una voce brutta, come quasi tutte le statunitensi.
Ho
sempre odiato il loro tono di voce stridulo, da cornacchia, con cui manifestano
quasi urlando il loro stupore, sempre recitato, da attori di provincia.
Ha
smalto rosso sulle unghie e un orrendo anello vistoso sull’anulare, mi sembra
poco appropriato per dove stiamo andando.
Qualsiasi
cosa ad Auschwitz non è appropriata, non è appropriata la mia maglietta con stampato
un Einstein dj davanti a due piatti con dei vinili sopra, non è appropriato avere
con sé una macchina fotografica.
Forse
per questo il piccolo rumore degli americani che visionano le loro foto e
liberano spazio sulle schede di memoria mi sembra un caricamento di fucili in
un plotone di esecuzione.
Sul
pullman c’è un sottofondo di musica pop internazionale, passa un vecchio brano
di Celine Dion, l’americana inizia
a canticchiarla a bassa voce, conosce tutte le parole. E’ una canzone di amore
che finisce bene, una di quelle in cui i cantanti dichiarano il loro amore
eterno a consorti di cui già sanno che inevitabilmente divorzieranno, non mi
sembra affatto appropriata.
Ho
in testa per tutto il tragitto una terribile canzone che aveva scritto Guccini
su Auschwitz, me la fecero perfino imparare a memoria alle scuole medie, era scritta
come se a cantarla in prima persona fosse un bambino morto che raccontava la
sua vicenda, il suo arrivo nel campo ricoperto di neve, il ritornello diceva che
era nel vento perché era stato bruciato nel forno crematorio.
Non
ho mai capito chi scrive di cose che non sa: il cantante che racconta di guerre
mai vissute, il giovane scrittore che pubblica un romanzo che ha come protagonista
un partigiano nel ‘43, quella che si inventa di sana pianta nomi verosimili per
una trama ambientata nell’Afghanistan contemporaneo.
Per
questo non ho alcuna intenzione di capire cosa ha provato un bambino finito ad
Auschwitz, quando ho visto delle foto in bianco e nero con questi sguardi
smarriti di bambini che si tengono per mano e che sanno perfettamente cosa sta
accadendo, ho potuto solo starmene in silenzio, ho dovuto solo starmene in
silenzio.
Per tutta la strada verso Auschwitz scorrono dal finestrino dolci pendii coltivati,
qua e là appaiono e scompaiono i binari della ferrovia.
All’ingresso
della città c’è una grande stazione con molti scambi e vagoni.
Non
posso evitare di pensare che la stazione sia sempre ben attrezzata proprio come al tempo in cui fu installato il campo, da questo momento in poi
ogni cosa sembra diversa.
Tutti
gli edifici che mi sembrano costruiti negli anni ’30 ora mi fanno paura.
Caserme
con mattoni di arenaria rossa, palazzetti dall’aria elegante, costruzioni che di
solito esteticamente ammiro ora mi fanno venire i brividi.
Mi
difendo cercando con lo sguardo capannoni in cemento armato o abitazioni mono
familiari con finestre troppo strette, edifici tirati su dopo la guerra, più
sono recenti e più mi calmano.
Nel
parcheggio prima dell’entrata ci sono alcuni gruppi di scolaresche e molti militari
di leva israeliani in divisa, sergenti dal corpo enorme e con occhiali da sole
perennemente sugli occhi, il loro atteggiamento cattivo mi sembra l’unico
giustificato.
In
lontananza si avvicinano gruppi di israeliani anziani, ma facendo due conti
non tanto da poter aver vissuto l’Olocausto, hanno in mano bandiere del loro
stato, camminano parlottando fra loro.
E
poi un sacco di americani, scendono da pullman con sopra scritte le città da
dove arrivano.
Sono
vestiti come americani in gita, male, con larghi pantaloni color cachi, le
donne con cappelloni di paglia per proteggersi dal sole eventuale.
Hanno
dei cartellini appuntati al petto, leggo i loro cognomi ebraici e mi aspetto da
loro una sofferenza che non troverò.
Sono
tanti Spielberg in libera uscita, per loro l’Olocausto è un film distante che
parla di lontani parenti di cui qualcuno conserva in un cassetto delle foto e
delle lettere spedite poco prima della fine.
Scrutano
con un certo stupore e molta diffidenza gli israeliani e la loro faccia
incarognita, sono troppo democratici.
Ci
sono alcuni israeliani paralitici in carrozzella, vittime della questione
mediorientale, scrutano l’orizzonte cercando nella sofferenza altrui un buon
motivo per il loro vano sacrifico.
All’ingresso
mi costringono a prendere una guida che non voglio, mi faccio anche consegnare
anche un audioguida che non ascolterò e vado da solo in giro.
Prima
però ci mostrano un documentario su Auschwitz realizzato negli anni Sessanta,
si capisce dal tono della voce fuori campo ed anche dal modo in cui sono
mostrati con benevolenza eccessiva i liberatori sovietici.
Soldati
che sorreggono i sopravvissuti, medici che fanno di tutto per salvare le loro
vite ponendoli ad accurati esami.
La
guida in inglese che è stata assegnata a me ed altre cento persone non è polacca,
ha l’accento americano, penso a come deve essere stato diverso Il campo prima
del 1989 con solo polacchi e russi, senza nessun giovane statunitense venuto a
lavorare come stagionale di lusso.
Il
tizio ha la tendenza a colorare gli eventi, ad alta voce e con pausa
volutamente teatrale dice immaginate cosa doveva provare un bambino che
entrava qui, non riesco a immaginare
nulla, nemmeno voglio e sono pressoché certo che neanche lui può riuscirci.
Lo
guardo negli occhi, sta mentendo.
La
cosa che più mi stupisce è il forno crematorio, non ha nulla di tecnologico, come mi aspettavo per colpa di tutti i
film dove i nazisti sembrano scienziati crudeli e rispettabili, perfetti
esecutori di sentenze con provette di veleno e sostanze chimiche dosate.
Sembra
un macello per animali e penso che un giusto film dovrebbe mostrare i soldati
nazisti per quello che erano, massacratori senza alcuna intelligenza misteriosa.
Una
coppia posa per una foto davanti al filo spinato di una recinzione, sono
sorridenti, contenti del loro viaggio nella vecchia Europa dei loro nonni e
bisnonni, li sento parlare, sono argentini.
Solo
dei sudamericani possono avere una tale mancanza di tatto ma li comprendo, gli
manca completamente il senso della storia, non hanno vissuto la guerra, i loro
antenati sono scappati prima o dopo, sono contenti di essere sopravvissuti e
vivi.
Non
è appropriato avere fame ad Auschwitz ma a una certa ora il mio stomaco non
resiste e così entro dentro la mensa self service di fianco all’ingresso.
È
un bel posto, se può esistere un bel posto in un luogo del genere, ha la
sobrietà estrema di una caffetteria a buon mercato, hai l’illusione che nessuno
ci stia guadagnando più del dovuto.
Le
signore che ti servono parlano poche parole di inglese giusto per comunicarti i
nomi delle pietanze, hanno cuffie bianche in testa, sono cinquantenni bionde
dalla faccia paffuta, servono cotolette di maiale, come contorno barbabietole o
purè di patate.
Mi
piacciono queste donne dell’est che non sono al passo con i tempi.
Mangio
con colpevole gusto.
Il
piatto glielo porti tu sull’uscio della cucina quando hai finito.
Una
ragazza giovane che lavora come lavapiatti fa due passi e ti prende il vassoio sorridendo muta.
Grazie
a loro non mi sento in colpa.
Brividi..e un pugno allo stomaco.
RispondiEliminaa Dachau attorno alla biglietteria c'è un boschetto di betulle, che quasi mi fece venire il panico per il contrasto dell'accostamento tra il verde tenero delle foglie e l'orrore che si era celato per anni dietro al cancello con la scritta "il lavoro rende liberi"... anche senza più baracche sono posti terribili dove ci si vorrebbe vestire di grigio per poter a nostra volta scomparire e dove si, c'è gente che posa sorridente davanti al forno crematorio.
Pauli mi piace sempre come scrivi, Contro Auschwitz è un'altro bel pezzo anche se davvero i complimenti come ogni cosa ad Auschwitz sembra non appropriata...
Giò
P.s: in colpa ci si dovrebbe setire chi non sa apprezzare "il sorriso della cameriera", chi va sempre e solo ad una scampagnata e che guarda tutto sempre con il solito sguardo e non hai mai avuto paura dei palazzetti anni '30 :)
penso che dovrebbero costringere tutti a vestirsi di grigio o di bianco per entrare lì, allora sarebbe più appropriato
RispondiEliminaIl tuo miglior pezzo di sempre. Nettamente.
RispondiEliminaIl commento sulla risata stridula delle americane e' eccezionale, cosi' cattivo e cosi' vero...
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