(Foto di Giovanna Eros)
Aveva 14
anni, si annoiava e ammazzava mosche oppure girava in circolo per il soggiorno.
Aveva 14
anni, si annoiava, ammazzava mosche girando in circolo nel soggiorno e nello stesso
mese c’erano i Mondiali di calcio in Italia.
A causa
degli stessi Mondiali il ragazzo possedeva un quaderno che riempiva ogni giorno
con le cronache stringate ma ben realizzate, corredate da voti e tabellino, di ogni
singola partita.
Il
compilatore era il ragazzo stesso che aveva un futuro già scritto da
giornalista sportivo.
Il ragazzo guardava
ogni singola, maledetta partita di quei Mondiali e se c’erano partite in
contemporanea barava, fidandosi poco convinto dei resoconti dei giornalisti.
Il ragazzo
non diventò giornalista sportivo e probabilmente a quest’ora starà facendo un
lavoro qualsiasi.
Quei Mondiali
furono fra i più noiosi di ogni tempo e il caldo non c’entrava proprio niente.
Quei Mondiali
però avevano un bellissimo simbolo, incompreso da tutti, dagli adolescenti fino
a tutta la stampa nazionale.
Un simbolo scelto
con un concorso in cui vinse un grafico di media caratura, il nome anche fu
scelto per concorso.
Potevi scegliere
sul retro della schedina fra cinque opzioni: chiamarlo Ciao, Amico, Beniamino,
Dribbly oppure Bimbo.
Vinse Ciao,
la soluzione più facile, ma quel simbolo di amichevole e di ciaoistico aveva
poco.
Non era un
pupazzo o un animale, non una frutta o una verdura antropomorfizzata.
Più Linea di
Cavandoli che manufatto Disney insomma.
Vettoriale,
geometrico, gelido, scomponibile, rifletteva l’esordioo del digitale, era già adatto
per finire in avveniristiche proiezioni 3D.
La Rai non era
ovviamente pronta a sfruttare la sua potenza immaginifica, i capostruttura
erano in imbarazzo, restavano di notte insonni a pensare a come farlo
interagire con conduttrici opulente ignoranti di calcio.
Avrebbero preferito
un orsacchiotto, un asino o magari un ulivo, una quercia.
Le riproduzioni
del logo come soprammobile erano sempre agghiaccianti, soprattutto per colpa
del pallone che in quella linearità bianco, rosso e verde, sembrava sempre
beffardo e mal posto.
Non poteva
diventare un oggetto o un souvenir, nulla da poter abbracciare; Ciao era già
nella virtualità, era fantascienza applicata ad un evento di massa.
Non se ne
vendettero molti oppure si vendettero per uso aziendale e finirono dimenticati
in scatoloni e armadi, in ogni caso non diventarono oggetti da recupero
vintage, non ce n’è traccia nei mercati.
Eppure qualcuno
pensò di rendere omaggio a quel simbolo che prometteva il futuro mentre l’Italia
si avviava allegramente alla rovina.
Qualche
anonimo geometra inconsapevolmente stava ottenendo dal suo progetto il
capolavoro definitivo, un’opera che vale più di tutta l’arte contemporanea della
penisola.
Più dei
singoli graffiti degli “street artisti” che rendono ogni città uguale all’altra,
come duty free di un aeroporto.
Non sappiamo
chi a Palagonia, nella profonda Sicilia, propose di onorare una rotonda con una
copia di un Ciao a grandezza innaturale.
Una copia
con un pallone rosso, inquietante come un Super Santos da film horror.
Non sappiamo
se sia stata una licenza dello scultore, non sappiamo nemmeno se dietro ci sia uno
scultore o se sia stato prodotto da un’azienda che fabbrica statue di gesso di Padre
Pio nelle zone industriali delle nostre cittadine del sud, così distrutte e
così amate.
Il manufatto
di ferro piazzato in uno slargo qualsiasi deve avere avuto un’inaugurazione trionfale
fra assessori del Psi e della Dc.
Tangentopoli
era alle porte, due anni e quello splendore sarebbe stato intaccato per sempre.
Poco importa
se sia stato vero o falso, era splendore che mai più sarebbe ritornato.
Ora Ciao resta
in piedi, arrugginito, nessun essere umano ha sentito la minima pietà e ha
provato a restaurarlo, e questo è stato un bene.
Da questa
inedia si è formata l’opera.
Un’ opera
collettiva, ma non come quei collettivi che inondano di finta arte ogni spazio.
Nessuno ha
avuto nemmeno il coraggio di rubarlo o di requisirlo o di proporne la distruzione
come se fosse un’opera di regime.
E questo è un
bene anche; non ha suscitato emozioni di odio, invidia o avidità.
L’indifferenza
a volte può essere la nostra maggiore ancora di salvezza.
La statua di
Palagonia meriterebbe di essere protetta come impersonificazione commovente di
una decadenza tutta italiana, di venticinque anni di declino, molto più
significativo di qualsiasi monumento ai caduti.
Un monumento
al caduto.
Bellissimo e verissimo
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