venerdì 30 marzo 2012

Contro il caso (e il Lambrusco)


Sono rimasto a terra, colpa della spia che non funziona più, non mi accorgo di quando arriva in riserva.
Passo e ripasso dal benzinaio per riempire una bottiglia di plastica di un litro e mezzo, faccio tre volte andata e ritorno, ho le mani che sanno di benzina, è uno dei miei odori preferiti da quando ero bambino.

Nel tragitto breve fra la pompa di benzina e la mia auto ferma in seconda fila c’è una chiesa, davanti alla chiesa un’auto, dentro una bara, è morto un uomo molto anziano, lo deduco dalla poca commozione dei presenti che aspettano la celebrazione del funerale con sorrisi lievi e strette di mano, non ha sofferto o ha finito di soffrire.
A Roma solo nei quartieri periferici la morte esiste ancora in modo pubblico, esibita da manifesti scritti con caratteri obsoleti nell’epoca del programmi di grafica per Mac.
Al Quadraro è morto un barista che deve essere stato celebre, generoso e piuttosto giovane, le saracinesche sono ricoperte da foglietti stampati a casa dalla famiglia che sentitamente ringrazia tutti per la partecipazione alle esequie e la vicinanza.
Nel mio quartiere annunci di morte non ci sono, non passano carri funebri, eppure è un quartiere anziano  di una città anziana di una nazione vecchia, non sembra mica così dal modo in cui è gestito il trapasso.
Forse per questo, anche se non c’è alcuna drammaticità nella scena, l’evento mi scuote, abbastanza per decidere quasi di colpo un cambiamento di piano.
Andrò alla Garbatella a scattare foto, dovevo scrivere ma non ho voglia.
Scattare foto mi sta salvando la vita più di quanto pensiate, tutte le occupazioni salvano la vita più di quanto pensiate.
In auto ascolto una radio che parla di calcio, mi piace sentire un giornalista che distrugge la Roma fingendo di esserne amico, mi diverte; penso spesso alle vite di questi giornalisti sportivi, alle loro discussioni oziose, alle loro diarie da trasferta, ai loro pranzi al ristorante parlando di cose mangiate in altre città, di donne, di vizi e virtù di calciatori e allenatori di cui si vantano di essere amici, la loro settorialità me Ii rende più simpatici dei giornalisti che si occupano di politica e li trattano con insopportabile sussiego.
L’importante è che siano cialtroni abbastanza, che la sparino grossa; se vogliono mostrarsi competenti e assennati, razionali e logici, diventano noiosi, spacciatori di citazioni artistiche e storiche buone per compilatori di cruciverba o buoni giocatori di Trivial Pursuit.
Cialtroni come Maurizio Mosca, quel giornalista che prevedeva il risultato delle partite facendo oscillare un pendolino di plastica, a volte indossando un turbante.
Quando ero un ragazzino di dodici anni vedevo assieme a mio padre L’Appello del Martedì, Maurizio Mosca conduceva vestito da giudice, con la toga e un martelletto, era la risposta al Processo del Lunedì di Biscardi, di cui Mosca era stato per anni opinionista fisso.
Vedevo anche il Processo ma oramai lì le liti erano istituzionalizzate, Biscardi accendeva gli animi e poi subito li spegneva mostrando deferenza verso il potere, sia esso politico, economico, calcistico.
All’epoca il capo della Figc, federazione italiana gioco calcio , era Matarrese Antonio, fratello del presidente del Bari, democristiano, basso, vestito spesso con giacche a quadrettini molto ministeriali, era una specie di Al Bano sia per la fisionomia del viso che per l’atteggiamento dell’arrogante che vanamente finge umiltà cristiana.

L’Appello del Martedì invece era un processo esploso e diventato surreale, alla sinistra di Mosca c’era Helenio Herrera, allenatore della grande Inter, il mago totalmente rincoglionito veniva preso in giro ripetutamente e non dava alcun cenno di accorgersene,  alla destra Mughini, all’epoca non sapevo avesse un passato da direttore di Lotta Continua
Era juventino come me, usava parole desuete che facevano ridere gli spettatori con teste enormi da subnormale.

Sono nei pressi della stazione e penso cose del genere mentre lei attraversa le strisce pedonali, guardando avanti a sé con lo sugardo perso della miope, devo bussare il clacson e chiamarla a voce alta perché si accorga di me.
Incrocia le braccia, il suo come va è un disperato lamento alla casualità che ci ha fatto scontrare senza che lei volesse, sotto il braccio destro stringe una bottiglia di vino scadente, il lambrusco frizzantino che misteriosamente amano tutti gli stranieri e che ho sempre trovato stucchevole e sciatto fin dai caratteri usati per le etichette, questi rossi accesi sempre in corsivo, così dannatamente inizio Novecento, così verdiani.
Non c’è dramma né melodramma, mi sforzo di provare più di quanto davvero senta, fa presto a morire l’amore e la cosa mi dà molto fastidio, l’ossessione quella di solito resta a lungo, me la porto appresso con una specie di voluttà e la ricaccio fuori nei momenti più impensati.
Sale in auto, le dò un passaggio, così parliamo, è da tempo che non ci vediamo aggiungo rassicurante non c’è nulla di cui voglia parlare, nessuna novità.
Dovrei mettermi a fare discorsi strampalati come capitava in certe puntate dell’Appello dove era difficile trovare argomenti, dovrei trovare pretesti, iniziare a parlare del Lambrusco e distruggerlo da critico omaggiando così tutti i polemisti di professione che guardavo da adolescente, invece finisco a farle domande che non esigono risposta perché non sopporto il silenzio.

Le voglio bene, anche se l’amore si trasforma sempre in maledetta tenerezza e quella è roba da smidollati, ti fa sentir in colpa perché invece della rabbia ti lascia gli occhi lucidi senza rancore, provo a sfiorarle una guancia con la mano, la ritraggo un attimo prima che diventi eccessivamente sentimentale.

Cerca di incrociare le braccia più che può ma c’è un limite anche alle articolazioni e alla fine inevitabilmente si deve un po’ sciogliere, mi bacia sule guance e sorride, forse perché la sta scampando, mi concede una battuta quando è fuori, al sicuro, con la portiera in mano che si accinge a chiudere.

Riparto senza rimuginare su quello che ci siamo o non ci siamo detti, dalla strada vedo una bandiera colombiana, sulla vetrina in caratteri elementari ma onesti, a differenza della finta schiettezza esibita dal Lambrusco edulcorato, sta scritto batidas ed exprimidas, mi ricordano le spremute di frutti tropicali misti che si bevevano in Venezuela, le fa un italiano che si è sposato una colombiana, in sottofondo radio Mambo.
Mi viene improvvisa una voglia di Sudamerica banale, mi sento in colpa come se fossi anche io vittima di programmi come Alle falde del Kilimangiaro, la primavera provoca strane allergie e desideri infantili di fuggire.
A casa stasera inizierò a vedere tutti i voli disponibili per tutte le città disponibili, confronterò prezzi, date, stilerò itinerari come un professionista del viaggio, in modo poco casuale, poco avventuroso, poi mi pentirò della mia pignoleria e manderò tutto all’aria maledicendo ragazze a caso.

giovedì 22 marzo 2012

Contro i punti panoramici


La gente ha scritto sopra le serrande chiuse no al degrado, la crisi economica ha chiuso i negozi e ha salvato il quartiere.
Qui non hanno aperto ancora enoteche né i bar dove mi rifugio a scrivere in certi pomeriggi insulsi, qui le auto non passano perché non c’è motivo alcuno per passare.
Siamo in un paesino lungo trecento metri, da una parte e dall’altra fervono periferie operose piene di immigrati.
Le case sono dipinte di giallo e hanno persone verde acceso o pallido, non superano mai i tre piani, alcune volte le persiane sono mezzo sfondate ma non provo alcuna tristezza nel constatarlo.
Da quando mi sono messo a scattare foto da amatore, osservo le cose con più interesse, mi torna la voglia di guardare terrazze, dettagli di edifici architettonici, volti di persone.
Mai visto tante magnolie in fiore, certe vie sembrano post belliche.
Alcune strade costeggiano la ferrovia, nascondono storie più interessanti, vedo un paio di palazzone dove capistazione vivevano cullati dal rumore rassicurante dei vecchi treni.

La Casilina era una strada che vedevo dall’Intercity quando ero all’università e tornavo a Roma certi lunedì.
Ogni volta il semaforo fermava il treno davanti a un negozio di parrucche dai colori tristemente sgargianti, mi sembrava un posto derelitto perché ero giovane e stupido, ora finalmente sono passato dall’altra parte del finestrino, c’è voluto troppo tempo.
Questi posti mescolano livelli diversi di verità e di tempo.
Ci sono resti antichi e negozi che vendono statue posticce che sarebbero state perfette per la veranda di mia nonna, qualcuno ha provato a fare una specie di giardino pubblico.
Bene comune, si dice così, va di moda l’espressione, ci hanno piazzato una panchina, due tavoli, addirittura una griglia per barbecue enorme, un cartello dice che l’esperimento è fallito causa inciviltà di pochi, l’idea era bellissima ma non ha firma.
Un giardino che si affaccia sui binari e sui palazzi anni sessanta, alle spalle l’acquedotto romano che arriva dentro la città quasi dimenticato.
Preferisco questo posto al Pincio, al Gianicolo, al Quirinale, al facile panorama delle terrazze troppo consumate dagli sguardi di tutti gli amanti.
Roma ha troppe cose, se le lascia per strada, sono venuto qui per raccoglierle.
Così faccio con il mio passato, mi metto a contemplarlo, poi quando devo fare un gesto rischio di sembrare ridicolo, sono esitante se faccio una carezza, non riesco a dire quello che mi passa per la testa e allora pronuncio frasi sbagliate.
Un paio di baci strani sulla guancia, un ciao accennato male, il tentativo di non concludere mai del tutto, di finire con dei puntini di sospensione.
Non sono bravo a dire addio.

lunedì 19 marzo 2012

Contro il centro


Vado in periferia dopo aver letto un articolo di Lodoli, un giornalista professore d’italiano.
Quelli sono i peggiori, scoppiano di retorica e credono di conoscere la gente perché hanno insegnato qualche anno in un liceo ed hanno avuto ragazzi dalle storie mediamente complicate.
Gli articoli e i libri di uno come Lodoli non sono mai storie, non raccontano mai nulla, lo scrittore se ne sta seduto da qualche parte in un soggiorno comodo e fa della sociologia a buon mercato.
Finisce così che non ci vai mai in quei quartieri di periferia, che ti accontenti di leggere i loro resoconti su giornali progressisti oppure di guardare dei servizi alla tv.
Alla tv i posti di confine sono sempre ripresi in un certo modo, la colonna sonora bolero non c’entra nulla con la musica che ascoltano gli adolescenti.
Non sono mai stato a Scampia, non sono mai stato a Tor Bella Monaca, certi quartieri li ho visti solo fugacemente passandoci per raccordi e tangenziali, di lato passano palazzoni che descriviamo con aggettivi negativi, capita che ci congratuliamo reciprocamente per la fortuna di non abitarci.
Quando ero a Buenos Aires mi accorsi che certi posti M. non aveva alcuna curiosità di vederli, non era mai stata in una baraccopoli, e si stupiva se le dicevo che avevo voglia di capire come si viveva là, il suo menefreghismo le permetteva di poter impunemente fingere che la sua città fosse mille volte meglio di quanto realmente era.
Una città da guida turistica, capitale del design e della grafica, una città come quelle che ti vendono gli approfondimenti di viaggi dei quotidiani, una metropoli da cui i difetti erano estirpati semplicemente rendendoli invisibili.

La prima persona che incontro al Quarticciolo è un benzinaio rumeno, è gentile, anche la cassiera lo è, mi regala vari buoni sconto per l’ autolavaggio inaugurato di recente, me ne dà cinque o sei, abbonda.
In questi quartieri l’importanza della pulizia delle auto è molto superiore al centro, come se servisse un contrasto netto fra la limpidezza dei parabrezza e il pessimo stato delle aiuole che costeggiano le strade ad alto scorrimento.
É primavera anche qui, anzi soprattutto qui.
Le facce dei poveri sono più interessanti di quelle dei ricchi, è la loro vendetta perché sono consumate dalla vita, o forse sono interessanti proprio per quello.
Da uno scantinato vedo una donna vicino al fornello del gas, la cucina è l’inizio della casa come nei bassi dei film del dopoguerra, è cucina ma anche tinello e soggiorno, la porta è aperta, esce una  una musica sudamericana, salsa.
La salsa e il mambo da noi sono sono appannaggio soprattutto dei quartieri fuori dal raccordo, lì ci sono le salsoteche, i ballerini più  capaci: le ragazze più colte che apprezzano la salsa quando vanno in Sudamerica, tornate a Roma preferiscono dedicarsi ad altri balli: corsi di afro, tango, danze che contemplano un contatto fisico di diversa forma.
Ritengono che qui gli uomini facciano salsa per abbordare le ragazze, ovviamente è così ma lo stesso accade anche in Sudamerica, ovunque.
Ma secondo le ragazze gli uomini latini lo fanno con meno malizia o almeno la loro malizia è giustificata, la loro fame di sesso sembra avere delle motivazioni più accettabili.
Qui un uomo affamato di sesso è visto male, non si perdona niente a nessuno, ecco perché nei quartieri periferici è più facile trovare ragazze dell’est a braccetto di sessantenni che hanno investito la loro liquidazione sulla conquista della gioventù altrui.

I tentativi di riqualificare il quartiere sono lodevoli ma non vanno a buon fine, c’è una biblioteca con un bar sulla terrazza, ha i tavolini semplici da quartiere medio, è vista con diffidenza dai ragazzi sui motorini, se ne restano sul marciapiede o fanno incursioni estemporanee per ordinare dei caffè rapidi, non entrano quasi mai nella sala lettura, la guardano dall’esterno con rispetto reverenziale.
Anche io non posso entrare, sono stato sospeso dalle biblioteche comunali per non aver restituito dei libri presi in prestito, in realtà alcuni li ho smarriti, altri semplicemente me li sono tenuti.
Dovrei inginocchiarmi e chiedere perdono o forse basterebbe una scusa sentita e qualche soldo di rimborso, per poter di nuovo avere il diritto al prestito e alla consultazione, ma non so come gestire la fredda burocrazia delle bibliotecarie cinquantenni, precise e pignole ai limiti dell’arroganza.
Che poi queste biblioteche di quartiere a volte chiamano intellettuali come Lodoli a tenere conferenze, gente che ha scritto articoli apocalittici sulle loro allieve con i pantaloni a vita bassa e nessun interesse per la letteratura.

Le ragazze che camminano qui e guardano sfrontate chiunque passi, hanno un trucco eccessivo che non cancella del tutto una certa grazia di cui non sono consapevoli.
Non hanno giustamente alcun interesse per la letteratura perché sono immerse nella vita, non mi importa che non leggeranno mai quello che scrivo, non le proverei mai a convincere che stanno sbagliando.
Mi sposto e vado verso Tor Tre Teste, qui la primavera è anche meglio, c’è un grande parco che divide i blocchi abitativi e il vento sembra soffiare più forte.
I palazzi hanno una dignità che i pregiudizi degli abitanti di altri quartieri non gli riconoscono.
Sono lì per vedere una chiesa contemporanea di un archistar, le chiese contemporanee assomigliano a sale di preghiera evangeliche in formato extra lusso.
Sono bianche, prive di ogni orpello e dipinto, non hanno quadri ma linee e prospettive fantascientifiche, perciò mi piacciono, non hanno nulla di spirituale, sono gelide.
C’è un'altra ragazza con me nella chiesa, anche lei scatta foto a ripetizione non sapendo bene cosa immortalare, ci annusiamo a vicenda come individui in viaggio fuori dai nostri soliti rassicuranti confini.
Lei però mastica a ripetizione una gomma, mostra un’aggressività non richiesta, mi suscita un'antipatia istintiva.
Al ritorno passo in auto per appezzamenti di terra miracolosamente scampati alla lottizzazione edilizia, c’è perfino una cascina incongrua in buono stato, di fronte un palazzo di vetro da uffici dalla quale senza ragion apparente sono affacciate donne a stendere panni su esili fili.
Posteggio in una stradina, davanti all’atrio del palazzo da uffici c’è una specie di guardiola controllata da tipi che sospettano della mia macchina fotografica.
Quando sei fuori dai soliti posti adatti alle foto, la gente inizia a farsi idee strane su di te, si immaginano storie.
Incomincio a pensare che si tratti di un’occupazione abusiva, ma uno mi dice che è semplicemente un cambio di destinazione d’uso.
Il palazzo costruito per locazione di tante celle lavorative  è diventato un palazzo con tante celle abitative, ci sono famiglie di stranieri ai confini con la clandestinità, sono ai margini dei reportage dei giornalisti buoni, sono appena più in là o appena più in qua delle disperazione, nessuno ha mai dedicato loro un programma di approfondimento.

martedì 13 marzo 2012

Contro la Coca Cola


Vicino alla mia auto c’è una bottiglietta di Pepsi, occhio e croce è anni ’60, massimo ’70. Non si capisce cosa ci faccia intatta sul selciato, dentro è piena di terra e c’è qualche conchiglia perfino, forse è scaturita dal sottosuolo come certe pietre greche antiche che recuperavamo da bambini.
Allora era facile scavando un po’ trovare pezzi di vasi e monete, eravamo a poche centinaia di metri dalla zona archeologica, il terreno era pregno di piccoli tesori, però noi bambini eravamo indifferenti all’antichità e molto più interessati al passato prossimo.
Facevamo collezione di tappi di bottiglia, di acque minerali ora scomparse, di gassose fallite per carenza di controlli sanitari, di bibite di varia natura. Bevevamo solo Cola Cola, la Pepsi era perdente e cercava inutilmente di rilanciarsi saltuariamente spendendo miliardi in testimonial celebri e campagne pubblicitarie sfavillanti.

Sono sull’Appia Antica, tutti i posti attorno a me sembrano fermi agli anni della bottiglietta.
Vivai, trattorie che sono sul punto di chiudere, ci sono pochi stranieri, qualche bici indolente.
Una ragazza bionda di diciott’anni esce da un cancello con una busta in mano, aspetta un postino che non può passare, è una villa da commedia all’italiana, prima ci vivevano attori e attrici di successo, ora l’hanno comprata piccoli industrialotti corruttori, li ho ascoltati parlare in un accento veneto incongruo con i resti romani.
La ragazza è bionda e magra, è bella come deve essere sua mamma.

Un uomo ricco, soprattutto se discretamente piacente, ha molte più possibilità di accapararsi una donna bella, dalla loro unione nascono di solito esseri di alta qualità estetica, e anche se nascono con meno bellezza hanno maggiori risorse per migliorarsi, inoltre le ragazze ricche da bambine fanno più sport, hanno più tempo per allenare il loro corpo.
Le figlie dei ricchi hanno molte più possibilità di essere belle che quelle dei poveri, è questa la vera ingiustizia, la vera differenza di classe, ma di queste cose Santoro non parla mica nei servizi sulla crisi in cui ci si lamenta della difficoltà di arrivare a fine mese.

Sono qui perché volevo vedere la tomba di Cecilia Metella, è imponente e vuota, si paga un biglietto per visitarla ma non c’è alcuna ragione valida per spendere dei soldi, la cassiera è sola all’entrata e con i capelli laccati,  una pettinatura da comparsa di Fellini.

La bottiglia è un miracolo, non ha alcun tipo di scheggiatura, è solo impolverata, il marchio è leggermente stinto, nella parte inferiore spicca una scritta, contiene co2, da questo avvertimento strambo deduco che è è vecchissima.
L’ informazione sull’anidride carbonica è davvero datata, oggi i marchi scrivono cose molto più dettagliate edalla pretesa scientifica, del tipo niente grassi idrogenati, oppure specificano in modo perentorio no coloranti.
Quando ero bambini i coloranti erano un pregio e non un difetto, le aranciate avevano colori bellissimi e artificiali.
La bottiglietta la prendo in mano e poi decido di metterla nel portabagagli della mia auto, non posso lasciarla lì esposta alle intemperie o al rischio di essere scovata da qualche maledetto operatore ecologico con il piacere della distruzione.
Ho sempre avuto una passione per le cose vecchie, siano oggetti d’arredamento, auto d’epoca, persone che non sono più nella mia vita.
Passione sempre teorica perché in realtà non ho mai comprato quella 2CV nera e bordeaux di cui favoleggiavo l’acquisto né mi sono mai seriamente informato sui prezzi di una Jaguar anni  ’70, come un giorno avevo solennemente promesso.
Allo stesso modo gli oggetti sui mercatini li ammiro e li lascio dove stanno, la mia casa ha il solito mobilio Ikea dei vostri appartamenti.
Avete presente quelle foto private che alcuni vendono nei mercatini, recuperate da solai e cantine, con sopra dediche, sorrisi, amori finiti per consunzione temporale? Quando le guardo ne sono attratto ma poi lascio tutto dov'è.
Ho paura di resuscitare vecchi fantasmi, di toccare cose che non mi appartengono.

La bottiglia però decido di prenderla, intendo lavarla per bene quando arriverò a casa.
Una ragazza mi consiglia di immergerla in una bacinella con dentro dell’acqua bollente ma temo per la sua incolumità.
Una soluzione che ci sembra di compromesso è metterla nell’acqua fredda e aggiungerci poco a poco con un mestolo dell’acqua calda, nessun detergente, non ce n’è alcun bisogno.
Così maneggio il mio passato, remoto e prossimo, con un tatto eccessivo, con una preoccupazione assillante di aver commesso errori, di commetterli tuttora.

Per evitare che di questa operazione sacra non resti nulla ho deciso che tutto vada ripreso, l’intero procedimento.
Penso alle labbra che hanno bevuto quella bottiglietta, turisti d’altri tempi dalle disponibilità economiche notevoli, frequentatori di feste da dolce vita, ultimi bagliori di un’epoca d’ora che sull’Appia antica è finita da un pezzo.

La bottiglietta poi finirà su qualche ripiano della mia casa, oppure la porterò dietro raccontando la sua storia, o chiedendo ad ognuno di immaginarla.
Sarò sempre attento a che nessuno si avvicini troppo, ne sarò geloso.
Per una volta sembra che la Pepsi abbia proprio vinto.