giovedì 26 aprile 2012

Contro Auschwitz



Gli americani vanno al campo di concentramento come ad una scampagnata, due coppie una dietro l’altra in viaggio di nozze per la vecchia Europa come in un film di Woody Allen.
Una delle due donne dice qualcosa prima di partire al suo maritino perfettamente rasato, ha una voce brutta, come quasi tutte le  statunitensi.
Ho sempre odiato il loro tono di voce stridulo, da cornacchia, con cui manifestano quasi urlando il loro stupore, sempre recitato, da attori di provincia.
Ha smalto rosso sulle unghie e un orrendo anello vistoso sull’anulare, mi sembra poco appropriato per dove stiamo andando.
Qualsiasi cosa ad Auschwitz non è appropriata, non è appropriata la mia maglietta con stampato un Einstein dj davanti a due piatti con dei vinili sopra, non è appropriato avere con sé una macchina fotografica.
Forse per questo il piccolo rumore degli americani che visionano le loro foto e liberano spazio sulle schede di memoria mi sembra un caricamento di fucili in un plotone di esecuzione.
Sul pullman c’è un sottofondo di musica pop internazionale, passa un vecchio brano di Celine Dion, l’americana  inizia a canticchiarla a bassa voce, conosce tutte le parole. E’ una canzone di amore che finisce bene, una di quelle in cui i cantanti dichiarano il loro amore eterno a consorti di cui già sanno che inevitabilmente divorzieranno, non mi sembra affatto appropriata.
Ho in testa per tutto il tragitto una terribile canzone che aveva scritto Guccini su Auschwitz, me la fecero perfino imparare a memoria alle scuole medie, era scritta come se a cantarla in prima persona fosse un bambino morto che raccontava la sua vicenda, il suo arrivo nel campo ricoperto di neve, il ritornello diceva che era nel vento perché era stato bruciato nel forno crematorio.
Non ho mai capito chi scrive di cose che non sa: il cantante che racconta di guerre mai vissute, il giovane scrittore che pubblica un romanzo che ha come protagonista un partigiano nel ‘43, quella che si inventa di sana pianta nomi verosimili per una trama ambientata nell’Afghanistan contemporaneo.
Per questo non ho alcuna intenzione di capire cosa ha provato un bambino finito ad Auschwitz, quando ho visto delle foto in bianco e nero con questi sguardi smarriti di bambini che si tengono per mano e che sanno perfettamente cosa sta accadendo, ho potuto solo starmene in silenzio, ho dovuto solo starmene in silenzio.

Per tutta la strada verso Auschwitz scorrono dal finestrino  dolci pendii coltivati, qua e là appaiono e scompaiono i binari della ferrovia.
All’ingresso della città c’è una grande stazione con molti scambi e vagoni.
Non posso evitare di pensare che la stazione sia sempre ben attrezzata proprio come al tempo in cui fu installato il campo, da questo momento in poi ogni cosa sembra diversa.
Tutti gli edifici che mi sembrano costruiti negli anni ’30 ora mi fanno paura.
Caserme con mattoni di arenaria rossa, palazzetti dall’aria elegante, costruzioni che di solito esteticamente ammiro ora mi fanno venire i brividi.
Mi difendo cercando con lo sguardo capannoni in cemento armato o abitazioni mono familiari con finestre troppo strette, edifici tirati su dopo la guerra, più sono recenti e più mi calmano.
Nel parcheggio prima dell’entrata ci sono alcuni gruppi di scolaresche e molti militari di leva israeliani in divisa, sergenti dal corpo enorme e con occhiali da sole perennemente sugli occhi, il loro atteggiamento cattivo mi sembra l’unico giustificato.
In lontananza si avvicinano gruppi di israeliani anziani, ma facendo due conti non tanto da poter aver vissuto l’Olocausto, hanno in mano bandiere del loro stato, camminano parlottando fra loro.
E poi un sacco di americani, scendono da pullman con sopra scritte le città da dove arrivano.
Sono vestiti come americani in gita, male, con larghi pantaloni color cachi, le donne con cappelloni di paglia per proteggersi dal sole eventuale.
Hanno dei cartellini appuntati al petto, leggo i loro cognomi ebraici e mi aspetto da loro una sofferenza che non troverò.
Sono tanti Spielberg in libera uscita, per loro l’Olocausto è un film distante che parla di lontani parenti di cui qualcuno conserva in un cassetto delle foto e delle lettere spedite poco prima della fine.
Scrutano con un certo stupore e molta diffidenza gli israeliani e la loro faccia incarognita, sono troppo democratici.
Ci sono alcuni israeliani paralitici in carrozzella, vittime della questione mediorientale, scrutano l’orizzonte cercando nella sofferenza altrui un buon motivo per il loro vano sacrifico.
All’ingresso mi costringono a prendere una guida che non voglio, mi faccio anche consegnare anche un audioguida che non ascolterò e vado da solo in giro.
Prima però ci mostrano un documentario su Auschwitz realizzato negli anni Sessanta, si capisce dal tono della voce fuori campo ed anche dal modo in cui sono mostrati con benevolenza eccessiva i liberatori sovietici.
Soldati che sorreggono i sopravvissuti, medici che fanno di tutto per salvare le loro vite ponendoli ad accurati esami.
La guida in inglese che è stata assegnata a me ed altre cento persone non è polacca, ha l’accento americano, penso a come deve essere stato diverso Il campo prima del 1989 con solo polacchi e russi, senza nessun giovane statunitense venuto a lavorare come stagionale di lusso.

Il tizio ha la tendenza a colorare gli eventi, ad alta voce e con pausa volutamente teatrale dice immaginate cosa doveva provare un bambino che entrava qui, non riesco a immaginare nulla, nemmeno voglio e sono pressoché certo che neanche lui può riuscirci.
Lo guardo negli occhi, sta mentendo.
La cosa che più mi stupisce è il forno crematorio, non ha nulla di tecnologico,  come mi aspettavo per colpa di tutti i film dove i nazisti sembrano scienziati crudeli e rispettabili, perfetti esecutori di sentenze con provette di veleno e sostanze chimiche dosate.
Sembra un macello per animali e penso che un giusto film dovrebbe mostrare i soldati nazisti per quello che erano, massacratori senza alcuna intelligenza misteriosa.
Una coppia posa per una foto davanti al filo spinato di una recinzione, sono sorridenti, contenti del loro viaggio nella vecchia Europa dei loro nonni e bisnonni, li sento parlare, sono argentini.
Solo dei sudamericani possono avere una tale mancanza di tatto ma li comprendo, gli manca completamente il senso della storia, non hanno vissuto la guerra, i loro antenati sono scappati prima o dopo, sono contenti di essere sopravvissuti e vivi.
Non è appropriato avere fame ad Auschwitz ma a una certa ora il mio stomaco non resiste e così entro dentro la mensa self service di fianco all’ingresso.
È un bel posto, se può esistere un bel posto in un luogo del genere, ha la sobrietà estrema di una caffetteria a buon mercato, hai l’illusione che nessuno ci stia guadagnando più del dovuto.
Le signore che ti servono parlano poche parole di inglese giusto per comunicarti i nomi delle pietanze, hanno cuffie bianche in testa, sono cinquantenni bionde dalla faccia paffuta, servono cotolette di maiale, come contorno barbabietole o purè di patate.
Mi piacciono queste donne dell’est che non sono al passo con i tempi.
Mangio con colpevole gusto.
Il piatto glielo porti tu sull’uscio della cucina quando hai finito.
Una ragazza giovane che lavora come lavapiatti fa due passi e ti prende il vassoio sorridendo muta.
Grazie a loro non mi sento in colpa.

mercoledì 25 aprile 2012

Contro i bombardamenti


Stiamo uscendo dal mercato.
Un signore con i baffi e i capelli ugualmente bianchi si rivolge a Karolina in polacco.
Chiede se sappia dirgli cosa c’è scritto sul paio di jeans che intende comprare.
E’ una parola che gli suona inglese e lei probabilmente conosce l’inglese in quanto giovane.
E’ interessato alle scritte che ci si porta addosso, non come quei giovani idioti che si mettono qualsiasi marchio sul petto senza rendersi conto di diventare macchiette viventi.
Karolina gli dice con un sorriso che è inutile preoccuparsi troppo della nazionalità della scritta visto che è tutto prodotto in Cina, il signore risponde che non è d’accordo e cortesemente le fa notare che non tutto sarà cinese per sempre, anzi che le cose stanno già cambiando.
Stanotte hanno fatto un accordo, non ha sentito signorina?, continua, russi e americani sa, hanno fatto un accordo e da domani le cose cambieranno.
Non so niente dice Karolina, non vedo la televisione, non leggo i giornali.
Fa male signorina, fa molto male, dice il signore.
Stiamo camminando per strade larghe e assolate e non sappiamo nulla dell’accordo fra russi e americani.
Mi piace pensare che domattina ci sveglieremo e qualcuno ci comunicherà la notizia in un modo qualsiasi, magari gridandolo al megafono,  sarebbe semplice se ci fossero accordi chiari a delineare un prima ed un dopo ed invece i giornali sono solo approssimazioni continue che non portano da nessuna parte.

Varsavia è bella, non  è vero che l’architettura sovietica sia brutta, i palazzi non sono nemmeno palazzoni, sono più larghi che alti, non sono tutti grigi come mi dicevano quando ero bambino e guardavo le previsioni del tempo per le capitali della città dell’Est.
Negli anni ‘60 e ‘70 Varsavia poi era piena di neon , Varsavia era la città dei neon, ce n’erano di tutti i tipi: viola, rossi, lampeggianti, sono stati smantellati impietosamente dopo il 1989, qualcuno ha pensato che fossero eccessivi, l’hanno sostituiti con insegne neutre dall’aria falsamente contemporanea.
Varsavia è diversa perché è ferita molto più di ogni altro posto che abbia mai visto.
Durante la Seconda Guerra Mondiale sono morti milioni di persone e sono stati distrutti l’85 per cento dei palazzi,  è stata la città più distrutta.
Sui nostri quartieri sono cadute pochissime bombe in confronto e la memoria scorre senza tracce visibili se non nei monologhi civili e progressisti di certi attori.
I discendenti dei sopravvissuti mangiano e bevono a San Lorenzo a Roma o sui Navigli a Milano, posti buoni per pizzerie, bisteccherie e localini che cambiano ogni dieci anni arredo e proprietario.
Hanno subito tante stratificazioni che il ricordo della guerra è pura immaginazione  o delirio, il bar all’angolo con il bancone di metallo negli anni ‘90 era un pub di legno ed irlandese, negli anni ’80 paninoteca con quadri colorati alle pareti, e prima ancora bar con specchi opachi o trattoria speranzosa ai tempi della ricostruzione.
Varsavia è stata rasa al suolo durante la guerra perchè la città si era doppiamente ribellata ai nazisti.
Prima si erano ribellati gli ebrei trucidati nel ghetto e dopo l’intera città per dimostrare che poteva liberarsi da sola senza il bisogno delle truppe sovietiche.
È stata davvero rasa al suolo, non metaforicamente come dicono i giornalisti quando vogliono ottenere maggiore attenzione per i loro titoli.
Distrutta palazzo dopo palazzo, i ponti sul fiume fatti esplodere, ammazzati donne, bambini, uno dopo l’altro, uno in fila all’altro.
Da noi hanno ricostruito, qui hanno costruito da zero, la differenza è abissale.
Da quando ho cominciato a interessarmi alle case, non riesco a fotografare che quelle: edifici, finestre, cortili, è così difficile fotografare gli uomini, anche le facce interessanti, soprattutto quelle, sono troppo timido e non ho un teleobiettivo abbastanza spinto per rubare le loro espressioni.
Karolina mi consiglia anche ascensori e scale, mi porta a vedere i suoi posti preferiti.
Uno è un cortile dove al centro hanno messo un razzo, grigio e rosso, senza alcuna magnificenza, di latta, corroso dal tempo, sembra nato già senza ambizioni, magari negli anni Settanta, quando i sovietici avevano perso la loro sfida spaziale contro gli americani e la fiducia nel futuro era diventata una necessità burocratica.
Varsavia è in fiamme inizia così il filmato girato dagli stessi insorti in quelle poche settimane in cui sembrava possibile sconfiggere le truppe tedesche, lo proiettavano in un cinema del centro che era rimasto miracolosamente ancora in piedi.
Immagino una folla piena, posti a sedere tutti occupati, gente in fondo che si sporge dalle spalle altrui per vedere, tutti sanno benissimo che le cose si stanno mettendo male e si piazzano comunque davanti allo schermo, fissano la loro vita distrutta in bianco e nero, vanno imperterriti ad assistere alla proiezione, non come fate voi con le vostre storie finte il sabato sera.

Palazzi in fiamme, tentativi di spegnere incendi che non vanno a buon fine per colpa della carenza d’acqua, cavalli uccisi e macellati per poter sfamare la gente.
Gli ultimi tre cavalli, dice il filmato, cavalli in salute che ancora galoppavano.
Guardo il filmato in un museo colmo di fotografie con didascalie molto informative, troppo, l’accumulo di dati e vicende mi confonde, quelle riprese di guerra sono il vero appiglio con la realtà, con i cortili che mi porta a vedere Karolina.
A un certo punto mostrano dei nazisti fatti prigionieri, la voce fuori campo dice che a differenza della brutalità delle SS loro trattano bene i prigionieri, e si vede un barbiere che taglia i capelli ad un soldato in divisa nera.
I barbieri servono sempre, anche in mezzo a una catastrofe, la presentabilità delle facce diventa elemento di dignità imprenscindibile.

Karolina mi dice che dal suo appartamento all’ultimo piano, da una finestra vede Parigi, dall’altra New York.
Ne ha di immaginazione, le dico, e di quella buona.
Dalla finestra del cortile ci sono palazzi bassi e alberi, da quella della camera da letto grattacieli di vetro ordinari, sopra insegne di quelle che da noi sono quasi sparite, tipo quella della Coca Cola in cui si accende prima la c, poi la o, e così via, oppure un enorme omino Michelin sorridente.

Ha vissuto in Africa, Perù, Brasile, ha fatto la burattinaia, ha suonato la fisarmonica, ha finto di saper ballare la capoeira in una cittadina vicino New York riscuotendo successo insperato da parte degli americani che sanno solo e sempre dire great quando non capiscono cosa sta succedendo attorno a loro.
Non ha alcun difetto di chi viaggia molto, e si ritiene per questo migliore dell’altro.
È tornata a Varsavia ed è felice per il ritorno, mi parla del suo anno in Brasile senza il facile entusiasmo degli adoratori del Sudamerica a tutti i costi.
È stata in una regione dove tutti le parlavano sempre di soldi e mangiavano ogni giorno grandi grigliate di carne, stupidamente fieri di potersela permettere.
Varsavia è bella perché cambia di continuo, mi dice, perché ci sono dei vuoti e delle incoerenze dovute al passaggio dell’uomo che qui è ancora visibile nel bene e nel male.
Palazzi con le finestre divelte rimasti così da quando qualcuno li ha sventrati, strutture pericolanti dove persone sono andate a vivere trasformando eventualità di crollo in case dove potersi amare.
In un palazzo vicino alla stazione hanno appeso enormi foto alle finestre, gente che ci ha vissuto ed è stata uccisa in ogni possibile modo, al primo piano uomo con barba e sguardo severo, al terzo donna con cappello in testa e occhi scuri, al quinto un ragazzino dall’aria furbetta.
Le finestre sono orbite vuote, nel palazzo dall’altra parte della strada ci sono grossi lavori di ristrutturazione, fino a poco tempo fa, mi dice Karolina, c’erano le stesse orbite vuote, e identiche enormi foto alle pareti.
Qualche società l‘ha comprato e ci sta ricavando degli appartamenti dove qualcuno ci andrà a vivere e dovrà sapere il meno possibile, i fantasmi abbassano il prezzo al metro quadro.
Stiamo camminando sui morti, è vero ovunque ma qui è diverso.
Al museo ho letto una cosa che mi risuona in testa.
Quando ci furono i primi morti durante la rivolta del 1944 si celebravano funerali quasi maestosi per commemorare l’eroismo dei caduti, dopo non c’era più tempo per i rituali e i funerali divennero sempre più rapidi, le preghiere si accorciavano fino a quando non c’era nemmeno più tempo per seppellire adeguatamente i morti, non c’era nemmeno più tempo per un amen.
Sono arrivato a Varsavia da Cracovia che è perfetta e medievale, sembra identica a se stessa da sempre, la città giusta per farci nascere un Papa.
A Varsavia tutto può cambiare, mi dice Karolina, questo le piace, essere nel posto dove è nata ed assistere ai cambiamenti, anche a quelli piccoli che la fanno sentire viva.
E particolarmente esperta in luoghi piccoli, mi porta a vedere un posto surreale dove puoi osservare vecchie foto da uno spioncino, l' effetto è perfettamente tridimensionale d, si chiama fotoplastico, l’hanno inventato a metà dell’800, o assistere al concerto meno affollato del mondo.
I musicisti si siedono dentro l’apparecchio circolare e suonano mentre tu guardi vecchie foto, il pubblico massimo è quello degli spioncini disponibili.
Mi indica l’edicola più piccola di Varsavia e mi porta a visitare il cortile più stretto, quello di un edificio comunale dove alla guardiola c’e un poliziotto annoiato che deve vigilare su tassi alcolici e  e liti dei condomini.
Tornati a casa, ci siamo dimenticati dell’accordo russo-americano di cui ci ha parlato il signore al mercato, non controlliamo nemmeno se sia una completa fantasticheria o se sia un delirio basato  su un evento trascurabile, tipo quei summit che si tengono ogni tanto fra due paesi, in cui ci si promette sempre genericamente un rafforzamento delle relazioni commerciali e ci si dichiara amicizia incondizionata. 
Il signore l’accordo probabilmente lo ha sognato, eppure oggi la sua ipotetica attualità è l’unica che potrebbe davvero interessarmi.



mercoledì 4 aprile 2012

Contro lo specchio


Ognuno si immagina come può quando ha dodici anni e si guarda allo specchio, io ad esempio pensavo di essere una specie di  eroe, così mi vedevo, non c’è nulla di strano, deve essere una fantasia molto infantile.
Ci si guarda fissi allo specchio, non si vede il volto un po’ troppo roseo e inoffensivo, con una sorte di mollezza nel mento che non promette nulla di buono, non si giudicano le proprie debolezze e timidezze, noi siamo degli eroi e nessuno lo sa.
Un eroe virile e capace di salvare qualcuno con un intervento tempestivo, non avevo alcun modello da imitare, ma ritenevo che al fondo di me ci fosse quell’eroe e che avrei dovuto dargli solo il tempo di manifestarsi.
La cosa continuò fino ai sedici anni, poi si interruppe più o meno di colpo.
Lo specchio a quel punto serve per capire come appari agli altri e non più a te stesso, ci si sistema i capelli, si combatte la barba che spunta come erba fastidiosa.
Da allora sarà sempre così fin quando non si darà altro che un’occhiata distratta allo specchio e si sognerà il giorno in cui non avremo la nostra immagine riflessa.
Cercare la propria immagine attraverso lo sguardo altrui invece è un vizio difficile da estirpare, è la cosa peggiore che si può cercare nell’amore, errore che ripetiamo di continuo.
Finisce sempre che non ci piace quello che osserviamo, e allora quell’amore diventa la nostra maledizione perché nessuno può accettare se stesso, perché tutti dovrebbero sbarazzarsene una volta per tutte.
Da ragazzo dopo la fase del supereroe mi figuravo come uno che avrebbe condotto una vita da bohémien, non so perché avessi queste assurde premonizioni, non c’era alcun segno ed infatti non lo sono mai diventato.
Mi sono visto per un periodo come un malinconico, compravo maglioni scuri e alti fino al collo, parlavo di scrittori e pittori con l’entusiasmo provinciale e idiota verso la cultura e l’arte tipico dello studente.
Una ragazza una volta mi disse che sembravo un cartone animato, le piacevo perché ero buffo, avrei dovuto immediatamente capire che non c’era alcuna speranza di esibirmi come intellettuale esistenzialista o presunto tale.
Non ho il volto affilato e magro dell’attore di teatro o del cantante che ama Gainsbourg, forse nemmeno avevo l’interesse a diventarlo, in realtà una parte oscura e istintiva di me captava l’imbroglio del ruolo, il trucco.
Comico, questo è il mio marchio di fabbrica, gran naso che occupa la faccia, voce con timbro basso e  accento campano poco identificabile che mi porto appresso incurante degli anni passati a Roma e Milano, mimica espressiva tipica della mia terra, con le mani a gesticolare senza controllo e il volto pronto ad assecondare ogni minima sensazione.

Ho un senso dell’umorismo da improvvisatore, le mie ragazze le ho conquistate quasi sempre ridendo e mostrando sempre il lato di me che non condividevo, che avrei voluto eliminare.
Continuavo a illudermi di essere altro, di poterlo diventare quando ne avessi avuto l’occasione; ora vi faccio ridere, pensavo, ma dentro di me ho infiniti tesori da condividere.
Un giorno resterò a letto dopo l’amore e mi mostrerò intollerabilmente vinto e non sarò dolce nemmeno un po’ e vi ferirò ma senza nessuna malizia, per mia natura.
E nel ferimento vi rivelerò un sacco di segreti sull’esistenza e voi vi rivelerete a me, ma non con le parole, con i vostri dettagli che dicono molto più delle vostre parole.
Stupide illusioni dell’ego, solo quando scrivo posso dichiararmi guarito ma ne sono schiavo, ne sono succubi tutti, compresi i falsi maestri e i filosofi, non ho ancora conosciuto qualcuno che non fosse imprigionato da se stesso.
Ho riservato sempre in privato alle ragazze la mia malinconia  e nemmeno fino in fondo, l’ho sempre centellinata, ho sempre cercato di illuderle e di illudermi che fosse malinconia di basso rango, noia ordinaria degli esseri umani.
Mi davo dei piani e dei programmi per poterla risolvere, ed a volte ci sono riuscito per periodi lunghi, ma poi ricadevo nell’inutilità di ogni azione.
Tutto ciò che è bello in fondo è inutile e vano ma il mondo fa tutto per non accettarlo, punta all’utile e al funzionale, riempie la sua agenda di appuntamenti che non lo portano un passo più in là.
Si informa sui giornali dei prossimi passi, di cosa accadrà nell’imminente futuro, sbircia dalle cronache.
Ora di tutto quest’inutile ho la chiara coscienza, devo solo fare in modo che consumi ogni residuo di eccessiva volontà.
Abbandonarsi con la coscienza al minimo, attenta ai particolari, non scrivere più cose simili perché se le scrivi significa che hai dedicato troppo tempo al pensiero.
Nel frattempo accetto il comico, salgo sul palco, provo a far ridere, capisco cosa significa indossare i panni e poi smetterli.