mercoledì 29 giugno 2011

Contro la bellezza


Era un novembre di molti anni fa, mi ero appena lasciato con una ragazza.
Confidai al mio amico Valerio che mi mancava, mi chiese se aveva delle tette grosse.
Gli risposi “Sì, molto grosse, allora lui disse “Perciò ti manca”, non scherzava e aveva ragione.
Un altro amico mi scrive che finalmente ha capito perché sono stato sotto a un treno per M. e ne parlo sempre, ha visto le foto di lei su Facebook, la trova bella.
Penso che abbia colto il punto: è la sua bellezza che mi manca, la patina della superficie, non abbiamo quasi mai che questo, il resto è spesso illusione o psicologia spicciola.
La sua intelligenza vivace e arrogante, il suo carattere scontroso da lupo, le sue uscite talvolta brillanti erano solo accessori, importanti ma senza alcun valore se non ci fosse stata la bellezza, servivano a dare maggior spessore alla stessa.
Quella bellezza di cui parlano tutte le poesie e tutte le canzoni d’amore: quelle belle, quelle brutte.
Sono su una spiaggia della costa del Sol, vivo l’esperienza del turista nel senso più borghese del termine, senza alcun tipo di vergogna da viaggiatore progressista.
Mi identifico in un personaggio di Houellebecq, bevo persino mojito sotto l’ombrellone mentre in sottofondo lo stereo del chiosco passa tutte le novità commerciali dell’estate in arrivo.
Brani sudamericani che parlano solo di sesso occasionale e donne provocanti, canzoni in inglese internazionale che raccontano di gioventù protratte all’infinito e di amori consumati in discoteca dopo poche frasi di circostanza.
Gli amori di cui parlano sono per corpi integri, ben allenati, sodi.
Mi viene quasi di canticchiarle senza ritegno.
Steso sul lettino, leggo articoli di scrittori dalla barba ben curata che se la prendono con l’eccessiva cura del fisico, consigliano di dedicare mezzore a saggi di loro maestri sconosciuti piuttosto che a esercizi per i bicipiti, disquisiscono sulla chirurgia estetica e sulla percezione del tempo con eccesso di buon senso comune e troppe parole complicate.
Su un altro quotidiano leggo che alcune femministe in Italia stanno facendo una cagnara clamorosa perché un manifesto del Pd promuove la festa dell’Unità mostrando delle gambe femminili sotto una gonna svolazzante che cita Marilyn Monroe.
Mi alzo in piedi e guardo ogni dettaglio in modo impietoso: culi, spalle, tette, gambe magre e grosse, quelle magre mi ricordano M. mio malgrado.
Cerco di indovinare dai dettagli l’età delle donne che mi circondano.
Trovo desiderabili solo donne che stimo sotto i  trent’anni e mi vien voglia di tornarmene a casa perché so che non è una buona cosa, so che non mi porterà da nessuna parte.
Gli scrittori dalla barba curata che parlano di corpo con sufficienza e astrattezza sperano che qualcuna sia sedotta dalla loro dialettica, scrivono anche per aumentare le loro possibilità di scopare e forse si accoppieranno con donne bellissime che il loro fisico non merita.
Così Arthur Miller si mise con Marilyn Monroe e non la trattò affatto bene,  sono sempre stato dalla parte dell’atleta Joe Di Maggio, lui ogni anno andava a metterle i fiori sulla tomba.
Trovo più giusto che qualcuno ti scelga per i tuoi pettorali e i tuoi addominali che per il tuo ruolo sociale o la tua presunta personalità.
Spesso dietro al ruolo e alla personalità ci sono finzioni e simulazioni volgari.
E’ più onesto scegliersi per il corpo: più naturale, meno corrotto, lì c’è meno ego di quello che si pensa, c’è più verità.
Poche ore prima mi ero fatto una doccia e toccandomi le chiappe avevo sentito che, pur non essendo da buttare, non sono le stesse di qualche anno fa.
Sento l’esigenza insopprimibile di fare qualcosa per rassodarle, avrei un culo bellissimo, i consigli di M. mi risuonano veri.
Era impietosa ma non più del nostro tempo, mi ha contagiato con la sua estetica dai tratti pericolosamente eugenetici ma forse avevo già in incubazione la malattia. 
In fondo ero d’accordo con Houellebecq molto prima di conoscerla.
Lei aveva avuto solo ragazzi con gli occhi azzurri e non per una coincidenza, diceva che non si sarebbe mai potuta innamorare di un uomo con occhi di un altro colore, sostenevo che era una cosa folle, sorridendo e scuotendo le spalle, ma ci sarebbe stato da rabbrividire: era nazismo liofilizzato.
Non poteva nemmeno stare con qualcuno che non avesse un certo tipo di ingle, inguine in italiano, era necessario un incavo fra l’osso del bacino e l’addome, come lo hanno le statue greche.
Mi raccontò al telefono che al nostro primo appuntamento aveva guardato di nascosto se avevo quello spazio; quando la maglietta si era alzata, avevo superato l’esame.
Le persone che ingrassano o si lasciano andare senza combattere, d’altronde, danno fastidio anche a me, non mi importa quanto siano simpatiche e geniali, non riesco a comprenderli.
Chi è sempre stato obeso non mi dà fastidio ma non accetto le persone che ingrassano sorridendo, mi sembra gente che si accontenta troppo facilmente o che cerca una vendetta altrove.
Si metteranno con un ragazza frigida o faranno finta di essere diventati fantasmi, la cosa peggiore che può capitare è che si nascondino dietro la loro professione o il loro cervello.
Iniziamo come corpo, finiamo come corpo.
Per questo ora mi osservo bene, peso i dettagli come faccio con le malcapitate bagnanti e mi accorgo di avere messo su tre chili di troppo; l’ingle, o come diavolo si chiama, non è definito bene, devo fare assolutamente qualcosa per rimediare.
Mi alzo dal lettino un po’ innervosito e vado al  bar dove gruppi di anziani si difendono dal sole delle tre bevendo succhi di frutta e mangiando sandwich dai nomi inglesi.
Qui è pieno di anglosassoni e nordici che vengono a svernare dopo la pensione accontentandosi del clima buono, gli basta molto poco per essere sereni.
Ci sono molte carrozzelle in giro, alcune motorizzate extra lusso, presumo che ci debba essere una agenzia di viaggi che specula su pacchetti vacanza per invalidi.

Affianco a me si siede un gruppo più rumoroso del solito, non per colpa dei vecchi che siedono lì tranquilli ma della guida: una trentenne con il sorriso fasullo che sta salutando la comitiva in gita.
É il loro ultimo giorno di vacanza e la tipa regala ad ognuno di loro un foglio rosso.
Su ogni foglio c’è una specie di attestato di partecipazione, personalizzato ad hoc.
Per ogni partecipante c’è scritto qualcosa di buono e al centro c’è perfino una foto in bianco e nero che lo ritrae.
E’ una sorpresa della guida, qualcosa che le devono aver insegnato in un corso di formazione; i vecchi applaudono con diversa intensità di approvazione, le foto mi sembrano effigi funebri.
Dalle casse del bar esce l’ultimo successo di Jennifer Lopez, la lambada elettronica remixata che qui sembra indispensabile far ascoltare ogni mezzora.
I brani che passano in continuazione sono questo o uno degli ultimi di Shakira.
Shakira la trovo insopportabile da quando eccede in sensualità in ogni sua canzone. Dice boca, fa piccoli gemiti, è sempre sull’orlo dell’orgasmo, una volta sentii una sua intervista, sembrava simpatica e inoffensiva.
E’ una brava ragazza che si muove molto bene, ma è  stata venduta dalle case discografiche come la ragazza ideale per ogni essere umano; piace molto ai miei compagni di vacanza, so che se la incontrassi sulla spiaggia non mi emozionerei più di tanto.
La bellezza è superficiale ma ha tratti soggettivi, con questo trucco la natura, Dio o chissà chi permette che ognuno possa perdersi per una sua personale bellezza.
Gli altri la riconoscono, più o meno, come si riconosce un’abilità che non ti appartiene, ma non possono comprenderne il mistero.
Dove loro vedono la superficie liscia e trasparente, tu ci resti invischiato dentro come con le sabbie mobili.
É la tua bellezza solo, il tuo piccolo inferno, il paradiso sempre a un passo.
Dopo M. ho avuto la sensazione di essere ossessionato dalla bellezza come non lo ero prima e so che non è una cosa salutare.
No, non mi porterà nulla di buono.

lunedì 27 giugno 2011

Contro gli umanisti

Tutto iniziò quando lessi un annuncio di una radio che cercava dei collaboratori, da tempo avevo l’idea di mettermi dietro a un microfono, puntavo ad emittenti minuscole e sconosciute dove magari avrei proposto trasmissioni notturne in cui sfogare le mie stupide pulsioni narrative.
Così andai all'incontro, la stazione era in un appartamento anonimo, non lontano da casa mia.
Il direttore della radio era un tizio che lavorava in un ufficio comunale, una specie di geometra o tecnico del catasto, quasi subito capii che l'annuncio era una specie di esca.
Il tipo era un umanista e quella radio si ascoltava a malapena in certi quartieri della città, la cosa buona era che non avevano nemmeno un palinsesto, erano appena nati e promettevano una certa libertà.
Gli umanisti sono un movimento filosofico-politico piuttosto fumoso creato da un tale argentino che si era dato il nome d’arte di Silo, era un autodidatta senza grandi meriti accademici e durante la dittatura militare aveva fondato un movimento di opposizione non violenta.
Il suo movimento era stato assolutamente impotente di fronte alla repressione del regime e di esso non c'è traccia alcuna nelle cronache convulse del tempo.
Eppure, come un virus, la parola di Silo si propagò in tutto il mondo grazie agli esuli argentini e si formarono comunità piccole ma decise che si fecero strada dando vita a giornali di quartiere e circoli territoriali, sorta di soviet senza pretese che propugnavano una rivoluzione utopica delle anime e si trasformarono in alcuni casi, vedi in Italia, perfino in un partito politico.
Un partito politico orizzontale e reticolare, insomma un movimento come quello di Grillo senza averne né la cattiveria né l'aggressività, impegnato in missioni in Africa o volontariato e nato, per sua sfortuna, in epoca pre-Internet.
Di tutto questo però il direttore non me ne parlò affatto nel nostro primo incontro. Era vago, non voleva spaventarmi, metteva l'accento sul fatto che non chiedessero nessun impegno, la sua idea era attirare dentro la gente per poi convincerli pian piano.
Per far questo organizzava a casa sua riunioni informali in cui cercava di abituarli gradualmente alla parola di Silo, come hanno fatto probabilmente i primi cristiani appena usciti dalle catacombe.
I nuovi arrivati non sapevano nulla di Silo, non era come avvicinarsi a Scientology o far parte dei leninisti, dovevi fidarti e seguire le parole di qualcuno di cui nessuno discuteva, su cui non potevi avere nessun pregiudizio.
Pensai che sarebbe potuto essere divertente e accettai l’invito.
Quando arrivai a casa sua, venne ad aprirmi sua moglie, scoprii che erano un coppia di quarantenni ex socialisti, delusi dalla piega degli eventi generale ma probabilmente anche da quella personale: erano senza figli e non notai nessun segno di felicità nel trilocale accessoriato in variazioni di bianco.
Anche la moglie aveva un impiego pubblico in qualche circoscrizione, anche lei poteva staccare alle due e dedicarsi alla causa del movimento.
Avevano apparecchiato su un tavolino del soggiorno un aperitivo povero a base di salatini, olive e patatine, da bere solo analcolici.
Erano già seduti sul divano due ragazzi con i capelli rasati che vivevano assieme, sicuramente gay che si tagliavano i capelli a vicenda, fuori sede calabresi raccattati in facoltà come me, poi c'erano degli habitué: tre umanisti di provata fede e di cui mi ricordo solo una leggera diffidenza verso i nuovi, e una tipa con i capelli rossi accesi.
La tipa era sicuramente la più interessante del gruppo, era una Vanoni in formato extralarge, aveva un vestito scollatissimo che metteva in risalto due tette cascanti da matrona craxiana, portava collane da bigiotteria che tintinnavano a ogni suo movimento: sempre ampio, mai accennato o discreto.
Fin dalle prime frasi che pronunciò compresi che era una loro amica di lunga data, che non le importava nulla degli umanisti e non aveva alcuna intenzione di collaborare alla radio, aveva voglia solo di essere scopata da cazzi giovani.
Iniziò a far battute a doppio senso ai due rasati, alla fine intuì che da quel lato non c'era nulla da fare e quindi si dedicò a me senza riscuotere il successo sperato, mi lasciò comunque il rossetto sulle guance schioccandomi un bacio forte che minacciava altre avances future.
Il direttore, simile a un Crepet senza ciuffo, dopo un breve preambolo leggero, iniziò a parlare seriamente del senso dell’essere umanisti.
Gli umanisti credono molto nella democrazia diretta e sono dei socialisti utopici con poco o nessun vero substrato ideologico.
Quindi a turno alcuni lessero dei discorsi di Silo e si commentarono alcuni passi, come fanno i testimoni di Geova con la Bibbia.

Ebbi la percezione chiara che la serata avesse potuto, se ci fosse stato il detonatore adatto, trasformarsi in una nottata da scambio di coppie o club privè.
La coppia senza bambini e con una funzione vigilante, la vecchia troia affamata di sesso, la coppia gay del sud ancora lontana dal completo coming out, e in sottofondo discorsi di fratellanza universale non così distanti da una libertà sessuale auspicabile.
A fine serata il direttore regalò a tutti i nuovi un libro con alcuni discorsi di Silo, la cosa che mi colpì è che alcuni di questi discorsi erano stati tenuti davanti a ufficiali dell’esercito russo post-1989.
Silo, pur essendo teoricamente un convinto pacifista, era stranamente molto amato dalle forze armate russe che gli avevano tributato stravaganti onorificenze.
Nei suoi discorsi arditamente definiva l'esercito indispensabile guardiano della pace, una tesi tipicamente destrosa, immagino a quali salti mortali logici sia stato costretto Ignacio per giustificare davanti a se stesso una teoria così in contrasto con i suoi principi basilari, tutto solo per avere un po' di soldi e qualche appoggio utile al movimento.
Movimento che, malgrado la sua estensione planetaria, è rimasto sempre piuttosto marginale rispetto ad altri fenomeni esplosi negli stessi anni.
Mi ricordo che quando diedi la prima occhiata al libro ero arciconvinto che Silo fosse morto, forse per colpa della impaginazione sciatta del volume o per una sua foto in bianco e nero sul retro.
Quando ero a Buenos Aires l'ottobre scorso, però, lessi un foglietto attaccato su un muro in cui si parlava di una commemorazione del maestro Silo da parte di un circolo umanista, in occasione del trigesimo della sua dipartita terrestre.
Era morto, poco prima che arrivassi, a Mendoza ma non avevo ascoltato nulla sulla sua scomparsa, pur leggendo ogni giorno le edizioni on line dei quotidiani argentini.
Era pressoché sconosciuto al di fuori della sua cerchia, persino nel suo paese.
Quando chiesi a M. di Silo e degli umanisti, nemmeno sapeva di cosa stessi parlando, se cercate su Google trovate solo brevi coccodrilli su testate on line insignificanti.
Gli stessi siti degli umanisti mostrano evidenti crepe: alcuni articoli un po' datati, aggiornamenti risalenti a due anni fa, l'impressione è che ci sia stata una emorragia costante verso nuovi movimenti più pragmatici, non so se sia un bene.


Dopo quella riunione andai altre volte alla radio, facemmo anche una specie di puntata zero di un programma ideato dal direttore in cui cui discutemmo un po' di tutto, perfino del Grande Fratello; i partecipanti non tanto, o non ancora, umanisti potevano esprimere liberamente la loro opinione, anche se a reggere le fila era sempre il direttore che qui si rivaleva del suo scarso livello gerarchico nell'ufficio comunale.
Alla fine della registrazione della puntata mi prese in disparte e mi disse che avevo le potenzialità giuste, a differenza degli altri novizi, per poter davvero fare qualcosa di utile per il movimento, era un modo diplomatico per dirmi che potevo fare carriera.
Non so se fosse una strategia o fosse realmente convinto delle mie capacità, in ogni caso mi chiese di passare a un altro livello d'azione ed entrare in una sorta di comitato di zona dove avrei potuto non soltanto lavorare alla radio, ma anche occuparmi di altri ambiti comunicativi.
Mi istigava a non accontentarmi, pensava che la cosa mi invogliasse, aveva visto nel mio sguardo troppo docile un assenso che non c'era; lo so, il mio sguardo è debole, M. mi diceva che a tratti era insopportabile quando era troppo implorante.
In quei momenti non mi amava, lo chiamava lo sguardo vulnerabile; lo conosco, la gente spesso lo scambia per cedevolezza.
Lo pensò anche il direttore della radio umanista ma si sbagliava, non credevo in nessuna ipotesi di carriera, figuriamoci se credevo in una carriera in quel gruppuscolo fanaticamente inoffensivo.
Dopo quella chiacchierata, pensai che la cosa non era più così divertente.
Mi ricordo che mi chiamarono al cellulare molte volte, prima inventai scuse molto discutibili, poi non risposi nemmeno più. Continuarono a chiamarmi per un po’, alla fine per fortuna si stancarono.

sabato 25 giugno 2011

contro lotta comunista


Non sono mai riuscito ad entrare in un gruppo, eppure non so quante volte ci ho provato con convinzione apparente.
Non sono mai stato in una squadra, non sono mai stato scout, non sono mai stato socio attivo di un’associazione o di un partito; mi avvicinavo timidamente poi, appena capivo di cosa si trattava, fuggivo.
Mi sono mille volte rammaricato di questa mia debolezza ma ora mi sono rassegnato, forse è persino una qualità.
Ad esempio in piena Tangentopoli avevo 17 anni e mi consideravo di sinistra,  e per un momento pensai di trasformare il mio generico interesse per la politica in qualcosa di più impegnativo.
Dovevo scegliere fra la sinistra giovanile del Pds e quelli di Rifondazione, ma non entrai in nessuno dei due gruppi e non per indecisione ideologica.
Andavo al liceo scientifico e nella mia piccola città il blocco dei giovani di sinistra era tutto al liceo classico; fra le due scuole c'era un invisibile e insuperabile barriera, le comitive erano diverse e non comunicanti, eccetto che per occasionali e rari incontri in cui dovevo sopportare l'arroganza dei classici.
In fondo mi trovavo bene nella mia, non avevo nessun rispetto per i loro studi greci e per le loro barbe incolte.
A vent’anni invece, quasi per caso, entrai in contatto all'università con un gruppo politicamente molto più surreale dei giovani militanti dei partiti tradizionali.
In facoltà c’erano dei tizi che vendevano un giornale con l'aspetto tipografico da anni ’70, le parole si stingevano lasciandoti sulle dita macchie d’inchiostro nero, la testata si chiamava Lotta Comunista.
A venderlo barbuti dall'aspetto polveroso, ma ogni tanto c’era pure qualche ragazza carina finita nella loro rete in modo piuttosto misterioso.
Una di loro mi convinse non soltanto ad acquistare il giornale - cosa che alcuni studenti facevano come un gesto di carità ammantato di una nostalgia per un futuro che non avrebbero mai vissuto- ma a partecipare perfino a una loro conferenza, l'incontro si sarebbe tenuto in un seminterrato dalle parti di Rebibbia, il tema della serata Oblomov come metafora della esperienza televisiva contemporanea.
Oblomov è il personaggio del romanzo russo omonimo scritto da Goncarov e racconta di un uomo che vive nell’apatia più completa, la conferenza era tenuta da un presunto dottorando di scienze politiche che dissertava sulla asocialità del mezzo televisivo e su come il telespettatore medio sia assolutamente incapace di esprimere una opinione di qualsiasi genere, di come sia diviso dagli altri esseri umani e quindi dai membri della sua stessa classe.
Internet esisteva già da diversi anni e loro erano rimasti fermi ad analisi da dopo Guerra Fredda.
Quelli di lotta comunista si professavano leninisti e intendevano seguire alla lettera l’ortodossia che aveva portato alla rivoluzione sovietica del 1917, non volevano accettare il passaggio del tempo.
Ovviamente mi guardai in sala alla ricerca della ragazza per cui ero venuto all'incontro ma non c'era, pensai che anche loro avessero appreso l'uso delle hostess per raccogliere persone utili alla causa.
Quando il tizio concluse il suo monologo, intervenni chiedendogli se in fondo anche il mezzo cinematografico non abbia la stessa funzione, al cinema si va con altra gente ma si è comunque soli; ogni esperienza estetica è fortunatamente solitaria.
Non si può leggere un libro in due, almeno che non stai seducendo qualcuno alla maniera stucchevole di Neruda o ti stai preparando a fare l'amore; sei solo con te stesso, chiuso in un dialogo con chi lo ha scritto, non c'è da dibattere con nessuno, è questa la sua bellezza.
Il conferenziere rispose in modo sprezzante alla mia domanda, cambiò argomento, fu maleducato senza essere arrogante, in modo gelido, non fece trasparire la minima emozione.
Mi davano l'idea di essere dei venusiani, senza cuore né anima, tutta mente e dottrina, mi immaginai che così dovevano essere stati i brigatisti rossi degli anni '70.
Erano in giacca, tutti i loro capetti erano vestiti in giacca, ci tenevano ad essere seri, a non confondersi con quelli dei centri sociali che detestavano.
Per loro quelli dei centri sociali erano trozkisti o deviazionisti di cui diffidare, anarcoidi senza neanche aver letto bene Bakunin, erano anti sistema avventurosi e senza scientificità, fumavano troppa erba; loro invece volevano essere autentiche avanguardie del proletariato, per questo i loro vertici si vestivano in modo impeccabile ed erano sempre ben pettinati, come Mormoni o Testimoni di Geova.
Proprio come i Testimoni di Geova andavano a vendere il giornale porta a porta, bussavano alla ricerca di nuovi improbabili finanziatori.
Ero nuovo e mi chiesero, malgrado il mio intervento fuori luogo, di unirmi a loro per la vendita settimanale nel quartiere.
Era sabato mattina e mi ritrovai in coppia con un tizio disadattato che aveva una parlantina sciolta e automatica da imbonitore.
Mi fermai davanti a usci aperti con cautela o mai aperti, raccogliemmo qualche risposta sgarbata e un po’ di monete per toglierci di torno.
Non frequentai mai più le loro riunioni inquietanti.

mercoledì 15 giugno 2011

Contro le buone maniere (a tavola)

Nei film americani quando si vuole evidenziare la crudeltà paterna ci sono sempre delle scene in cui il genitore tratta malissimo il figlio perché non mangia in modo composto, perché usa le mani quando non dovrebbe usarle o si ingozza troppo rapidamente senza rispondere alle domande di rito su come è andata la giornata.
Il figlio di solito finisce per abbozzare, per dire sì signore e poi viene obbligato a finire i piselli e le carotine poco invitanti, distribuite in modo paranoicamente regolare nel piatto.
A volte se il figlio è stato disobbediente e non ha rispettato le regole del galateo familiare, il padre lo caccia via da tavola senza fargli nemmeno finire la cena.
A volte ci sono delle scenate: il figlio piange, il fratello pure, la madre lo protegge dallo schiaffo in arrivo abbracciandolo forte.

Questo mi ha fatto sempre pensare che ci sia una relazione stretta fra l’eccesso di formalismo a tavola e il sorgere di pesantissimi complessi infantili.
A casa mia non ho mai avuto di questi problemi.
Mio padre mangia in modo velocissimo, riesce a ingozzarsi una mela in tre morsi, divora le cose con avidità.
E non si è mai preoccupato molto del modo in cui mangiavamo, se avevamo una posa corretta mentre stavamo a tavola oppure se non masticavamo a sufficienza prima di ingoiare.
Mia madre lo ha sempre ripreso vanamente, i loro scontri ci lasciavano la libertà di regolarci come volevamo.
Lo so, alcuni potranno trovare questo comportamento un po’ troppo lassista, però io penso che sia meglio dell’imposizione di regole ferree che ti rovinano la vita.
Tutte le persone che denotano durante i pranzi degli eccessi di pignoleria, hanno di solito delle turbe nel loro passato.
Alla prima cena al ristorante con M. ordinai della pasta lunga, non ricordo se tagliatelle o qualcosa del genere, di conseguenza era inevitabile qualche piccola difficoltà.
Ho visto stranieri usare forchetta e coltello per tagliare gli spaghetti oppure aiutarsi con il cucchiaio, come facevano i nostri bisnonni, ma è una cosa inammissibile ai giorni d’oggi per un italiano.
Appena fummo più in confidenza, e dopo varie sessioni di osservazione silenziosa, M. iniziò improvvisamente a fissare le sue regole a tavola: non si parla mai quando si mangia, si sta diritti, non si usano mai le mani per aggiustare qualcosa che non riesci ad infilzare perfettamente con la forchetta.
Inutile dire che in casi di riunione conviviale qualche strappo alla regola del non parlare quando mangi si può fare, anche per non bloccare la comunicazione in un rigido schema; una volta, a cena con dei miei amici, M. si accorse che non ero il solo a violarla occasionalmente e pensò, con la solita arroganza argentina, che fosse un comportamento tipicamente italiano. Sul mio modo di tenere forchetta e coltello, poi, intraprese una sua personale battaglia.
Io sono un mancino a tavola, ovvero tengo la forchetta con la destra e il coltello con la sinistra, nel caso di pietanza che abbia bisogno di entrambe le posate.
La cosa potrebbe essere legata alle mie difficoltà di lateralizzazione, per cui  ho bisogno sempre di riflettere un attimo prima di decidere qual è la destra e quale la sinistra.
Oppure più probabilmente è solo una cattiva abitudine, o semplicemente una abitudine, presa da bambino.
La forchetta, impugnata con la mano destra, la adopero come una sorta di  supporto perpendicolare al piatto per bloccare l’alimento, mentre con la mano sinistra piego il coltello in un modo poco convenzionale ed esteticamente non bello a vedersi.
Non essendo un autentico mancino, questo stravagante modo di mangiare ha anche una ricaduta sul piano pratico, così la pizza ad esempio la distruggo in malo modo.
M. si impose di farmi cambiare abitudine, cercò di farmi invertire le mani con cui afferravo le posate o almeno, se volevo continuare ad essere mancino, pretendeva che tenessi forchetta e coltello in maniera più corretta.
Ogni volta che iniziavamo a mangiare una parrilla diceva ah ah e sorridendo mi ricordava della cosa, dopo qualche giorno come un cane pavloviano al suo ah reagivo afferrando le posate nel modo ortodosso.
L’ultima volta che andammo a cena assieme mi riprese due volte, senza accorgermene avevo sfiorato con la mano delle patate al forno e mi ero piegato un po’ troppo verso il piatto.
Io non giudicavo mai le sue lacune, eravamo su due piani diversi, per la prima volta ero il buono.
Quando stavamo per finire la cena, che per il resto era andata apparentemente bene, mi ricordò del nostro primo appuntamento, della scelta sbagliata di quella pasta lunga e mi consigliò di non fare un errore del genere a un altro primo appuntamento.
Aveva deciso di lasciarmi e non conosceva il tatto, la decenza, o il coraggio, di sapere come fare; era maldestra come io sono maldestro in altre mille cose molto meno importanti.
Adesso non so più come mangio, non ho nessuno che mi controlla, a cui interessi davvero ma neppure nessuno a cui dia fastidio, o che voglia usarmi come cavia.
Per inerzia continuo a prendere coltello con la sinistra e forchetta con la destra, come ho fatto per trentacinque anni.
Ma qualche volta  mi fermo un attimo e ci rifletto, allo stesso modo in cui ci metto un attimo prima se dirvi se dovete girare a destra o sinistra.

martedì 14 giugno 2011

Contro i movimenti

Sono venuto a vedere i festeggiamenti per la vittoria del referendum su acqua pubblica, nucleare e legittimo impedimento, senza aspettative, solo con la voglia di distrarmi per qualche ora.
Il posto già non mi piace: Bocca della Verità, ricordi di un primo incontro di quasi un anno fa ma non abbiate paura, non ci saranno altre citazioni sentimentali.
E poi è uno slargo, non una vera piazza, di fianco ci passano le auto, è facile da riempire ma malgrado questo ci si sta larghi, non c’è affatto ressa.
Saremo in cinquecento, ho appuntamento con altre persone, ci troviamo senza alcuna difficoltà.
Un tizio con l’organetto parla di Val di Susa e Tav, ha un forte accento piemontese, la barbetta e il sorriso stampato sul volto, inizia a cantare canzoni partigiane: Bella ciao e Fischia il vento.
Tutto bene ma è dura sopportare ancora la gente che alza comunque e sempre il pugno sinistro, e sorridere senza convinzione a ragazzi che ti regalano cartoline con slogan del Che.
E’ dura sopportare l’ennesimo tipo con l’organetto.
Parte la musica balcaneggiante, poi si passa all’etnico, quindi tamburi in stile brasiliano, la solita solfa musicale, temo da un momento all’altro la pizzica, arriva l’hip-hop.
Va a cantare Piotta, rapper romano in declino da anni, dedica una sua vecchia canzone dal titolo L’onda a un movimento studentesco dell’anno scorso che si chiamava così, il brano ovviamente non ha alcun nesso con la protesta nelle scuole; ogni cantante si autopromuove come può.
Un rapper più giovane si butta in un free style, ma fatica a trovare le rime e quelle che trova sono piatte, poco incisive; cita la Palestina e altre questioni, va fuori tema, si fa confusione come al solito.
“Ora ci riprendiamo Roma e tutto quello che ci hanno tolto” grida un tipo alto, con la barba, spalle larghe e un po’ di pancia, sui trent’anni, aria da ex rugbista.
Sale una ragazza sul palco in rappresentanza di un’ associazione di femministe lesbiche e comincia a divagare di diritti delle donne, poi polemizza con un rapper perché prima ha usato la parola troia; fa ancora più confusione.
Non capisco quale sia il punto, ma il peggio è ancora lontano dal venire.
Al lato del piccolo palco c’è un maxi schermo su cui trasmettono la diretta sul post-referendum di Raitre, senza audio.
Ogni tanto inquadrano la piazza come copertura ma in studio discutono i soliti politici di maggioranza e opposizione, fra i quali c’è Bersani.
Interrompono di colpo la musica appena decente che stava mixando un dj, il tizio con la barba assume il tono da centro sociale, attacca tutti: insulta Bersani,  ma poi passa a tutti gli altri, compreso Santoro, dice “questo non ci rappresenta, quest’ altro non ci rappresenta”, non capisco a nome di chi parli.
Chiede che sia data voce alla piazza.
Usa i soliti argomenti da demagogo, ignora che non si può dare la voce a una piazza: è contro le leggi dell’acustica.
In realtà è arrabbiato perché vuole lui la parola: è uno dei comitati referendari, uno dei tanti, ma si capisce chiaramente che si sente defraudato, pensava di aver vinto, che il suo ego dovesse avere una ricompensa ed invece nulla, nessuno gli dà voce, nemmeno il Tg3 o Rainews 24.

Davanti a me ci sono quattro ragazze ventenni, sono tutte e quattro belle, inizio a prendermela contro il tipo dicendo che solo un coglione può dire cose del genere, poi cerco di giustificare il mio disappunto con argomenti sensati, le ragazze sono d’accordo.
Attorno a me alcuni sono sorpresi dal mio scatto, mi guardano un po’ male ma vigliaccamente non rispondono.
La piazza è tiepida, il tipo si scalda ancora di più, se la prende con Bianca Berlinguer che non lo fa intervenire, chiede un boicottaggio, si arrischia a ipotizzare futuri misteriosi referendum sui mezzi di comunicazione di massa.
Dice abbiamo vinto noi, noi siamo il 57 per cento, mentre la piazza resta mezza vuota e non è nemmeno tutta dalla sua parte.
Dietro di me c’è un signore sui sessant’anni con l’aria compunta dell’elettore democratico, è perplesso mentre il tipo chiede, in imperativo, alla gente di sedersi e poi di dare le spalle alle telecamere per protesta.
Quindi sostiene che la piazza, ormai diventata la sua piazza, non è a disposizione di nessuno.

Molti si siedono ma pensando a tutt’altro, uno davanti a me ad esempio ha puntato una ragazza con i capelli lisci e sottili, aveva provato già a ballare con lei, lei gli aveva sorriso, forse ci stava.
Un altro aveva fatto scivolare nelle mani di una ragazza un bigliettino con il suo numero di telefono scritto in pennarello rosso, le aveva sussurrato una frase all'orecchio, certamente le avrà detto qualcosa su come era rimasto colpito dal suo modo di muoversi o di essere.
Nelle prime fila qualche idiota si vede inquadrato e saluta casa come si faceva negli anni ’80, quando la gente ancora temeva e agognava la tv.
Se il tizio vuole dare l’idea di una piazza battagliera e antagonista, mi sa che è fuori strada.
Me la prendo con il coglione battendogli le mani ironicamente, sono pronto a salire sul palco e a dargli una lezione.
Una delle ventenni meravigliose comincia a fischiarlo, la cosa mi gratifica.
Forse il tipo ha bevuto, forse è un megalomane, forse è stato picchiato da bambino e ora si sta vendicando.
I suoi compagni del comitato lo sostengono gridando slogan in coro come fanno gli ultras, hanno Peroni da 66 in mano, sono aggressivi, hanno facce che mi spaventano, non sanno nemmeno godersi la vittoria.

Le splendide ventenni vogliono ballare e si lamentano, erano venute qui, ognuna con la loro immatura ma sana opinione politica, per festeggiare.
Le guardavo con diffidenza all’inizio, troppo perso nei fatti miei per unirmi alla festa, ora invece mi sembrano nel giusto.
Sono disposto a tutto, anche a ballare lo ska, se qualcuno blocca quel coglione e gli ricorda che non ha vinto un cavolo, che nessuno vince mai da solo, che l’Italia non è un paese, per fortuna, a sua immagine e somiglianza.
Ora mi sembra pure di riconoscerlo il tizio, mi sembra lo stesso che in un centro sociale chiedeva per tutti i compagni il lavoro, e poi la casa, e poi i soldi, voleva tutto e subito.
Magari gli assomiglia soltanto.
Mi ricordo che una volta volevo entrare nel collettivo politico della mia università, mi comprai un orrendo poncho messicano e una borsa etnica,  ma non riuscii mai davvero a convincerli di essere uno di loro.
Forse semplicemente non lo ero, anche se avevo voglia di esserlo perché in fondo li c’era della figa più vicina alle mie aspirazioni adolescenziali, ai film visti, all’immaginario di cui mi ero abbuffato a piene mani negli anni precedenti.
La prima volta che partecipai a un loro incontro mi fecero sentire fuori posto dopo nemmeno cinque minuti, più che un gruppo era un’accozzaglia di individualità superegocentriche ed io, che ero egocentrico ma timido, decisi di non ritornarci più.

Ogni tanto ancora mi viene la tentazione di entrare in qualche gruppo con obiettivi sociali e politici, ma ogni volta che mi avvicino scappo.
Ho sempre la mail piena di newsgroups con intenzioni molto serie, non le leggo mai.
La serata continua così, fra intermezzi di musica varia e trascurabile, e interventi vocali inappropriati del tizio ormai fuori controllo.
Ce ne andiamo senza sapere come è andata la controversia, se il tipo ha avuto diritto di parola.
Più tardi saprò che alla fine l’hanno intervistato e lui, che sembrava reduce da dieci birre forti, biascicava esprimendo sempre un unico elementare concetto.
Abbiamo vinto noi e non i partiti, ha vinto la piazza, siamo noi la piazza.
Era ubriaco di se stesso, conosco bene la sensazione che si prova, ma almeno io cerco di non fare danni, al massimo scrivo.




sabato 11 giugno 2011

Contro i Mondiali



In Argentina è molto facile vedere delle persone con magliette blu con su scritto Italia.
Le vedi per le strade, in metro, dentro le palestre, le esibiscono con un certo orgoglio ragazzi che non sanno una parola di italiano.
Non sono magliette originali della nazionale, sono quelle che di solito vendono a Roma certi chioschi spacciatori di souvenir.
Anche M. ovviamente ne aveva una e me la prestava perché non le andava bene, mi incitava a indossarla per qualche oscura ragione ma io, essendo davvero italiano, mi vergognavo di mettermela fuori casa.
La usavo solo per dormire.
A Buenos Aires tutti fanno tutto per sembrare più italiani di quanto siano, ma nello stesso tempo contraddittoriamente ci prendono in giro per la semifinale di Coppa del Mondo persa ai rigori nel 1990.
C’è una frase che ti dicono sempre, uomini e donne, appena capiscono da dove vieni.
“Siamo fuori dalla coppa” è la frase, la pronunciano usando un tono caricaturalmente lamentoso, sono sempre convinti che gli italiani siano melodrammatici, hanno i loro motivi per crederlo.
Non so se Bruno Pizzul disse così, non mi pare; Pizzul era il telecronista delle partite dell’Italia e molti ritenevano che portasse sfiga.
Io non vidi la partita in televisione, ero proprio allo stadio San Paolo di Napoli, settore distinti.
Piansi quando Serena si fece parare l’ultimo rigore; Maradona, alla vigilia, aveva detto che Napoli non si meritava l’Italia, come se lui da solo valesse più degli eroi del Risorgimento.
Era furbo Diego e riuscì a ottenere l’appoggio di una piccola parte della tifoseria partenopea, la cosa mi faceva imbufalire,
già all’epoca ero garibaldino.
Dopo la sconfitta urlai contro un gruppo di argentini seduti vicino a me, avevo quattordici anni, un poliziotto chiese a mio padre di farmi stare calmo.
Lo disse con un mezzo sorriso, non mi prendeva sul serio e aveva ragione.
Era solo un raptus isterico, mi calmai subito e mi sentii anche in colpa per aver perso l’aplomb del mio modello Platini.
Avevo già visto un’Italia-Argentina dal vivo, otto anni prima, erano i Mondiali di Spagna ‘82, avevo sei anni e mi ricordo dettagli confusi di quella esperienza.
L’amico folle dei miei che si agitava vicino alle transenne, con un cappello da messicano, gridando contemporaneamente in tre lingue straniere senza saperne nemmeno una.
Il Sarria di Barcellona: un piccolo stadio oppresso dal calore umido di luglio, in cui il pubblico non aveva ancora acquisito il diritto esclusivo alla poltroncina.
Vidi parte della sfida in braccia a un brasiliano che tifava Italia, sia per la tradizionale rivalità contro l’Argentina campione del mondo in carica, sia perché i loro tifosi erano convinti che l’Italia fosse più debole.
Se ne sarebbero amaramente pentiti pochi giorni dopo quando li sconfiggemmo 3 a 2 con tripletta di Paolo Rossi.
Sono sempre stato un fanatico dei Mondiali di Calcio, sono uno di quelli che, prima del loro inizio, appende in camera da letto un tabellone con il calendario delle partite per poi compilarlo.
Nel 1990 tenni addirittura un quaderno in cui scrivevo la cronaca di ogni sfida, dando perfino i voti ai giocatori, mi ricordo bene gli 8 al portiere della Costarica Conejo.
Ricordo perfettamente anche dove mi trovavo in ogni finale dei mondiali, dal 1982 in poi.
Nel 2002, finale Brasile-Germania, ero a Milano, si giocava a ora di pranzo, ero a casa di V, la madre era in cucina, noi due guardavamo la partita senza entusiasmo.

Pensavo alle due sfide Italia-Argentina quando mi accingevo a incontrare M.
Dovevamo vederci per la prima volta e quel giorno c’era Italia-Slovacchia, l‘ultima partita del nostro girone ai Mondiali Sudafrica 2010.
Le proposi di vederla assieme a Villa Borghese dove avevano installato un maxi schermo in cui andavo appena potevo, lei sorprendentemente acconsentì.
Mi piaceva andare a Villa Borghese dove stranieri, in bermuda e con bottigliette di acqua,  si stendevano sull’erba a guardare qualsiasi cosa passassero, qualcuno dormiva per quarti d’ora interi facendosi cullare dal suono delle vuvuzuela.
Il bello dei mondiali è che ogni partita ha senso: 
Costarica- Uruguay come Iran-Bolivia.

Andai a prendere M. alla Bocca della Verità e non ne ebbi una grande impressione, a volte non mi accorgo proprio della bellezza.
Lei d’altronde faceva di tutto per occultarla: portava un berretto bianco per difendere la sua pelle siberiana dal sole mediterraneo ed era leggermente ingobbita da una certa timidezza.
Aveva qualcosa nello sguardo o nel naso che mi ricordava Javier Zanetti, risi molto quando seppi che il soprannome del suo ex era Cambiasso; quando vidi meglio il suo volto quella idea mi sembrò una pura follia.
Vedemmo la partita sotto il sole delle tre del pomeriggio e a lei chiaramente non interessava il calcio, così ogni tanto mi sentivo in dovere di parlarle ma cercavo di restare concentrato sullo schermo. 
Non avevo il minimo sospetto di quello che sarebbe accaduto.
La partita prese la peggiore piega possibile, l’Italia finì per perderla  e uscire dal Mondiale.
La portai a mangiare un gelato come promesso.
Il gelato più lungo della mia vita: restammo ore seduti sulla panchina mentre centinaia di gusti dei passanti si scioglievano al sole del giugno romano.
Poi  andammo a cena, il mio amico Davide, con cui avevo visto la finale dei Mondiali quattro anni prima, mi mandò un messaggio per commentare la umiliazione subita.
A casa sua,  nel 2006, eravamo un sacco di persone, accanto a me c’era Ade: fu divertente e stancante, alla fine della partita non avevamo quasi la forza di festeggiare.
Risposi a Davide che ero a cena con una ragazza argentina, mi accennò alla sconfitta di Napoli del 1990, non avevo dubbi che l’avrebbe fatto.
La delusione per la uscita dal Mondiale era già completamente svanita.
Il giorno dopo la riportai di nuovo a Villa Borghese, di sera, con una coppia di miei amici.
Questa volta passammo quasi tutto il secondo tempo a parlare di argomenti fuori luogo, cose tipo come l’arte contemporanea sia completamente asservita alle regole del mercato.
Se bluffammo tutti e due, lo facemmo benissimo.
I Mondiali continuarono, io andavo da solo a Villa Borghese mentre lei era in Sicilia dal padre, le telefonavo prima di ogni partita, lei teneva sempre alto il tono della conversazione, anche se a volte le esigenze dell’innamoramento lo spingevano opportunamente in basso.
Eravamo assieme quando si giocò la finale del Mondiale Spagna-Olanda, stavamo sul divano e lei si annoiava, guardammo la prima mezzora, poi non resistetti alle sue provocazioni.
L’amore accadde lentamente, molto lentamente, finimmo da qualche parte. Quando tornammo, la partita era finita da un pezzo, malgrado fosse proseguita fino ai supplementari.
Non mi era mai capitato di perdermi una finale dei Mondiali.
Avevamo fame, andammo a mangiarci una pizza, lei aveva una dolcezza che non le apparteneva, che veniva dallo spazio forse.
Qualche giorno dopo mi disse che quella sera della finale aveva scelto.