martedì 28 agosto 2012

Contro semaforo


Il tizio affianco a me sopra una Mercedes scoperta da 80000 euro ascolta una canzone di Sting, era su un disco che ebbe molto successo, c’erano anche un paio di duetti con Eric  Clapton, ballate lente con arrangiamenti facoltosi, tristezza fuori moda, anni ’90.
Ha i capelli lunghi alle spalle, è stempiato alla nuca, ha il pizzetto che portavano certi artisti di Roma qualche  tempo fa.
Potrebbe essere un ex attore, un figlio di imprenditore, è triste, guarda nel vuoto al semaforo.
È mio fratello anche se non lo sa.
A lato vengo sorpassato da una Alfa rossa aggressiva nel cambio di marcia, a lato una ragazza carina e con esperienze sporadiche di cocaina, è acconciata come molte universitarie carine italiane, non me lo farebbe venire duro magari abbia tutto per eccitarmi, mi fissa male e non si sente mia sorella.
A guidare la macchina un tizio sbarbato di fresco, dietro il collega di sinistra, pizzetto e barbetta.

A medio volume una canzone recente di Capossela che probabilmente il ragazzo apprezza e incita mentre quello al volante tollera a fatica, soltanto per compiacenza.
Quello davanti si scopa la tizia al suo fianco, la tizia forse si scopa tutti e due, continuano a osservarmi perché la carrozzeria della mia  auto è sporchissima, tinteggiata di escrementi di uccelli metropolitani, è un auto che non ha alcun fascino, ha montato su perfino il gpl.
Decido di non guardarli e alzo la canzone che sto sentendo alla radio, un vecchio pezzo romantico di Luca Carboni.
Carboni  è sottovalutato, mica lo considerano come Capossela.
Alzo il finestrino non per il caldo di questa notte di agosto ma perché voglio inscenare una disputa sonora fra le tre canzoni, voglio che le onde sonore si mescolino in un semaforo qualunque di viale Parioli.
Riguardo di nuovo il borghese con pizzetto, non sembra accorgersi delle musiche altrui e nemmeno del brano suonato dallo stereo della sua auto perfettamente armonizzato con il suo volto
Scatta il verde, il tizio parte con più dolcezza dell'Alfa, resto buono terzo, non potevo fare di meglio con la mia ripresa lenta
Si allontanano le parole di Sting, il ritornello dice it’s probably me, c’è malinconia come nel brano di Carboni, ma è posticcia e non è colpa solo della lingua che non padroneggio abbastanza.
Il tizio è lontano, non so cosa cerchi nella notte.


venerdì 24 agosto 2012

Contro le bancarelle sul Tevere



Il Lungotevere è occupato dalle bancarelle per l’estate.
E' la stagione in cui la gente veste peggio e mostra le sue debolezze senza ritegno.
Lei chiede al ragazzo se la prossima volta vanno a Porta di Roma, al centro commerciale.
E’ mora, alta, ha spalle e braccia robuste, lui è rasato, ha un tatuaggio sul braccio, le dice sì certo amò con inflessione romana .
Stanno assieme da poco, mi passano accanto.
Camminano uno accanto all'altro, sono annoiati senza nemmeno rendersene conto, pigri e indolenti come decine di coppie che si abbracciano con occhi vuoti.
Coppie borghesi, coppie povere, impiegati, professionisti, tutte ugualmente amanti per rassegnazione, paura, mi fanno pena, il loro futuro è disseminato di figli e uscite domenicali.
Le bancarelle etniche continuano a vendere collanine, ci sono posti per ogni gusto: narghilè. sushi, birre artigianali, i due restano un po' perplessi ma si tuffano avidamente sulle novità etniche con una curiosità da scimmie, brontolano commenti, conoscono poche parole ma il problema non è mai il linguaggio.
Dall'altra parte del Tevere due punk a bestia stanno distesi e abbracciati mentre un cane poco lontano li guarda.

Vivono appena cento metri più in là sfruttando il calore e qualche moneta della manifestazione, al ridosso della pista ciclabile su cui sfrecciano i ciclisti contenti della loro scelta con una sensazione di superiorità etica incompatibile con i loro tragitti quotidiani.
I due stavano piangendo perché un loro amico si era buttato di sotto poco prima, esattamente ventiquattro ore dopo che la sua compagna aveva perso l'equilibrio dopo un litigio.
Non aveva retto al senso di colpa.
Non potevamo saperlo, quando ripassiamo cinque minuti dopo ambulanze e carabinieri hanno acceso le sirene, ma sono fermi, passivi, significa che tutto è finito, in un modo o nell’altro tutto finisce sempre
Il giornale mi comunica il giorno dopo che il tizio è in fin di vita.
Frattura cervicale, forse sopravviverà ma sarà conciato male, il giornalista scrive il pezzo con l’asciuttezza che gli hanno insegnato l’esperienza o le scuole dei loro maestri idioti.

Spesso ho guardato con diffidenza i punk a bestia, li ho sentiti distanti mentre cercavano con poca convinzione di estorcermi qualche spicciolo.
Ai loro occhi ero uguale a tutti gli altri, questo mi dava fastidio, non ero altro che una macchina che emette occasionalmente qualche moneta.
È la stessa sensazione che provo con tutti gli esclusi, i lavavetri, i mendicanti, gli zingari, vorrei poter parlare loro da uomo a uomo e invece abbasso lo sguardo e passo oltre.
Dall'altra parte del Tevere tutto è continuato, la gente beve birrette, alcune turiste sono vestite come troie e come troie si guardano attorno, americane che cercano di rivivere esattamente le parole delle canzoni estive alla Kate Perry.
Non sanno nulla dell'amore, prima o poi si sposeranno con uno che la pensa come loro sulla vita.

Oggi ripenso ai due che il giornale definisce sbandati con il tono paternalistico che mi fa rabbrividire, il loro amore disperato e senza stabilità ha molto più a che fare con l'amore che posso sentire oggi o in qualsiasi altro momento.



venerdì 29 giugno 2012

Pro Italia


Il suono dei clacson mi ricorda l'82, avevo sei anni, le piazze non erano pedonali come ora, le auto ci finivano dentro, ci parcheggiavano, in alcuni film addirittura scendevano le scalinate di trinità dei monti, non c’era il sacro rispetto dei burocrati.
E’ un suono rassicurante e antico, lontano dai suonini digitali dei nostri giorni, è bello come quello dei tamburi che si improvvisavano nei sedili posteriori delle auto, non mi aspetto che lo capisca una come Melissa P.
Lei vive a piazza Vittorio e fa la borghese acquisita merito libri mediocri, fuma erba e fa gli oroscopi, si innamora dieci volte al giorno, così sostiene, tiene il rapporto con i suoi migliori lettori aggiornando continuamente il profilo di Facebook e rispondendo alle loro battute con altre battute.
Si lamenta dei clacson, è abituata ai suonini digitali del suo I Phone e del suo computer che usa per correggere precisamente e inutilmente la punteggiatura del suo ultimo romanzo.
Lei se ne sta lì organizzando cene, preparando ricette mediterranee ed invitando una ristretta cerchia di amici a provarle.
Snobba l'atleta da cui vorrebbe farsi penetrare, prende in giro l'abbigliamento medio come facevo io quando avevo venti anni, è ossessionata dalle calzature maschili come indice di declino.
C’è poco trambusto a Roma stasera, troppo poco, troppi popopo, troppi ritornelli e e cori forzati, è divertente vedere un tipo esultare con la bandiera sopra il fascio, beve un terribile intruglio giallastro, un caldo limoncello rinforzato, si inchina al nero oggi e nemmeno se ne rendo conto.
Il titolo della gazzetta ha una foto, sopra Balotelli a petto nudo e sotto è scritto orgoglio italiano.
Quelli di Repubblica fino a dieci giorni fa attaccavano il declino del calcio italiano e Buffon, ora fanno marcia indietro per vendere giornali.
Melissa scriverà status sulla decadenza dei costumi mentre altri diranno è solo calcio, come se il calcio fosse nulla, alcuni  la crisi.
Anche a Pertini nel 1982 chiesero è giusto festeggiare visto il momento che viviamo.
La crisi c’era anche allora, cambiano solo le forme in cui si manifesta.
Pertini si arrabbiò e scuotendo la pipa disse “Perché bisogna sempre pensare al male? Stasera festeggiamo, tutti hanno diritto di festeggiare ogni tanto no?”

Pro Italia


ll suono dei clacson mi ricorda l'82, avevo sei anni, le piazze non erano pedonali come ora, le auto ci finivano dentro, ci parcheggiavano, in alcuni film addirittura scendevano le scalinate di trinità dei monti, non c’era il sacro rispetto dei burocrati.
E’ un suono rassicurante e antico, lontano dai suonini digitali dei nostri giorni, è bello come quello dei tamburi che si improvvisavano nei sedili posteriori delle auto, non mi aspetto che lo capisca una come Melissa P.
Lei vive a piazza Vittorio e fa la borghese acquisita merito libri mediocri, fuma erba e fa gli oroscopi, si innamora dieci volte al giorno, così sostiene, tiene il rapporto con i suoi migliori lettori aggiornando continuamente il profilo di Facebook e rispondendo alle loro battute con altre battute.
Si lamenta dei clacson, è abituata ai suonini digitali del suo I Phone e del suo computer che usa per correggere precisamente e inutilmente la punteggiatura del suo ultimo romanzo.
Lei se ne sta lì organizzando cene, preparando ricette mediterranee ed invitando una ristretta cerchia di amici a provarle.
Snobba l'atleta da cui vorrebbe farsi penetrare, prende in giro l'abbigliamento medio come facevo io quando avevo venti anni, è ossessionata dalle calzature maschili come indice di declino.
C’è poco trambusto a Roma stasera, troppo poco, troppi popopo, troppi ritornelli e e cori forzati, è divertente vedere un tipo esultare con la bandiera sopra il fascio, beve un terribile intruglio giallastro, un caldo limoncello rinforzato, si inchina al nero oggi e nemmeno se ne rendo conto.
Il titolo della gazzetta ha una foto, sopra Balotelli a petto nudo e sotto è scritto orgoglio italiano.
Quelli di Repubblica fino a dieci giorni fa attaccavano il declino del calcio italiano e Buffon, ora fanno marcia indietro per vendere giornali.
Melissa scriverà status sulla decadenza dei costumi mentre altri diranno è solo calcio, come se il calcio fosse nulla, alcuni  la crisi.
Anche a Pertini nel 1982 chiesero è giusto festeggiare visto il momento che viviamo.
La crisi c’era anche allora, cambiano solo le forme in cui si manifesta.
Pertini si arrabbiò e scuotendo la pipa disse “Perché bisogna sempre pensare al male? Stasera festeggiamo, tutti hanno diritto di festeggiare ogni tanto no?”


lunedì 7 maggio 2012

Contro burocrazia




L‘impiegato ha sessant’anni, grossa stempiatura davanti, capelli bianchi che ricadono sulla nuca in ciocche irregolari.
Ha occhiali di radica spessi, marroni, sono contemporanei, di lato il marchio Rayban ad attestare la loro natura vintage, ma sopra il suo volto sembrano gli occhiali autentici di un impiegato della sua età in altri tempi.
Occhiali di un impiegato di sessant’anni negli anni ’70.
Anche gli abiti hanno un taglio datato: la giacca di grisaglia grigia, la camicia bianca inamidata, la cravatta dalle tinte volutamente smorte con colori che si intonano male.

L’ufficio posta è moderno, ha luccicanze bronzee, l’illuminazione è curata come se fosse un franchising, una specie di autogrill della burocrazia.
I numerini vengono fuori uno dopo l’altro con impeccabile precisione, segnalati su display, l’informatizzazione qui funziona e  la fila non è lunga, eppure mi prende la mia solita sottile inquietudine.
Devo pagare una multa e una bolletta, non ci sono complicazioni, posso farlo in contanti o servendomi della carta di credito, non ci sono discussioni da intraprendere ma la cosa mi atterrisce.
Il mio rapporto con la burocrazia di qualsiasi tipo, in qualsiasi forma, avrebbe bisogno di uno psicoanalista.
Ogni volta che devo andare in un ufficio pubblico, sia esso statale, regionale, circoscrizionale, mi deprimo.
Non mi lamento da cittadino sulle inefficienze, sulla pigrizia e la  poca voglia di lavorare dei dipendenti pubblici, non ci sono mai reprimende qualunquiste.
Non mi arrabbio, resto seduto ad aspettare il mio turno e ad osservare i volti delle persone con le loro ricevute in mano proprio come me, le sedie gialle piegabili che scattano come quelle dei pronti soccorso.
Divento catatonico, se ho un libro non lo leggo, inizio a programmare per distrarmi viaggi in posti dove non ci possa essere traccia di strutture che ti offrono un servizio ed esigono la tua attenzione.
Sogno il deserto.
Rifiuto di essere considerato cittadino, di essere inglobato in qualcosa in cui forse non ho mai creduto.
Certificati da stampare, fototessere da portare, parole da scambiare con l’impiegato allo sportello che da tempo ha esaurito la sua scorta di empatia e non ha alcuna voglia di mettersi nei tuoi panni, ne ha tutte le ragioni del mondo.
Mio padre invece è sempre stata bravo nel gestire queste cose, addirittura gli piace, cosa che mi è sempre parsa misteriosa, tenere documenti, controllare che tutto sia a posto.
Con precisione cataloga ogni documento in cartelle di vari colori, ogni tanto le apre e ne legge il contenuto con una lente d’ingrandimento.
Spiana sul tavolo di vetro del soggiorno ogni ricevuta, le spilla con precisione, conserva vecchie carte che possono sempre venire utili ed infatti lo stato per anni ti chiede prove della tua innocenza, dei tuoi pagamenti, ti tiene schiavo alle sue scadenze, ti obbliga ad essere informato, non accetta la vita alla giornata.
Lo stato è sempre autoritario, in manifestazioni che i cittadini buoni si rifiutano di affrontare.
E’ autoritario quando prende ma anche quando dà.
Non è per chi vive d’impulso, supporta e sostiene chi vive sulla base della volontà e dell’organizzazione.
Crea fra te e il mondo reale un’intera categoria di mediatori.
Avvocati, commercialisti, con cui mio padre ha confidenza.
Vuole avere il controllo su quello che osservatori troppo superficiali come me chiamerebbero scartoffie.
Forse perché nelle scartoffie ci ha anche lavorato essendo un funzionario, il tavolo del suo ufficio era sempre occupato da pratiche.
La gente veniva a casa portandogli le lettere che arrivavano dallo stato e che non comprendevano.
Erano quasi analfabeti, parlavano solo in dialetto, erano intimiditi perfino da me che andavo ad aprirgli la porta ed ero un bambino ma pur sempre il figlio del dottore.
Avevano in mano delle buste di plastica con dentro scarole spinaci, salsicce, prodotti dei loro orti, quasi mai erano contadini professionisti, erano grandi dilettanti, sapevano usare alla perfezione diserbanti e concimi.
Si fermavano davanti alla porta, con guance rosse conseguenza di bevute del loro vino paesano pieno di zolfo, squilibrato, che si ostinavano a fare anche se il terreno delle nostre colline non è adatto, chiedevano se c’era mio padre, nel caso in cui non c’era
lasciavano le buste ed io sussurravo un grazie
Sarebbero ritornati per sottoporgli le loro domande, avevano mani callose, sembravano molto più vecchi della loro età, portavano cappelli consumati e dignitosi, non mi rendevo conto allora che sarebbero spariti per sempre, loro e I loro cappelli, che i loro figli li avrebbero rinnegati pur tributandogli un omaggio convinto nel momento delle loro dipartite.
I figli ogni tanto venivano ad accompagnarli e già erano un’altra generazione, avevano magliette e pantaloni che imitavano i marchi di successo, scritte in lingue straniere che non sapevano pronunciare, alcuni di loro erano geometri e ragionieri, quasi nessuno riusciva ad andare all’università, aspiravano ad un impiego pubblico, ad un lavoro in banca, all’ingresso nel campo del terziario.
Iniziavano a dimenticare quello che i genitori gli avevano insegnato da piccoli sulla coltivazione, i loro campi presto sarebbero andati in malora, sarebbero diventati spazio per autovetture, metri quadri per costruzioni pencolanti di dubbio uso, vuoto da riempire con inoffensivi abusivismi suburbani. 

giovedì 3 maggio 2012

Contro il concerto del primo maggio


L’ultima volta  che sono stato qui era dieci anni fa.
Ora ci sono passato perché volevo vedere la faccia della gente che c’è.
È pieno di calabresi, pugliesi, campani, come sempre, arrivano con autobus, treni; per due giorni, all’andata e al ritorno, eviteranno accuratamente di dormire.
Quelli che hanno fatto la nottata viaggiando li riconosco dall’aria stanca e annoiata, sono seduti sul marciapiede, hanno capelli ben sistemati come se fossero venuti ad una festa, chissà cosa si aspettavano, da cosa sono rimasti delusi.
I fuori sede si distinguono perché conoscono il territorio, si mostrano comprensivi con i loro amici venuti da fuori, sanno come comportarsi in piazza, conoscono i trucchetti per vivere al meglio la loro gioventù.
Sul palco c’è una cantante italiana vestita come Amy Winehouse, ventenni con fattezze da mezzo ribelli conoscono a memoria le parole delle sue canzoni e non hanno vergogna di pronunciarle, non pensavo che fossero così sentimentali.
Suonano i soliti gruppi, quelli che spacciano il rock come qualcosa di rivoluzionario, sono i primi a non crederci.
Ci sono rapper che iniziano  a diventare vecchi per rappare, front man di gruppi che iniziano a diventare vecchi per portare ancora i capelli lunghissimi sulle spalle, ogni anno  un cantante proveniente dal panorama fumoso dell’indie  vince il biglietto per salire sul palco e cerca di sfruttare al massimo il suo momento.
Anche nella periferia della piazza  dove la musica si sente malissimo, il selciato è coperto da bottigliette di birra.
Bevono molte più birrette questi ventenni di quanto facevamo noi.
Sto girando dal pomeriggio in feste varie, in centri sociali, locali, ovunque c’è una allegria che mal si concilia con gli allarmi gridati sui giornali da politici, sindacalisti e opinionisti.
Ogni volta che per caso m’imbatto in un articolo in cui qualche esperto ci racconta la crisi non posso fare a meno di pensare quanto fatturano al Corriere e Repubblica,  quanti soldi riescono a guadagnare con la loro reputazione di esperti economici, se abbiano un contratto forfettario oppure se siano pagati a cartella.
Quanto i loro articoli siano propedeutici alla pubblicazione successiva di libretti divulgativi molto richiesti dalle case editrici.
Ultimamente giornalisti, sociologi e filosofi si specializzano nella interpretazione della crisi, vanno dove girano i soldi, vi trovano la loro realizzazione esistenziale.
Questi ventenni sono nati con la crisi, da quando erano bambini hanno ascoltato Santoro che monologava di cassaintegrati e gente che non arrivava a fine mese, ormai sono anestetizzati quando il rapper dal palco pronuncia parole di troppo buon senso sugli operai.
Con la crisi ci sono nati, con la crisi moriranno qualsiasi cosa accada.

In ogni posto dove vado la musica che suonano non è contemporanea, perfino qui, la tizia che scimmiotta la Winehouse che a sua volta copia qualche cantante soul anni sessanta che non conosco.
pomposamente a un certo punto il conduttore legge in scaletta che il rock è la musica classica del nostro tempo, e un’orchestra inizia a fare un brano dei Led Zeppelin mal arrangiato.

I ventenni spesso hanno come gruppi preferiti i Beatles, i Queen, gli U2, non riescono ad essere contemporanei,  non vivono il loro tempo, favoriscono le reunion imposte dalle case discografiche che si fregano le mani perché la musica di catalogo dà soldi sicuri e non richiede nessun tipo di investimento.

Con le canzoni peggiori di Battisti che continuano imperterriti a cantare nei falò,  con il loro omaggio contrito a cantautori che dovrebbero dimenticare, se la stanno meritando tutta  la loro mancanza di prospettive.
Spero che ne traggano buon uso.

martedì 1 maggio 2012

Contro studenti


Sono appena arrivato a Cracovia da un viaggio più lungo del previsto.
La mia ospite aspetta due amici, si prospetta una sessione di conversazione in inglese, sono stanco ma proverò a sentirmi a mio agio.
Voglio che tutti si sentano a loro agio: io, gli altri, da anni ho deciso di seppellire la mia diffidenza, così ora dormo in case di sconosciuti ed ospito estranei completi.
I due amici arrivano, sono di un tipo che ultimamente ho imparato  a conoscere.
Parlano benissimo inglese, sono studenti, o se non lo sono, fingono di esserlo eternamente, parlano continuamente del loro passato recente di studente, di feste dove tutti hanno dormito per terra, fanno allusioni al sesso.
Le feste pero sono già più raccontate che vissute, si avvicinano alla trentina e nelle loro storie allegre si insinua la funerea prospettiva dalla serietà.
Si alzano presto la mattina, lavorano per multinazionali, dormono poco ma ancora per poco, prima o poi rischieranno di crollare e si accorgeranno di colpo che hanno bisogno di passare più tempo in casa tranquilli.
Da questa consapevolezza ad una storia fissa e stabile il passo è breve, per ora continuano a mantenersi giovani gestendo relazioni transitorie con messaggi al cellulare e mezzi sorrisi rivolti agli amici, mostrano una eccessiva serenità nelle loro storie ufficiose, detesto i loro scopamici.
Chi ha uno scopamico è un vigliacco, se deve essere occasionale il sesso deve esserlo per davvero, devi andare con uno e poi dimenticarlo, non c’e niente di più reazionario di avere un amante fisso con io quale instauri una noiosa confidenza.
Sono acuti come le serie televisive di cui si cibano, le conoscono tutte, quelle drammatiche, quelle comiche, da un pezzo io non le guardo più e  faccio fatica a stargli al passo, a comprendere le loro continue citazioni.
Dei suoi due amici il ragazzo all’inizio è scortese nei miei confronti, evita platealmente il mio sguardo mentre mi stringe la mano senza calore, è chiaramente innamorato della ragazza che mi ospita, le fa battute cattive alternate a tentativi di ingraziarsela.
Solo dopo, quando capisce che non c’è alcun pericolo, inizia  a comportarsi meglio, ma cerca comunque di mettermi in difficoltà chiedendomi continuamente se sono familiare con questo o con quello.
Sei familiare con South Park ? Conosci Big Bang Theory ? Un po’ fingo di essere familiare, un po’ ammetto le mie lacune, per essere così maledettamente giovane è piuttosto in gamba, ma ripete le battute che scrivono per lui sceneggiatori stranieri e nello stesso tempo si illude di essere abbastanza anticonformista da poter essere all’occorrenza perfino originale.
Dopo un’ora le sue frasi iniziano a diventare poco efficaci e mi cominciano ad annoiare.
Se parlassero fra loro in polacco almeno, potrei starmene ad occhi chiusi a farmi coccolare dai suoni di una lingua che non conosco, e illudermi che le cose dette siano più interessanti.
Invece devo restare concentrato perché sono così insopportabilmente educati e parlano inglese solo per me, mi perdo, poi recupero il filo del discorso, ogni tanto intervengo fingendomi partecipe ad una conversazione di cui non mi interessa nulla.
Ora parlano di lavoro, di studio, poi parlano di vini economici, di strani intrugli fatti con alcool puro e alcool denaturato, di cocktail da studenti che ti ubriacano con pochi soldi e senza accorgertene visto che essere troppo consapevoli per loro è comunque un difetto.
In ogni parte del mondo, Polonia, Francia, Svizzera, Norvegia, è lo stesso, questi studenti ed ex studenti finiscono per parlare di cinema, di prodotti audiovisivi, si mostrano a vicenda video buffi su You Tube, sono ossessionati dal divertimento e dallo svago, hanno bisogno di bere molto per scopare con meno inibizioni.
Fingono di non avere sensi di colpa, di essere emendati dal concetto di peccato, hanno vergogna delle paure materne.
Coltivano sempre dei sogni per pensare di fregare gli altri quando arriverà il momento in cui la vita li reclamerà a riprodursi: aprire un ristorante, essere completamente devoti a un principio, sia esso il veganesimo o la difesa delle piste ciclabili.
Lo so, sono bravissimi ragazzi,  aperti nei confronti del mondo, superficialmente curiosi, mi chiedono del mio paese, di piccole usanze, di stili di vita e difetti governativi, poi di colpo provano ad annullare tute le distanze come fanno le città con i  loro centri storici sempre più identici, tutti ugualmente patrimoni dell’Unesco.
Sono simpatici, il tizio ora ha smesso definitivamente di mettermi alla prova, sorride anche alle mie battute, cerca di essermi davvero amico, a suo modo, in modo transitorio, poco coinvolto, per queste due ore che siamo costretti a passare assieme.
So che non mi ha fatto nulla di male, che è mediamente buono, che è dalla parte giusta delle cose, però non posso fare a meno di detestarlo.
Più sono simpatici e più li detesto, preferirei che se ne stessero in silenzio a fissare il pavimento o le pareti.
Vorrei che mi stupissero.

giovedì 26 aprile 2012

Contro Auschwitz



Gli americani vanno al campo di concentramento come ad una scampagnata, due coppie una dietro l’altra in viaggio di nozze per la vecchia Europa come in un film di Woody Allen.
Una delle due donne dice qualcosa prima di partire al suo maritino perfettamente rasato, ha una voce brutta, come quasi tutte le  statunitensi.
Ho sempre odiato il loro tono di voce stridulo, da cornacchia, con cui manifestano quasi urlando il loro stupore, sempre recitato, da attori di provincia.
Ha smalto rosso sulle unghie e un orrendo anello vistoso sull’anulare, mi sembra poco appropriato per dove stiamo andando.
Qualsiasi cosa ad Auschwitz non è appropriata, non è appropriata la mia maglietta con stampato un Einstein dj davanti a due piatti con dei vinili sopra, non è appropriato avere con sé una macchina fotografica.
Forse per questo il piccolo rumore degli americani che visionano le loro foto e liberano spazio sulle schede di memoria mi sembra un caricamento di fucili in un plotone di esecuzione.
Sul pullman c’è un sottofondo di musica pop internazionale, passa un vecchio brano di Celine Dion, l’americana  inizia a canticchiarla a bassa voce, conosce tutte le parole. E’ una canzone di amore che finisce bene, una di quelle in cui i cantanti dichiarano il loro amore eterno a consorti di cui già sanno che inevitabilmente divorzieranno, non mi sembra affatto appropriata.
Ho in testa per tutto il tragitto una terribile canzone che aveva scritto Guccini su Auschwitz, me la fecero perfino imparare a memoria alle scuole medie, era scritta come se a cantarla in prima persona fosse un bambino morto che raccontava la sua vicenda, il suo arrivo nel campo ricoperto di neve, il ritornello diceva che era nel vento perché era stato bruciato nel forno crematorio.
Non ho mai capito chi scrive di cose che non sa: il cantante che racconta di guerre mai vissute, il giovane scrittore che pubblica un romanzo che ha come protagonista un partigiano nel ‘43, quella che si inventa di sana pianta nomi verosimili per una trama ambientata nell’Afghanistan contemporaneo.
Per questo non ho alcuna intenzione di capire cosa ha provato un bambino finito ad Auschwitz, quando ho visto delle foto in bianco e nero con questi sguardi smarriti di bambini che si tengono per mano e che sanno perfettamente cosa sta accadendo, ho potuto solo starmene in silenzio, ho dovuto solo starmene in silenzio.

Per tutta la strada verso Auschwitz scorrono dal finestrino  dolci pendii coltivati, qua e là appaiono e scompaiono i binari della ferrovia.
All’ingresso della città c’è una grande stazione con molti scambi e vagoni.
Non posso evitare di pensare che la stazione sia sempre ben attrezzata proprio come al tempo in cui fu installato il campo, da questo momento in poi ogni cosa sembra diversa.
Tutti gli edifici che mi sembrano costruiti negli anni ’30 ora mi fanno paura.
Caserme con mattoni di arenaria rossa, palazzetti dall’aria elegante, costruzioni che di solito esteticamente ammiro ora mi fanno venire i brividi.
Mi difendo cercando con lo sguardo capannoni in cemento armato o abitazioni mono familiari con finestre troppo strette, edifici tirati su dopo la guerra, più sono recenti e più mi calmano.
Nel parcheggio prima dell’entrata ci sono alcuni gruppi di scolaresche e molti militari di leva israeliani in divisa, sergenti dal corpo enorme e con occhiali da sole perennemente sugli occhi, il loro atteggiamento cattivo mi sembra l’unico giustificato.
In lontananza si avvicinano gruppi di israeliani anziani, ma facendo due conti non tanto da poter aver vissuto l’Olocausto, hanno in mano bandiere del loro stato, camminano parlottando fra loro.
E poi un sacco di americani, scendono da pullman con sopra scritte le città da dove arrivano.
Sono vestiti come americani in gita, male, con larghi pantaloni color cachi, le donne con cappelloni di paglia per proteggersi dal sole eventuale.
Hanno dei cartellini appuntati al petto, leggo i loro cognomi ebraici e mi aspetto da loro una sofferenza che non troverò.
Sono tanti Spielberg in libera uscita, per loro l’Olocausto è un film distante che parla di lontani parenti di cui qualcuno conserva in un cassetto delle foto e delle lettere spedite poco prima della fine.
Scrutano con un certo stupore e molta diffidenza gli israeliani e la loro faccia incarognita, sono troppo democratici.
Ci sono alcuni israeliani paralitici in carrozzella, vittime della questione mediorientale, scrutano l’orizzonte cercando nella sofferenza altrui un buon motivo per il loro vano sacrifico.
All’ingresso mi costringono a prendere una guida che non voglio, mi faccio anche consegnare anche un audioguida che non ascolterò e vado da solo in giro.
Prima però ci mostrano un documentario su Auschwitz realizzato negli anni Sessanta, si capisce dal tono della voce fuori campo ed anche dal modo in cui sono mostrati con benevolenza eccessiva i liberatori sovietici.
Soldati che sorreggono i sopravvissuti, medici che fanno di tutto per salvare le loro vite ponendoli ad accurati esami.
La guida in inglese che è stata assegnata a me ed altre cento persone non è polacca, ha l’accento americano, penso a come deve essere stato diverso Il campo prima del 1989 con solo polacchi e russi, senza nessun giovane statunitense venuto a lavorare come stagionale di lusso.

Il tizio ha la tendenza a colorare gli eventi, ad alta voce e con pausa volutamente teatrale dice immaginate cosa doveva provare un bambino che entrava qui, non riesco a immaginare nulla, nemmeno voglio e sono pressoché certo che neanche lui può riuscirci.
Lo guardo negli occhi, sta mentendo.
La cosa che più mi stupisce è il forno crematorio, non ha nulla di tecnologico,  come mi aspettavo per colpa di tutti i film dove i nazisti sembrano scienziati crudeli e rispettabili, perfetti esecutori di sentenze con provette di veleno e sostanze chimiche dosate.
Sembra un macello per animali e penso che un giusto film dovrebbe mostrare i soldati nazisti per quello che erano, massacratori senza alcuna intelligenza misteriosa.
Una coppia posa per una foto davanti al filo spinato di una recinzione, sono sorridenti, contenti del loro viaggio nella vecchia Europa dei loro nonni e bisnonni, li sento parlare, sono argentini.
Solo dei sudamericani possono avere una tale mancanza di tatto ma li comprendo, gli manca completamente il senso della storia, non hanno vissuto la guerra, i loro antenati sono scappati prima o dopo, sono contenti di essere sopravvissuti e vivi.
Non è appropriato avere fame ad Auschwitz ma a una certa ora il mio stomaco non resiste e così entro dentro la mensa self service di fianco all’ingresso.
È un bel posto, se può esistere un bel posto in un luogo del genere, ha la sobrietà estrema di una caffetteria a buon mercato, hai l’illusione che nessuno ci stia guadagnando più del dovuto.
Le signore che ti servono parlano poche parole di inglese giusto per comunicarti i nomi delle pietanze, hanno cuffie bianche in testa, sono cinquantenni bionde dalla faccia paffuta, servono cotolette di maiale, come contorno barbabietole o purè di patate.
Mi piacciono queste donne dell’est che non sono al passo con i tempi.
Mangio con colpevole gusto.
Il piatto glielo porti tu sull’uscio della cucina quando hai finito.
Una ragazza giovane che lavora come lavapiatti fa due passi e ti prende il vassoio sorridendo muta.
Grazie a loro non mi sento in colpa.

mercoledì 25 aprile 2012

Contro i bombardamenti


Stiamo uscendo dal mercato.
Un signore con i baffi e i capelli ugualmente bianchi si rivolge a Karolina in polacco.
Chiede se sappia dirgli cosa c’è scritto sul paio di jeans che intende comprare.
E’ una parola che gli suona inglese e lei probabilmente conosce l’inglese in quanto giovane.
E’ interessato alle scritte che ci si porta addosso, non come quei giovani idioti che si mettono qualsiasi marchio sul petto senza rendersi conto di diventare macchiette viventi.
Karolina gli dice con un sorriso che è inutile preoccuparsi troppo della nazionalità della scritta visto che è tutto prodotto in Cina, il signore risponde che non è d’accordo e cortesemente le fa notare che non tutto sarà cinese per sempre, anzi che le cose stanno già cambiando.
Stanotte hanno fatto un accordo, non ha sentito signorina?, continua, russi e americani sa, hanno fatto un accordo e da domani le cose cambieranno.
Non so niente dice Karolina, non vedo la televisione, non leggo i giornali.
Fa male signorina, fa molto male, dice il signore.
Stiamo camminando per strade larghe e assolate e non sappiamo nulla dell’accordo fra russi e americani.
Mi piace pensare che domattina ci sveglieremo e qualcuno ci comunicherà la notizia in un modo qualsiasi, magari gridandolo al megafono,  sarebbe semplice se ci fossero accordi chiari a delineare un prima ed un dopo ed invece i giornali sono solo approssimazioni continue che non portano da nessuna parte.

Varsavia è bella, non  è vero che l’architettura sovietica sia brutta, i palazzi non sono nemmeno palazzoni, sono più larghi che alti, non sono tutti grigi come mi dicevano quando ero bambino e guardavo le previsioni del tempo per le capitali della città dell’Est.
Negli anni ‘60 e ‘70 Varsavia poi era piena di neon , Varsavia era la città dei neon, ce n’erano di tutti i tipi: viola, rossi, lampeggianti, sono stati smantellati impietosamente dopo il 1989, qualcuno ha pensato che fossero eccessivi, l’hanno sostituiti con insegne neutre dall’aria falsamente contemporanea.
Varsavia è diversa perché è ferita molto più di ogni altro posto che abbia mai visto.
Durante la Seconda Guerra Mondiale sono morti milioni di persone e sono stati distrutti l’85 per cento dei palazzi,  è stata la città più distrutta.
Sui nostri quartieri sono cadute pochissime bombe in confronto e la memoria scorre senza tracce visibili se non nei monologhi civili e progressisti di certi attori.
I discendenti dei sopravvissuti mangiano e bevono a San Lorenzo a Roma o sui Navigli a Milano, posti buoni per pizzerie, bisteccherie e localini che cambiano ogni dieci anni arredo e proprietario.
Hanno subito tante stratificazioni che il ricordo della guerra è pura immaginazione  o delirio, il bar all’angolo con il bancone di metallo negli anni ‘90 era un pub di legno ed irlandese, negli anni ’80 paninoteca con quadri colorati alle pareti, e prima ancora bar con specchi opachi o trattoria speranzosa ai tempi della ricostruzione.
Varsavia è stata rasa al suolo durante la guerra perchè la città si era doppiamente ribellata ai nazisti.
Prima si erano ribellati gli ebrei trucidati nel ghetto e dopo l’intera città per dimostrare che poteva liberarsi da sola senza il bisogno delle truppe sovietiche.
È stata davvero rasa al suolo, non metaforicamente come dicono i giornalisti quando vogliono ottenere maggiore attenzione per i loro titoli.
Distrutta palazzo dopo palazzo, i ponti sul fiume fatti esplodere, ammazzati donne, bambini, uno dopo l’altro, uno in fila all’altro.
Da noi hanno ricostruito, qui hanno costruito da zero, la differenza è abissale.
Da quando ho cominciato a interessarmi alle case, non riesco a fotografare che quelle: edifici, finestre, cortili, è così difficile fotografare gli uomini, anche le facce interessanti, soprattutto quelle, sono troppo timido e non ho un teleobiettivo abbastanza spinto per rubare le loro espressioni.
Karolina mi consiglia anche ascensori e scale, mi porta a vedere i suoi posti preferiti.
Uno è un cortile dove al centro hanno messo un razzo, grigio e rosso, senza alcuna magnificenza, di latta, corroso dal tempo, sembra nato già senza ambizioni, magari negli anni Settanta, quando i sovietici avevano perso la loro sfida spaziale contro gli americani e la fiducia nel futuro era diventata una necessità burocratica.
Varsavia è in fiamme inizia così il filmato girato dagli stessi insorti in quelle poche settimane in cui sembrava possibile sconfiggere le truppe tedesche, lo proiettavano in un cinema del centro che era rimasto miracolosamente ancora in piedi.
Immagino una folla piena, posti a sedere tutti occupati, gente in fondo che si sporge dalle spalle altrui per vedere, tutti sanno benissimo che le cose si stanno mettendo male e si piazzano comunque davanti allo schermo, fissano la loro vita distrutta in bianco e nero, vanno imperterriti ad assistere alla proiezione, non come fate voi con le vostre storie finte il sabato sera.

Palazzi in fiamme, tentativi di spegnere incendi che non vanno a buon fine per colpa della carenza d’acqua, cavalli uccisi e macellati per poter sfamare la gente.
Gli ultimi tre cavalli, dice il filmato, cavalli in salute che ancora galoppavano.
Guardo il filmato in un museo colmo di fotografie con didascalie molto informative, troppo, l’accumulo di dati e vicende mi confonde, quelle riprese di guerra sono il vero appiglio con la realtà, con i cortili che mi porta a vedere Karolina.
A un certo punto mostrano dei nazisti fatti prigionieri, la voce fuori campo dice che a differenza della brutalità delle SS loro trattano bene i prigionieri, e si vede un barbiere che taglia i capelli ad un soldato in divisa nera.
I barbieri servono sempre, anche in mezzo a una catastrofe, la presentabilità delle facce diventa elemento di dignità imprenscindibile.

Karolina mi dice che dal suo appartamento all’ultimo piano, da una finestra vede Parigi, dall’altra New York.
Ne ha di immaginazione, le dico, e di quella buona.
Dalla finestra del cortile ci sono palazzi bassi e alberi, da quella della camera da letto grattacieli di vetro ordinari, sopra insegne di quelle che da noi sono quasi sparite, tipo quella della Coca Cola in cui si accende prima la c, poi la o, e così via, oppure un enorme omino Michelin sorridente.

Ha vissuto in Africa, Perù, Brasile, ha fatto la burattinaia, ha suonato la fisarmonica, ha finto di saper ballare la capoeira in una cittadina vicino New York riscuotendo successo insperato da parte degli americani che sanno solo e sempre dire great quando non capiscono cosa sta succedendo attorno a loro.
Non ha alcun difetto di chi viaggia molto, e si ritiene per questo migliore dell’altro.
È tornata a Varsavia ed è felice per il ritorno, mi parla del suo anno in Brasile senza il facile entusiasmo degli adoratori del Sudamerica a tutti i costi.
È stata in una regione dove tutti le parlavano sempre di soldi e mangiavano ogni giorno grandi grigliate di carne, stupidamente fieri di potersela permettere.
Varsavia è bella perché cambia di continuo, mi dice, perché ci sono dei vuoti e delle incoerenze dovute al passaggio dell’uomo che qui è ancora visibile nel bene e nel male.
Palazzi con le finestre divelte rimasti così da quando qualcuno li ha sventrati, strutture pericolanti dove persone sono andate a vivere trasformando eventualità di crollo in case dove potersi amare.
In un palazzo vicino alla stazione hanno appeso enormi foto alle finestre, gente che ci ha vissuto ed è stata uccisa in ogni possibile modo, al primo piano uomo con barba e sguardo severo, al terzo donna con cappello in testa e occhi scuri, al quinto un ragazzino dall’aria furbetta.
Le finestre sono orbite vuote, nel palazzo dall’altra parte della strada ci sono grossi lavori di ristrutturazione, fino a poco tempo fa, mi dice Karolina, c’erano le stesse orbite vuote, e identiche enormi foto alle pareti.
Qualche società l‘ha comprato e ci sta ricavando degli appartamenti dove qualcuno ci andrà a vivere e dovrà sapere il meno possibile, i fantasmi abbassano il prezzo al metro quadro.
Stiamo camminando sui morti, è vero ovunque ma qui è diverso.
Al museo ho letto una cosa che mi risuona in testa.
Quando ci furono i primi morti durante la rivolta del 1944 si celebravano funerali quasi maestosi per commemorare l’eroismo dei caduti, dopo non c’era più tempo per i rituali e i funerali divennero sempre più rapidi, le preghiere si accorciavano fino a quando non c’era nemmeno più tempo per seppellire adeguatamente i morti, non c’era nemmeno più tempo per un amen.
Sono arrivato a Varsavia da Cracovia che è perfetta e medievale, sembra identica a se stessa da sempre, la città giusta per farci nascere un Papa.
A Varsavia tutto può cambiare, mi dice Karolina, questo le piace, essere nel posto dove è nata ed assistere ai cambiamenti, anche a quelli piccoli che la fanno sentire viva.
E particolarmente esperta in luoghi piccoli, mi porta a vedere un posto surreale dove puoi osservare vecchie foto da uno spioncino, l' effetto è perfettamente tridimensionale d, si chiama fotoplastico, l’hanno inventato a metà dell’800, o assistere al concerto meno affollato del mondo.
I musicisti si siedono dentro l’apparecchio circolare e suonano mentre tu guardi vecchie foto, il pubblico massimo è quello degli spioncini disponibili.
Mi indica l’edicola più piccola di Varsavia e mi porta a visitare il cortile più stretto, quello di un edificio comunale dove alla guardiola c’e un poliziotto annoiato che deve vigilare su tassi alcolici e  e liti dei condomini.
Tornati a casa, ci siamo dimenticati dell’accordo russo-americano di cui ci ha parlato il signore al mercato, non controlliamo nemmeno se sia una completa fantasticheria o se sia un delirio basato  su un evento trascurabile, tipo quei summit che si tengono ogni tanto fra due paesi, in cui ci si promette sempre genericamente un rafforzamento delle relazioni commerciali e ci si dichiara amicizia incondizionata. 
Il signore l’accordo probabilmente lo ha sognato, eppure oggi la sua ipotetica attualità è l’unica che potrebbe davvero interessarmi.