venerdì 30 settembre 2011

Contro il censimento



Sul parabrezza della mia auto qualcuno ha lasciato una frase del Vangelo.
Non è un opuscolo dei Testimoni di Geova o della Chiesa Evangelica, non è un foglietto stampato ad alta tiratura per fini di conversione, è un pezzo di carta strappato a mano, qualcosa di unico e disperato.
Sopra queste parole in grassetto: Tu non mi hai invocato, dice il Signore.
Quindi Isaia e un numero di quelli che hanno i passi, tipo 14, 3 o 11, 8.
Non so proprio chi lo ha potuto mettere, guardo sui parabrezza e sui lunotti posteriori delle auto parcheggiate vicino, ci sono i soliti annunci di appartamenti e i depliant promozionali di palestre e nuovi negozi.
Mi sento un prescelto.
Da molto tempo non invoco più la parola di Dio.
Quando ero bambino parlavo con Dio prima di dormire, chiedevo consiglio su questioni pratiche ed esistenziali, è una cosa che ho continuato a fare con sempre minore convinzione anche successivamente, quando ormai avevo lasciato il cattolicesimo e il mio dio aveva contorni sfumatissimi e umani.
Dopo l’ho sostituito con una specie di complicato parlamento.
Sono diviso in tre grandi me stessi che hanno opinioni diverse sul mondo, ma spesso si creano ulteriori frammentazioni.
Difficile individuare di volta in volta alleanze e conflitti, quando fanno troppa confusione di solito decido di instaurare una dittatura transitoria.
La democrazia non è un vantaggio per la mente.
Da sempre anelo l’anarchia e l’eliminazione dei miei partiti politici, vorrei procedere in automatico, senza eccessive riflessioni e senza dover vagliare le conseguenze nell’immediato futuro.
Vivere senza passato.
Nella cassetta della posta oggi è arrivato il modulo del censimento.
Il censimento vuole sapere cosa stai facendo e cosa hai fatto nel recente passato, anche se si tratta di compilare dati apparentemente freddi è contro l’anarchia.
Mi fa venire in mente quello di Betlemme all’epoca della nascita del Bambino Gesù, frammenti sparsi della mia educazione cattolica vengono fuori quando meno me l’aspetto.
Il censimento ora è informatizzato e statistico, ma è una delle pratiche burocratiche più antiche mai esistite.
Insopprimibile il bisogno di contarci: quanti siamo, chi siamo, che progetti concreti abbiamo.
Il censimento mi mette in difficoltà, anche se ci vogliono cinque minuti per compilarlo, per fortuna da noi non viene un addetto a domandarti le cose di persona, come accade ancora a Buenos Aires.
Quando ero lì c’era il censimento, sembrava una questione  di orgoglio nazionale: grandi poster nelle strade, spot in televisione, lo promuovevano come un ulteriore mezzo per migliorare l’economia.
L’economia lì ha maggiore importanza che da noi, è una cosa complicata da spiegare, sono ossessionati dalla crescita e dal Pil, sono perfetti capitalisti antistatunitensi.
L’imperativo è spendere tutto quel che si ha, sempre e comunque.
Rate per acquistare qualsiasi cosa, perfino i calzini, grandi campagne pubblicitarie per incentivare l‘acquisto di regali in occasione di feste consumiste come quella della mamma, dei nonni.
Il nostro modo di comprare è decisamente più salutare ma non ne siamo coscienti, ci battiamo il petto rimpiangendo esistenze più semplici.
Il giorno del censimento a Buenos Aires era uno solo, la gente doveva rimanere a casa ad aspettare la visita degli addetti, docenti e impiegati statali opportunamente formati per il compito.
M. era contro il censimento, mi aveva spiegato in modo un po’ fumoso che era una forma di controllo del governo peronista, non avevo approfondito molto, lei era contro i peronisti ma non voleva discutere di politica.
Una volta si era messa a ridere dicendo che non si sarebbe mai immaginata di stare con un ex comunista.
Il giorno del censimento, ironia del destino, morì Kirchner, l’ex presidente e il marito dell’attuale presidentessa argentina, in realtà l’autentico leader del paese.
M. aveva deciso in ogni caso di uscire e di non preoccuparsi dell’avviso che le avrebbero puntualmente messo sotto lo stipite della porta.
Aveva contattato un tizio che vendeva su Mercado Libre, il loro Ebay, centinaia di quadratini bianchi e gialli per contenere le diapositive, aveva avuto un idea per lanciare il mio documentario.
Andammo in una stazione periferica a incontrare il venditore, ho ancora un sacco di quelle diapositive con sopra il profilo stilizzato del mio protagonista principale.
Non sapeva bene come funziona il mondo dell’audiovisivo, non era una sua colpa, è un errore comune, pensava che fosse facile recuperare i soldi per farlo.
Citava esempi a sproposito, riteneva che immaginassi troppe cose senza avere la forza di realizzarle, il suo modo di enfatizzare le mie debolezze era poco misericordioso.
Ora ho preso il foglietto dal parabrezza e mi sono letto il retro, giù perché c’è anche un retro, è una specie di spiegazione del passo scritta con parole semplici miste ad ammonimenti.
Cosa devi  fare per invocare Dio e cosa non devi fare per ignorarlo e vivere lontano dalla grazia.
Non invocherò Dio prima di andare a dormire, ma ho fatto un fioretto, per qualche giorno resterò in ascolto, non parlerò di me stesso.
Il peccato non esiste se ti sei liberato dalla vanità.

martedì 27 settembre 2011

Contro il mio portiere ( e forse contro tutti i portieri)



Una ragazza urla e piange da qualche appartamento del mio palazzo, forse è vicina a qualche finestra aperta e nel cortile la sua voce lamentosa rimbomba.
Non mi fa dormire, ma non ho il coraggio di protestare.
Anche se dal tono e dalla lamentosità intuisco un problema stupido tra fidanzati, qualcosa che si potrebbe evitare, lei deve essere una studentessa di quelle che popolano il mio condominio, lui uno che la sta mollando o tradendo o entrambe le cose.
In sottofondo il rumore di macchinari del supermercato, a volte si sente più forte, non so se dipenda dalla temperatura esterna o dalla mia sensibilità auricolare interna.
Il mio cortile interno è brutto, i palazzi sono ammassati l’uno all’altro in varie tonalità di giallo. E’ un cortile ampio, spoglio che non ha nulla di popolare ma nemmeno segni di rispettabilità borghese.
Non ci sono balconi, l’unico terrazzo è talmente incastonato fra i palazzi e carente di luce che è popolato da piante rachitiche, il proprietario ha deciso di non curarle.
I cortili dovrebbero essere associati a suoni di vasche da bagno e docce, di pulizie domestiche rassicuranti, ma il mio cortile è invaso principalmente dalle voci dei commessi del supermercato e dai suoni stridenti delle ruote dei carrelli.
È un cortile che si anima solo in orario lavorativo.
Mi ricordo che a Buenos Aires erano perfino troppo invadenti i suoni dello strettissimo cortile quadrato.
Stralci di canzoni alla radio messe su da studentesse ventenni, televisioni accese ad altissimo volume a qualsiasi ora del giorno  e della notte e sintonizzate su idioti varietà televisiva, ogni tanto mi alzavo e gridavo in spagnolo che la finissero.
L’insonorizzazione complessiva era scadente, gli edifici costruiti in economia, la speculazione immobiliare ancora con meno scrupoli.

Quelli del piano di sotto avevano una specie di veranda, il loro soggiorno era visibile da ogni appartamento che affacciava sul cortile, erano una coppia di anziani con poltrone di cuoio da sitcom americana anni ’70.
Restavano a guardare programmi pomeridiani di gossip, quasi mai discutevano di qualcosa, ogni tanto arrivava qualcuno più giovane, forse figli o nipoti in visita temporanea, a volte li ho intravisti mangiare mentre ero appoggiato al balcone e il gatto mi girava intorno.
Non mi affaccio mai nel mio cortile: troppe finestre accese o spente, nessun segno di vitalità eccetto qualche salutare grido di lattante o qualche chiacchierata telefonica.
L’ultima volta che l’ho fatto stava nevicando e cercai inutilmente di scattare delle foto che ritraessero una sorta di letizia infantile, non ci riuscii, i fiocchi esili di neve con lo sfondo di cemento erano desolanti.
Ogni tanto sento la voce del mio portiere nel cortile, vive nel sottoscala e parla con qualcuno, di solito il sabato mattina o la domenica, quando ha il giorno libero.
Ogni tanto si ricorda persino di poter deambulare fuori dal quartiere, infatti l’ho ascoltato organizzare sporadiche gite al mare.
Il mio portiere è in ferie da tre settimane.

Al suo posto c’è un sostituto, sorride e saluta sempre, è stato mandato da una ditta, cambia sempre palazzo, non ha tempo di annoiarsi, il nomadismo precario lo fa vivere meglio.
In questi giorni scendo ogni mattina per le scale, con il mio portiere ero costretto a prendere l’ascensore per non rovinare la sua pulizia dei marmi funerei.
Te lo chiede in modo perentorio, con una domanda retorica senza possibilità di risposta negativa.
In questi giorni esco e rientro di casa più volte al giorno, a volte anche con intervalli molto brevi, lo faccio per ridiventare padrone dei miei gesti.
Se esci troppe volte di casa il mio portiere ti guarda con un misto di riprovazione e sorpresa.

Detesto il mio portiere, con le sue cuffiette al gabbiotto o la piccola televisione che ha in un angolo, sempre pronto a ragionare su insulsi fatti condominiali, eternamente con la sigaretta fuori dal portone.
Quando pulisce le scale si sente il padrone del palazzo, fischia, canticchia orrendi stornelli romani allungando le finali.
Se qualcuno viene a trovarti gli chiede in modo sgarbato, a brutto muso, dove sta andando.
Ogni volta che i tuoi ospiti passano per l’atrio del palazzo li scruta attentamente, cerca di metterli in difficoltà, insiste con il suo sguardo come se fosse sempre sul punto di dover dire qualcosa.
Divenne gentile e sorridente solo quando doveva chiedermi che fine aveva fatto S., la mia compagna, voleva certificare la fine di un amore.
Quando le dissi che non abitava più con me, che c’eravamo lasciati, si  mostrò solidale, parlò della sua ex moglie da cui si è separato una vita fa, ben prima di essere diventato nostro dipendente.
Fra poco ritornerà dalle sue ferie, ma in realtà non se ne è mai andato, si è solo spostato dal nostro pianerottolo all’angolo della via.
Da lì guarda ancora cosa accade, altre volte l’ho incrociato su qualche marciapiede del quartiere,  porta pantaloncini troppo corti, saluta sempre ma non ha simpatia nei miei confronti.

Il suo sorriso tirato, dovuto, di mattina non è mai un buon augurio.
Forse non è nemmeno solo colpa sua, il suo malessere ha qualcosa di esistenziale, è legato al suo ruolo.
Sono contrario al portiere fisso, stabile, padrone del palazzo e dei suoi tempi meschini.

Sono per il licenziamento in tronco di ogni portiere e non me ne frega nulla dei diritti sacrosanti dei lavoratori, della giusta causa e delle alzate di scudo dei sindacati confederati.


lunedì 26 settembre 2011

Contro la grande scrittura


Da bambino ero timido e asociale.
Non volevo andare all’asilo, mi davo malato quasi sempre, restavo con mia madre in cucina ad ascoltare i giornali radio che sembravano venire direttamente degli anni ’60 forse perché gli effetti sonori Rai non erano cambiati o perché uscivano da un radione enorme e obsoleto.
Mia madre preparava quasi sempre dolci: biscotti, il tiramisù, ancora non di moda come oggi.
A volte muovevo le mani davanti a qualche finestra, non avevo un amico immaginario, era un modo per spiegarmi meglio le cose, ogni tanto lo faccio ancora di nascosto ma è un segreto da non rivelare.
Dopo la mia timidezza si è trasformata in  qualcosa da controllare, sono diventato sempre più capace socialmente ma è stata una conquista progressiva.
All’università ero ancora uno studente spaurito, mi innamorai di una mia amica e non ebbi mai il coraggio di dirglielo, ero convinto che si capisse; mi ero illuso di essere trasparente ma ero così gelidamente inespresso che ovviamente non se ne accorse.
Anni dopo la mia amica mi disse che mi sottraevo agli abbracci, ora provo a recuperare ma sono goffo, non ho mai imparato l’estetica dell’abbraccio, penso che sia troppo tardi per apprenderla.
Sono diventato estroverso frequentando ragazze più giovani e introverse.
D’un tratto ero divenuto talmente ciarliero che la gente pensava mentissi quando mi affibbiavo da solo l’aggettivo timido.
Iniziai a definirmi ex timido, dicevo che ne avevo ancora segni e cicatrici, come tutti i timidi sono diventato monologante, mia forma di autodifesa.
Monologante, solare, estroverso, faccio battute, mi piace far ridere le persone, soprattutto le ragazze, ma subito dopo cerco di capire quanto c’e di egoistico nella mia azione.
Parlo di argomenti vari, dico stupidaggini eppure riesco a farle sembrare appetibili e originali, posso fingere di conoscere le cose, ho imparato come stare al mondo, la cosa a volte mi deprime.
Claudio mi dice che bisognerebbe parlare dell’uomo, che gli scrittori contemporanei non hanno coraggio e si rifugiano nel minimalismo. Sono diaristici, intimisti, anche io lo sono a volte.
Non apprezzerebbe questo brano,

Non è più tempo di scrittori come Dostojevski, chi prova a raccontare l’uomo fallisce, non può altro che fallire.
Non si può scrivere fra un messaggio di Facebook e una richiesta di commento veloce sulle questioni in corso.
I grandi scrittori del passato se ne fregavano della piccola attualità.
Non andavano al cinema, potevano  farne tranquillamente a meno, al limite andavano a vedere qualche spettacolo di rivista per passare del tempo senza pensare a nulla.
Chi si dà un tono oggi è quasi sempre un trombone da cui conviene diffidare, gli scrittori appena raggiungono un certo grado di notorietà di nicchia iniziano a scambiarsi messaggi cifrati su assurde riviste ambiziose che nessuno legge.
Credo nelle persone che iniziano da dove possono cominciare.
E si può cominciare soltanto da piccole cose.

venerdì 23 settembre 2011

Contro la stringente attualità


Il mio post sulla Dandini è stato letto 250 volte, sono stato cattivo oltre il necessario, per provocare ho messo il link in un paio di siti frequentati da amanti della conduttrice.
Quando parlo dell’attualità subito dopo mi pento, mi sembra di commettere un errore, di fare come fanno tutti i blogger.
Anche io parlo della crisi di tanto in tanto, anche io discuto dei problemi della nostra generazione, di solito lo faccio a tempo perso, senza appassionarmi.
Non è il centro dei miei problemi, non è il mio centro; anche se ne sembro invischiato, poco dopo mi annoio e cambio argomento.

Lo scrittore George Perec diceva che i giornali parlano di tutto fuorché della vita.
Quando avevo 12 anni ero un idiota fatto e finito, leggevo anche io i quotidiani, dalla prima all’ultima pagina.
Ogni tanto li leggo ancora, nei bar, preferisco quelli sportivi perché parlano di nulla senza fingere che ci siano cose davvero importanti.
Dichiarazione di un politico, risposta di un altro, leggi e leggine da approvare, grandi articoli seriosi su vantaggi e svantaggi di una determinata situazione, aggiornamenti sulla crisi economica in atto.

Nei giornali sportivi invece si parla del nulla e sul nulla, il gioco è palese, mi diverte sempre leggere i voti assolutamente aleatori dati ai calciatori dopo una partita.
L’attualità è la cosa più di moda nel mondo, la cosa più fuorviante, ogni tanto ci incappo, ma lo faccio per distrarmi dalle cose più importanti.

I filmati virali, le parodie su You Tube, i Zoro, le Sora Cesira, i blog che parlano solo e comunque di quello che sta accadendo in questo momento, di Berlusconi e di non Berlusconi, della crisi dei bond e dei fenomeni che durano lo spazio di un minuto.
Gli status di Facebook rincorrono la realtà quotidiana, scimmiottano perfino i quotidiani.
E i giornali a loro volta imitano Facebook, Twitter, elaborano comunicazioni rapide sullo stato delle cose.
Ma lo stato delle cose è affare esistenziale, non toccato dai loro piccoli resoconti sul mondo.
Il mio amico Valerio scrive che era seduto sul tram quando uno  strano tizio con un sombrero in testa è salito e gli ha chiesto chi sta vincendo?
E lui ha risposto vincere in che senso?
Valerio non segue il calcio, a differenza di me.
Il tizio voleva sapere i risultati del turno infrasettimanale di campionato.
Valerio pensava che intendesse in senso più grande.
Chi sta vincendo?
Nessuno vince mai, o vincono tutti.
La vita continua malgrado i giornali.

mercoledì 14 settembre 2011

Contro la pigrizia


A quindici anni prendevamo in giro quelli che volevano farsi il fisico anche se tutti eravamo iscritti a qualche palestra nella nostra cittadina.
Gli aspiranti body builder mangiavano di nascosto in classe scatolette di tonno e la sera chiedevano pizze senza olio e con mais come condimento.
Cercavano di limitare  i carboidrati, seguivano diete proteiche, si nutrivano molto meglio di noi.
L’equazione facile e ingiusta palestrato uguale stupido ci ha fatto trarre conclusioni sbagliate.
Con la vita impari che il corpo conta, a venti anni te ne freghi, hai come punti di riferimento scrittori dal petto incavato, maledetti che si drogavano, bevevano e maltrattavano la loro gioventù commettendo peccato mortale.
Quando hai trent’anni inizi a temere il decadimento fisico, sei più sensibile ai corpi altrui e alle critiche e ai complimenti eventuali sul tuo.



Quando ero bambino le palestre erano divise in due grandi categorie: quelle per body builder e quelle in cui si faceva dell’innocente ginnastica.
Allora non c’erano tutti i corsi a corpo libero: Total Body, Step Tone e tutte quelle idiozie.
Le palestre non erano ancora diventate dei finti centri di meditazione e benessere, la parola wellness non la trovavi scritta da nessuna parte.
Niente corsi di yoga, niente lezioni di ballo sudamericano per cercare di attirare fighe in decadenza, niente saune e bagni turchi, nessun personal trainer.
Gli istruttori erano di due tipi: il maestro di educazione fisica con regolare diploma all’Isef e fisico deludente, di solito magro senza essere tonico, aveva un passato da atleta dilettantissimo, magari correva, forse andava in bici oppure saltava in lungo.
Oppure era del tipo tendente al body builder che si bombava di proteine sintetiche e aveva sempre qualcosa fuori posto: le spalle troppo grandi rispetto alle vita, le gambe troppo piccole rispetto al busto.
Erano mostri disarmonici e rispettati, quelli più capaci avevano dei lavori impiegatizi o da libero professionista di rango minore, i meno capaci finivano per fare i buttafuori in locali che ambivano e detestavano allo stesso tempo.
Di solito quelli più furbi mettevano a frutto la loro passione diventando proprietari o gestori di palestre.
Da bambino avevo fatto per un po’ di tempo della ginnastica correttiva perché avevo la cifosi, dopo non l’ho più avuta o non mi sono più posto il problema.

A quattordici anni invece mi iscrissi a una palestra da adulto, iniziavo il mio lungo, discontinuo e poco felice rapporto con le macchine assistite e i pesi.
Rispettavo poco le schede assegnate, tendevo ad innervosirmi se dovevo alternarmi con uno più grosso di me o se c’era troppa fila, avevo poca disciplina, forse mi iscrissi non mosso dal genuino desiderio di modellare un corpo a mia immagine e somiglianza, ma solo per inerzia generazionale.
Non ascoltavo i consigli distratti che ogni tanto davano gli istruttori o alcuni veterani della palestra, gente più grande che aveva il diritto di correggerti.

Non sono mai cresciuto, le mie braccia sono rimaste mediamente magre, le mie spalle leggermente spioventi, l’addome piatto è sempre stato un miraggio causa ragioni genetiche, tanto sudore sprecato per nulla.
Solo una volta sono riuscito a ricavare qualcosa di concreto andando in palestra.
Dimagrii sette chili in due mesi e alla fine raccolsi attestazioni di stupore e soddisfazione, ne fui felice.
Mi chiedevano come diavolo avessi fatto, rispondevo che avevo corso sul tapis roulant quasi ogni giorno per quaranta minuti di fila e mangiato solo insalate salutari e tonno, riducendo drasticamente la quantità di pasta asciutta.
Adoro il tapis, è molto meglio che correre per strada.
Con il tapis sai sempre la velocità a cui stai andando, puoi controllare tutti quei display con i metri percorsi e il battito cardiaco, le calorie che stai consumando sono sotto i tuoi occhi.
Quando corro al parchetto ci sono sempre immagini laterali a distrarmi.
Ubriachi con bottiglie di birra, vecchi non molto deambulanti che mi guardano con giusta invidia e sacrosanta cattiveria, coppiette post-adolescenziali in amoreggiamenti rimpianti.
Passo di lato sfrecciando, a volte il mio ego stupidamente si compiace per avere un corpo in grado ancora di sfrecciare, rispondo allo sguardo dei vecchi con uno scatto immotivato, o con una respirazione affannata ma controllata.
Sto correndo, mi dico, e loro non possono.
Non mi piaccio, preferisco essere sopra un tapis roulant circondato da persone in stato fisico decente.
Fu dopo il tapis roulant e i chili persi che pensai di mettere su davvero un po’ di veri muscoli.
Progettavo di diventare come Raiz, l’ex cantante degli Almamegretta o Mario Venuti, pelati fra l’intellettuale e l’artistico con il fisico da pugilatori, in fondo anche Palanhiuk ha dei pettorali enormi.
La vita fa meno male se hai abbastanza muscoli per sopportarla.
Anche i manuali di fitness spiegano che gli addominali non hanno una funzione meramente estetica e non servono solo in caso di improbabile combattimento in strada.
Proteggono gli organi interni, ti rendono la postura migliore, prevengono mal di schiena e perfino malattie ben più gravi.
Sulla palestra a Buenos Aires c’era affissa sopra una parete una lista con dieci vantaggi derivanti dalla pratica del fitness:
migliore attività cardiovascolare, prevenzione di ictus, rallentamento dell’invecchiamento osseo, e via dicendo.
Mi ero iscritto lì tre giorni dopo essere arrivato, M. ci aveva messo poco per darmi dei consigli su come migliorare addome e spalle.
Sosteneva che aveva visto il potenziale, il suo ex era magro senza speranza, se mi fossi allenato sarei diventato asciutto, voleva un tipo dai muscoletti guizzanti, era tiepida anche in quel caso.
Quelli dai pettorali troppo grossi le incutevano timore, camminava con le spalle curve fiutando dovunque un possibile pericolo.
In palestra andava poco ma controllava che io andassi regolarmente.
Era a pochi isolati da casa sua, una filiale di  catena di medio lusso che qui sarebbe solo media, l’istruttore mi chiamava Cannavaro per assonanza fonetica con il mio cognome, era un biondino che assomigliava a Caniggia, a me Caniggia era sempre stato antipatico perché era stato l’autore del gol all’Italia nei mondiali del 1990.
Zenga sbagliò clamorosamente l’uscita e l’attaccante biondino lo anticipò di testa, uno a uno, e poi finì che perdemmo ai rigori: la più grande sconfitta della storia calcistica italiana.
L’istruttore non era così bravo, era magretto, senza nemmeno troppi muscoli, spiegava le cose sorridendo e lentamente, convinto che non capissi quasi nulla dello spagnolo.
Mi diceva le cose e si guardava intorno, fingendosi indaffarato.
Spesso ero costretto a spiare gli altri per capire se stavo facendo bene i piegamenti per gli addominali o le alzate laterali per i deltoidi.
Se andavo di mattina c’era più gente di quella che mi sarei aspettato, gruppi di anziani convenzionati che si allenavano tutti assieme a qualche ginnastica di quelle che ora definiscono dolci: esercizi a corpo libero con sottofondo di musiche insulse, movimenti che servono per alleviare i dolori cervicali e le artrosi croniche.
Nel mio periodo a Buenos Aires avevo iniziato a ispessire leggermente gli addominali ma comunque erano nascosti dietro il mio leggero strato di adipe, i muscoli che preferisco fare sono i bicipiti e i tricipiti perché sono corti e crescono più in fretta degli altri, ti danno immediate soddisfazioni, sono nel presente.
Invece detesto allenare i deltoidi perché sono faticosi e sembra che non servano a niente, ci vuole molto tempo per capire la loro utilità guardandoti allo specchio.
Le gambe cerco di farle il meno possibile, non mi piacciono troppo grosse e credo di averle già piuttosto belle senza dover intervenire troppo.

E’ l’ultima parte di me che M. guardò con desiderio.
Stavamo mangiando un gelato e ad un certo punto mi osservò e disse una frase di complimento alle mie cosce.

Tornato in Italia per mesi mi ero informato sporadicamente su palestre ed attività fisiche di vario genere, prendevo solo informazioni, chiedevo alle segreterie, mi ripromettevo di fare lezioni di prova a cui puntualmente mancavo.
D’altronde facevo così per tutto: attività ginniche, corsi di inglese e altre lingue.
Ingannavo il tempo senza avere la minima intenzione di migliorare la pronuncia di una lingua straniera o di incrementare il mio tono muscolare.
I sogni di Raiz e Venuti sembravano appartenere a un passato remoto.
Poi come d’improvviso l’estate mi ha guarito, ho iniziato a guardare i corpi, tutti i corpi compreso il mio e mi è sembrato naturale che tutto cominci da lì.
Non c’è nessun scandalo in questo.
Si comincia dalla pelle, dalla superficie, non possiamo farne a meno anche se vogliamo per forza essere visti come belle anime.
Così mi sono iscritto in palestra, pronto a combattere contro la pigrizia ed a sopportare la poca disponibilità di istruttori demotivati.
Cercherò di lavorare anche sui deltoidi perché so che sono fondamentali se voglio allargare le spalle, anzi più esattamente per dare la percezione che le mie spalle siano più larghe di quanto realmente siano.
Una specie di trucco che consigliano in rete sedicenti esperti di cui mi fido.
Mi sono d’improvviso ricordato anche che volevo provare a tirare di scherma e così ho preso appuntamento per una lezione di prova.

Ho bisogno di riflessi e di gambe veloci, quelli servono sempre, anche se non erano nella lista dei dieci benefici miracolosi.
Alla lezione stavolta non mancherò.

lunedì 5 settembre 2011

Contro Jovanotti

Il mio giornalista preferito è Giuseppe Cruciani, conduce un programma su Radio 24 che si chiama La Zanzara.
Mi piace perché tratta male gli ascoltatori ed è consapevole di quanto il suo lavoro sia poco serio:parlare di politica italiana ogni giorno, intervistare deputati e senatori con fortissime inflessioni dialettali e lessico burocratico; l’attualità può diventare molto divertente se cominci a rassegnarti e la smetti di indignarti ogni secondo.
Ho visto qualche mese fa un servizio fotografico di lui su Rolling Stone, le foto erano dei bianchi e neri molto leccati ma gli abiti che indossava mi piacevano.
Lo ritraevano mentre correva e mi piaceva il suo soggiorno, anche se a tratti c’era qualcosa di troppo curato, sembrava il ritratto di un rampante senza anima.
Jovanotti parla sempre di sua moglie.
La moglie con cui sta da anni, quella che una volta stanca dei suoi continui lunghi viaggi in Sudamerica, lo tradì proprio con Cruciani.
Le prove furono foto di loro baci appassionati pubblicate da un giornale scandalistico, all’epoca Cruciani non era minimamente celebre.
I due non potevano essere più diversi.
Uno fighetto, arrogante, spocchioso , anticonformista, apparentemente cattivo.
L’altro alternativo, sorridente, positivo all’eccesso, apparentemente troppo buono.
Le donne sono strane, io non sono ancora riuscito ad averne due così insostenibilmente all’opposto.
Agli antipodi, dove andava Jovanotti lasciando la moglie sola per cercare se stesso.
Gli piaceva molto il Sudamerica, ha girato dei video in Cile ed in mezzo alla foresta brasiliana, gli piaceva anche molto la Patagonia.
 
L’ha percorsa in bici per svariati mesi, ne ha parlato pure in un libro, si chiamava Il Grande Boh, era piaciuto al mio amico Thomas che me l’aveva consigliato prima di partire per l’Argentina.
Non ho fatto in tempo a comprarlo, d’altronde non era previsto nemmeno che finissi in Patagonia.
 
Ne avevo parlato con M. della Patagonia ma era troppo lontano, alla fine la scelta era caduta sulla regione dei laghi.
Aveva fatto tutto lei, affittato una casa, programmato le cose che avremmo dovuto fare.
Ogni tanto mi diceva sorridendo che voleva dormire, camminare e fare l’amore soprattutto.
Quella zona  dei laghi era piena di nazisti fuggiti dopo la Seconda Guerra Mondiale .
In Argentina ti capita di vedere i nipoti di questi espatriati, una volta a Buenos Aires davanti a una banca vidi una guardia armata bionda, era un tedesco di quelli che in Germania ormai non ne nascono più, il prototipo dell’ariano dallo sguardo bovino, un perfetto kapò da campo di concentramento.
 
Gli ex criminali costruirono case di legno del tutto identiche alle loro baite abbandonate di fretta in Bavaria.
Si insediarono lì perché Peron era un dittatore compiacente e il panorama alpestre era una scialba imitazione di quello alpino, una specie di Svizzera approssimativa.
 
A M. piacevano posti del genere, era stata non molto lontano da lì con il suo ex ragazzo per una sorta di vacanza di rappacificazione dopo mesi in cui si erano lasciati o qualcosa del genere.
Mi ricordo che aveva delle foto scattate da lui, in quasi tutte aveva l’espressione un po’ triste che le veniva spesso in foto e quello sguardo strano, ferito.
In un paio accennava un sorriso vicino a un abbozzo di pupazzo di neve, in una era in piedi davanti a un tavolo di biliardo.
 
Le avevo viste prima di conoscerla, quella che preferivo era una in cui era seduta un po’ di profilo davanti a un caffè lungo macchiato, guardava fuori da una finestra appannata dal freddo.
Non ho mai visto la baita né quel lago, se non in in qualche opuscolo più a sud, sono forse meno europei di come volevano darla a bere.
Immagino che Jovanotti nel suo libro abbia parlato della pace della Patagonia, del nulla, abbia detto con parole molto più terra terra quello che ha scritto Chatwin.
Non è colpa sua se quel vuoto non sono proprio riuscito a provarlo.
Avevo la testa in fiamme e scattavo foto con la mia reflex in automatico, le ho sistemate tutte in cartelle ordinate sul mio computer, non riesco ad aprirle.
Foto di paesaggi, nemmeno in una per fortuna ci sono io, non posso immaginare sorrisi di circostanza.
Appena arrivato in Patagonia decisi di fare come Jovanotti, presi a noleggio una bici, venti chilometri avanti e indietro su una strada sterrata adiacente alla costa.
C’era un vento tremendo, quello del quale si lamentava Jovanotti, quando soffia contrario quaranta chilometri diventano duecento.
Non mi sono mai stancato tanto nella mia vita, a tratti sembrava che non ce la dovessi fare a tornare indietro.
 
Della Patagonia mi è rimasto poco, me ne rendo conto ora che cerco di ricordarla, anche se vedessi le foto non cambierebbe niente.
Jovanotti dedica quasi tutte le sue canzoni alla sua moglie ed esagera.
Il suo amore fa venire invidia, c‘è qualcosa che non va, sembra troppo fuori misura per il presente.
 
Quando ascolto certe canzoni degli anni ’60 non capisco mai se il trucco sia la scrittura o ci fosse proprio un'altra qualità di amore, impossibile oggi.
Certi pezzi di Endrigo, Modugno, Paoli mi rendono disarmato, non posso scrivere così perché quell’amore lì, se è mai esistito, non c’è più, finito, tolto di mezzo.
Una volta ne parlavo con un mio amico, c’era in radio il brano di Califano rifatto dai Tiromancino e da un certo punto la canzone dice non lasciai di certo un amore folle in un tempo piccolo.
Ci chiedemmo se l’amore folle esiste, se è ancora possibile, l’amour fou può esserci solo in qualche sceneggiatura ma stona, sembra falso.
L’amore contemporaneo non è né folle ne ingenuo, piuttosto è lucido e calcolatore.
Ma Jovanotti è buono e si sforza di immaginarselo perfetto.
Per Jovanotti lui e sua moglie sono la cosa più spettacolare dopo il big bang e valgono più delle mille, inutili inezie mondane che circondano le nostre vite.
Per Jovanotti è sempre benedetto il giorno in cui l’ha incontrata, gli altri amici lo stanno ancora aspettando chissà dove.
Per Lorenzo lei è la sostanza dei suoi sogni, un raggio di sole, anzi loro due sono come il sole a mezzogiorno.
Quando ascolto l’ennesima canzone dedicata alla moglie, mi immagino il volto di lei e come la possa prendere.
Se non sia troppo, se non le venga voglia di fuggire, se non rimpianga il cinico Cruciani.
Come diceva Panella quello che capita nelle canzoni non può succedere in nessun posto del mondo.


giovedì 1 settembre 2011

Contro le guide turistiche


Ero partito per i Balcani senza sapere niente.
Non mi ero informato sul clima, non avevo letto niente sulla cucina o sul paesaggio, a stento sapevo confini e capitali.
Ultimamente mi  è capitato già varie volte di partire in maniera così passiva.
Mi faccio trascinare da viaggi scelti e decisi da altri, seguo i loro desideri, accetto tutto.
Iniziavo a pensare che mi fosse passata la curiosità di viaggiare o forse proprio la curiosità, non compravo più le guide turistiche dei posti, interpretavo la cosa come un segnale di indolenza.
Per anni ho viaggiato con l’aiuto delle guide turistiche.
Era stato merito, o colpa, di S. che mi aveva convinto dell’insostituibile apporto di Lonely Planet e Routard.
Le Routard sono nate per i viaggiatori zaino in spalla, gli zainisti come li ho definiti in un termine da me inventato; le Lonely Planet si rivolgono a un pubblico più vario distinguendo fra alberghi e ristoranti con prezzi elevati, medi o economici.
Le categorie della Lonely hanno qualcosa di classista, creano sottili sensi di colpa e di invidia.
Con il passare del tempo, però, anche i vecchi zainisti hanno iniziato a lavorare e si possono permettere di spendere qualche soldo in cambio di agi prima insperati, perciò la casa editrice francese ha deciso di inseguire la Lonely Planet e di consigliare anche posti più raffinati.
Di solito le Lonely Planet hanno foto più belle, sono impaginate in modo più razionale e anche la carta è di qualità migliore, per questo negli ultimi anni le ho preferite alle Routard.
Ho guide turistiche di Budapest, Finlandia, Lisbona, Parigi, Barcellona, Andalusia e Sud della Spagna, San Francisco, Buenos Aires, Francia del Sud, Norvegia, Istanbul, Paesi Baltici.
Ho perfino guide turistiche di posti in cui non sono mai stato, ho fatto degli investimenti trovandone alcune scontate.
Di solito prima di partire per un viaggio mi sembrava quasi ovvio andare in libreria a cercare la guida adatta, o navigare in internet per controllare temperature e cenni storici, informarmi su valute e costo della vita media, ero in questo un conformista perfetto.
Della guida, ad esempio, leggevo con attenzione anche la parte storica introduttiva, quella che inizia con i primi insediamenti di popolazioni quasi preistoriche e di cui ricordo solo vagamente i nomi.
Di solito sono dei sunti senza grande autorevolezza, a volte abbreviano con troppa fretta eventi che meriterebbero maggior spazio e si dilungano in usi e costumi secondari.
Poi c’e la parte riguardante la gastronomia in cui difficilmente si parla male della cucina locale, tutte le cucine sembrano interessanti, c’è sempre qualche liquore autentico da provare, di solito acquavite a sostenuta gradazione alcolica che si somigliano tutte.
La parte più divertente è quella pericoli e contrattempi, vengono dati consigli ovvi sul non andare in giro esibendo oggetti di valore, la maggior parte delle volte il tono è rassicurante mentre siti istituzionali come il Viaggiaresicuri del Ministero degli Esteri tendono all’allarmismo moderato.
Secondo il sito del Ministero, viaggiare di notte su strade secondarie balcaniche è assolutamente sconsigliabile causa cattivo stato del manto stradale, presenza di buche e dossi imprevisti.
Io viaggio da una vita su strade secondarie del salernitano e non sono molto migliori, ma ovviamente non c’è nessun sito che mi intima di percorrerle solo con la luce del giorno.
Non sono uno che sottolineava molto le guide, di solito sono pragmatico, so che molti posti non avrei comunque il tempo di vederli o magari mi passerà la voglia.
Conosco persone che sottolineano quasi ogni posto, basta che ci sia una recensione mediamente positiva.
Mettono cerchi, stelle, segni, scrivono brevi frasi con matite spuntate, sono pronti a visitare monumenti storici, monasteri, parchi naturali, non fanno distinzione fra bellezze storiche e paesaggistiche, sono affamati di luoghi.
Quando ero bambino, a quattro anni, mi portarono in Sicilia e per rendermi più leggeri gli spostamenti e il caldo torrido, mi regalarono una macchinetta fotografica finta, scattavi e c’erano diapositive di posti celebri dell’isola: i templi greci di Agrigento, il golfo di Taormina, il palazzo dei Normanni a Palermo.

Dopo averci giocato un po‘ mi stufai dei luoghi: quelli veri  e quelli virtuali fissati eternamente dal mio giocattolo.
Gettai a terra la mia finta macchinetta e gridai che non volevo più fare il turista.
Avevo un’allergia innata di cui evidentemente mi ero dimenticato quando mi ero messo in testa di programmare ogni dettaglio dei miei viaggi da adulto.

S. mi convinse anche che avevo assolutamente bisogno di un navigatore satellitare ed aveva anche assolutamente ragione, dal suo punto di vista.
Il mio senso dell’orientamento automobilistico è piuttosto scarso e manco di applicazione e concentrazione nell’imparare le svolte a destra e sinistra.
Il navigatore mi ha soprattutto aiutato nei labirinti stradali romani, a volte brancolo ad intuito ma la sicurezza di avere il navigatore mi permette il lusso di potermi perdere sapendo che non sarà mai uno smarrimento completo.
La cosa può suonare tranquillizzante ma a pensarci bene è anche desolante, bisognerebbe ogni tanto perdersi senza avere la soluzione a portata di mano.
Uno dei viaggi che sogno da anni è in un deserto: Mongolia, Sahara, un posto dove sia assolutamente facile perdersi, un posto senza punti di riferimento.

Quando lo dissi a M. non capiva, mi disse che il deserto lo aveva già visto dall’alto nell’aereo che la portava in Europa per la prima volta e le bastava.
A pensarci ora è una frase molto desolante, molto più desolante del deserto.
Il navigatore, specie nei viaggi extra urbani, diventa anche uno strumento che ti allontana dai tuoi simili e dalle richieste di informazioni, i maschi le trovano sempre umilianti e cercano sempre di evitarle per non sminuire la loro virilità.

Per fortuna il navigatore nei Balcani non funzionava, mi ero dimenticato che non aveva tutte le mappe dei paesi, alla lettera A  c’era Andorra e poi Austria, niente Albania.
Così ho ritrovato il piacere di comunicare a gesti davanti a una mappa con un contadino nelle montagne della Macedonia, o di perdermi su un passo di montagna per aver frainteso le  indicazioni di un segnale stradale.
Oppure di fermare un’auto piena di cacciatori serbi, uomini dall’aria straordinariamente gioviale e sorridente che contrastava con i fucili automatici che imbracciavano.
Giravamo i Balcani con le mappe del Touring Club, ti dà soddisfazione studiare una cartina spiegata davanti ai tuoi occhi.
In fondo da bambino immaginavo sempre di programmare i viaggi stendendo la mappa su un tavolo, magari scegliendo l’itinerario davanti a un caffè lungo caldo.

Se vi mettete davanti a una cartina d’Europa osservate che in gran parte dei paesi c’è una fitta rete di arterie verdi e i nomi delle città si susseguono e si intersecano.
Arterie verdi che pompano auto, camion, passeggeri, una delle cose più belle del viaggiare nei Balcani è che le autostrade quasi non esistono.
Sei costretto a fare vie che si inerpicano e poi scendono di colpo, le montagne si scavalcano senza ponti e viadotti, puoi fermarti quando vuoi senza l’instabile sosta nella piazzola d’emergenza o il ricorso all’Autogrill.

Non avevo letto nulla e così rimanevo sorpreso quando attraversavamo la Macedonia, era molto più verde e lussureggiante di come me l’aspettavo.
E non avevo assolutamente idea che in Bosnia ci fossero canyon e fiumi in mezzo a vertiginose gole di montagna.
Avevo fatto pace con il viaggio, proprio quando non mi interessava tanto dove mi portava.
il segreto è banale: non aspettarsi mai nulla.