L‘impiegato
ha sessant’anni, grossa stempiatura davanti, capelli bianchi che ricadono sulla
nuca in ciocche irregolari.
Ha
occhiali di radica spessi, marroni, sono contemporanei, di lato il marchio Rayban
ad attestare la loro natura vintage, ma sopra il suo volto sembrano gli occhiali
autentici di un impiegato della sua età in altri tempi.
Occhiali
di un impiegato di sessant’anni negli anni ’70.
Anche
gli abiti hanno un taglio datato: la giacca di grisaglia grigia, la camicia bianca
inamidata, la cravatta dalle tinte volutamente smorte con colori che si
intonano male.
L’ufficio
posta è moderno, ha luccicanze bronzee, l’illuminazione è curata come se fosse un
franchising, una specie di autogrill della burocrazia.
I
numerini vengono fuori uno dopo l’altro con impeccabile precisione, segnalati su
display, l’informatizzazione qui funziona e la fila non è lunga, eppure mi prende la mia solita sottile
inquietudine.
Devo
pagare una multa e una bolletta, non ci sono complicazioni, posso farlo in
contanti o servendomi della carta di credito, non ci sono discussioni da
intraprendere ma la cosa mi atterrisce.
Il
mio rapporto con la burocrazia di qualsiasi tipo, in qualsiasi forma, avrebbe
bisogno di uno psicoanalista.
Ogni
volta che devo andare in un ufficio pubblico, sia esso statale, regionale, circoscrizionale,
mi deprimo.
Non
mi lamento da cittadino sulle inefficienze, sulla pigrizia e la poca voglia di lavorare dei dipendenti
pubblici, non ci sono mai reprimende qualunquiste.
Non
mi arrabbio, resto seduto ad aspettare il mio turno e ad osservare i volti
delle persone con le loro ricevute in mano proprio come me, le sedie gialle piegabili che scattano come quelle dei pronti soccorso.
Divento
catatonico, se ho un libro non lo leggo, inizio a programmare per distrarmi viaggi
in posti dove non ci possa essere traccia di strutture che ti offrono un
servizio ed esigono la tua attenzione.
Sogno
il deserto.
Rifiuto
di essere considerato cittadino, di essere inglobato in qualcosa in cui forse
non ho mai creduto.
Certificati
da stampare, fototessere da portare, parole da scambiare con l’impiegato allo
sportello che da tempo ha esaurito la sua scorta di empatia e non ha alcuna
voglia di mettersi nei tuoi panni, ne ha tutte le ragioni del mondo.
Mio
padre invece è sempre stata bravo nel gestire queste cose, addirittura gli piace,
cosa che mi è sempre parsa misteriosa, tenere documenti, controllare che tutto sia
a posto.
Con
precisione cataloga ogni documento in cartelle di vari colori, ogni tanto le
apre e ne legge il contenuto con una lente d’ingrandimento.
Spiana
sul tavolo di vetro del soggiorno ogni ricevuta, le spilla con precisione, conserva
vecchie carte che possono sempre venire utili ed infatti lo stato per anni ti
chiede prove della tua innocenza, dei tuoi pagamenti, ti tiene schiavo alle sue
scadenze, ti obbliga ad essere informato, non accetta la vita alla giornata.
Lo
stato è sempre autoritario, in manifestazioni che i cittadini buoni si
rifiutano di affrontare.
E’
autoritario quando prende ma anche quando dà.
Non
è per chi vive d’impulso, supporta e sostiene chi vive sulla base della volontà
e dell’organizzazione.
Crea
fra te e il mondo reale un’intera categoria di mediatori.
Avvocati,
commercialisti, con cui mio padre ha confidenza.
Vuole
avere il controllo su quello che osservatori troppo superficiali come me
chiamerebbero scartoffie.
Forse
perché nelle scartoffie ci ha anche lavorato essendo un funzionario, il
tavolo del suo ufficio era sempre occupato da pratiche.
La
gente veniva a casa portandogli le lettere che arrivavano dallo stato e che non
comprendevano.
Erano
quasi analfabeti, parlavano solo in dialetto, erano intimiditi perfino da me che
andavo ad aprirgli la porta ed ero un bambino ma pur sempre il figlio del dottore.
Avevano
in mano delle buste di plastica con dentro scarole spinaci, salsicce, prodotti
dei loro orti, quasi mai erano contadini professionisti, erano grandi
dilettanti, sapevano usare alla perfezione diserbanti e concimi.
Si
fermavano davanti alla porta, con guance rosse conseguenza di bevute del loro
vino paesano pieno di zolfo, squilibrato, che si ostinavano a fare anche se il
terreno delle nostre colline non è adatto, chiedevano se c’era mio padre, nel
caso in cui non c’era
lasciavano
le buste ed io sussurravo un grazie
Sarebbero
ritornati per sottoporgli le loro domande, avevano mani callose, sembravano
molto più vecchi della loro età, portavano cappelli consumati e dignitosi, non
mi rendevo conto allora che sarebbero spariti per sempre, loro e I loro
cappelli, che i loro figli li avrebbero rinnegati pur tributandogli un omaggio
convinto nel momento delle loro dipartite.
I
figli ogni tanto venivano ad accompagnarli e già erano un’altra generazione,
avevano magliette e pantaloni che imitavano i marchi di successo, scritte in
lingue straniere che non sapevano pronunciare, alcuni di loro erano geometri e
ragionieri, quasi nessuno riusciva ad andare all’università, aspiravano ad un
impiego pubblico, ad un lavoro in banca, all’ingresso nel campo del terziario.
Iniziavano
a dimenticare quello che i genitori gli avevano insegnato da piccoli sulla
coltivazione, i loro campi presto sarebbero andati in malora, sarebbero
diventati spazio per autovetture, metri quadri per costruzioni pencolanti di
dubbio uso, vuoto da riempire con inoffensivi abusivismi suburbani.