martedì 31 gennaio 2012

Contro cover band


Sono seduto in prima fila e davanti a me sta suonando un gruppo dalla provenienza lucano calabrese, il cantante è bello e lo sa, non fa sorrisi alle ragazze, preferisce sorridere a se stesso.
È di quella bellezza che si è dotata di perfette basette e pizzo ben rasato per aggiungere un tocco di durezza al viso in fondo troppo dolce.
Ha una camicia anni ‘70 e un codino che ricorda Piero Pelù ai tempi del Diablo, puro anni ’90, del tipo motociclisti custom, li puoi vedere solo in certe birrerie enormi come questa, ai confini del raccordo anulare.
Gente che indossa magliette nere e birre scadenti in mano, mi sono simpatici solo se hanno superato i cinquant’anni, altrimenti sono esseri al di fuori della mia comprensione.

Il cantante, dopo essersi sgolato in acuti sottilissimi, esce di scena, sta fuori per minuti interi mentre gli altri continuano a suonare, facendo digressioni.
Cosa sta facendo mi chiedo? Rolla del tabacco ? Sorseggia del whisky scadente ? Manda messaggi alla fidanzata rimasta a casa? Non riesco a capire queste pause e i suoi ritorni vestito sempre uguale.
Non riesco a comprendere perché abbia bisogno di avvicinarsi così tanto al chitarrista e fargli segni d’intesa o a volte parlottare come se dovessero improvvisare una scaletta che è stata invece sicuramente decisa da chissà quanto tempo.
Non capisco perché debba esageratamente andare a tempo o dare l’idea di essere preso da una musica rock che non mi sembra davvero portarlo da nessuna parte.
Quando non sanno come continuare, si dilettano nell’assolo.
Io detesto gli assolo ecco perché mi annoio spesso ai concerti jazz, va bene fin quando suonano tutti in gruppo, ma poi inizia sempre uno che fa il suo maledetto pezzo solista e decide di dimostrare la sua bravura tecnica; gli anni persi ad imparare uno strumento sono tutti lì davanti a te, a farsi ammirare.
Gli altri musicisti stanno lì senza far niente, aspettano annoiati anche loro come me ma fingono di essere estasiati, compiaciuti sorridono, ogni tanto abbassano la testa con un segno di approvazione, altre volte la scuotono simulando uno stupore per una capacità tecnica intravista da loro e che io trovo vana.

La gente finge di divertirsi più spesso di quanto pensiate, è un grande trucco, tutti fingono di credere in qualcosa su cui non c’è alcuna base sicura.
Il gruppo di stasera non suona nemmeno male, suonano benino o bene, ma manca qualsiasi energia, il palco è smisuratamente grande per le loro piccole vibrazioni da cover band.

Sono una cover band dei Deep Purple ma potrebbero esserlo di qualunque altro, non sono mica i loro idoli, il cantante ha un foglietto sul quale legge i testi delle canzoni.
Hanno scelto i Deep Purple per avere un nicchia sicura o magari perché piacevano a uno solo della band, forse al tastierista che è il più vecchio di tutti e pigia i tasti senza fare alcun tipo di faccia, senza sorridere a tutto spiano. Anche perché non c’è da essere allegri affatto.
Siamo in un locale vasto, con un palco inutilmente attrezzatissimo di spie e casse, le sedie e i tavolini piuttosto casuali e frontali rispetto alla scena.
È mezzo vuoto e per lo più riempito da amici dei musicisti e concittadini dei loro paesini, oppure c'è gente capitata per caso, coppiette spaurite, mal assortite, ben nascosti ci saranno sicuramente dei disperati fan del gruppo originale.
I fan sono sempre disperati, si aggrappano a tutto, alle cover band come all’ultima registrazione inedita proposta dalle major quando hanno esaurito gli ultimi fondi di magazzino.
Perché qualcuno decide di realizzare una cover band?
Cosa lo spinge a cantare le canzoni di altri, a vestirsi come se fossimo in un’altra epoca, ad imitare modi di cantare datati?
Bisognerebbe provare ad essere originale nella vita, anche se si sbaglia, bisognerebbe sempre cantare nella lingua che ti hanno insegnato da piccolo, cantare in un’altra lingua non ti riuscirà mai bene.
Finisce lo spettacolo dopo un bis quasi non richiesto, escono dal palco male, senza stile, senza alzare le mani, senza salutare. Vanno via come se ci fosse un altro pezzo,
La ragazza affianco a me nota il loro commiato in tono minore, pensa che magari dopo torneranno, ma il gestore del locale ha già fatto partire dalle casse una canzone rock qualunque e la gente si alza, non vedeva  l’ora di andarsene.
Io difendo la cover band, sostengo che almeno nell’addio hanno avuto la decenza di non assumere pose inadeguate, di non fingere successi inesistenti.
Penso a cosa si diranno dopo.
Se saranno soddisfatti della data, se ne stanno già programmando un'altra, cosa li fa andare avanti.

mercoledì 11 gennaio 2012

Contro Obama






Qualche mese fa in stazione c’erano degli enormi manifesti con sopra il garofano del Psi, il suo segretario attuale si chiama Nencini, con gli slogan cerca di resuscitare l’orgoglio calpestato dal non più così recente passato.
Diversi anni orsono sostenne addirittura la nascita di un governo ombra alternativo al regime berlusconiano, avrebbe dovuto riunirsi a Lugano, in territorio neutro e vicino al confine.
Una specie di parodia partigiana fuori tempo massimo per ricordare che socialisti furono anche uomini come Pertini.
Sopra il mio letto ho un grosso manifesto di Pertini, me lo regalò S. dopo una mostra a cui l’avevo portata.
C’erano stampe di articoli, foto, spezzoni di interviste dell’ex presidente, in una dichiarava che nel 1943 aveva quasi preso per il collo il cardinale di Milano, tale Schuster, che cercava di difendere Mussolini.
Portare la tua nuova ragazza a una mostra del genere è un modo per saggiare la sua sensibilità d’animo.
Ieri passavo per il centro e c’erano dei banchetti contro la casta tenuti dal Pli, più o meno con lo stesso simbolo del vecchio partito distrutto da Tangentopoli e dalla sua inutilità esistenziale.
Partiti come il Pli o il leggendario PSDI ottenevano percentuali bassissime alle elezioni ma esercitavano il loro potere ricattatorio e mangiavano enormi briciole che cadevano dalla bocca della balena democristiana.
Venivano definiti laici ma in realtà non erano diventati altro che gruppuscoli insostenibilmente corrotti, in misura proporzionalmente perfino maggiore rispetto alla stessa DC.
Da bambino mi interessava tutta la politica: nazionale, internazionale.
Forse perché mio padre faceva politica a livello locale, oppure perché da infante ero cresciuto con i resoconti dei rantoli violentissimi delle Br, atti di impotente crudeltà che avrebbero scatenato un decennio di menefreghismo collettivo.
Divisioni in correnti, governi balneari, lessico da iniziati delle faccende partitocratiche, mi interessava tutto.
Seguivo anche la politica estera, mi tenevo informato sullo questioni internazionali, mi allertavo ad ogni crisi come se dall’attualità davvero dipendesse il mio destino pre-puberale, la cosa spaventava i miei compagni di classe.
A 10 anni conoscevo già sommariamente il funzionamento degli organismi sovranazionali, il diritto di veto dei cinque membri permanenti dell’ONU, dovevo sembrare un alieno ai malcapitati coetanei.
All’esame di terza media la traccia del tema era sugli scontri di Piazza Tienanmen a Pechino, mi ero preparato sull’argomento leggendo dei settimanali progressisti ed elaborai una disamina partendo da Mao per passare alla Rivoluzione Culturale fino ad arrivare alla banda dei quattro e alla nuova era di Deng Xiaoping; la commissione sospettò che avessi copiato di sana pianta e all’orale uno di loro mi fece un paio di domande a trabocchetto che dimostrarono invece come fosse stata tutta farina del mio sacco.
Non sono mai stato un secchione né avevo quell’apparenza, leggevo solo quotidiani completando la mia dieta informativa con supplementi e occasionali rotocalchi.
Di tutto questo ormai non rimane niente, se ogni tanto mi informo lo faccio solo per dovere di cronaca oppure per puro divertimento.
L’unico che riesco ad ascoltare è Pannella quando discute di tutto e di nulla a Radio Radicale, gli chiedono di una finanziaria qualsiasi e lui divaga su Benedetto Croce o si riferisce a vecchie questioni irrisolte degli anni ’50.
Non ho più alcuna passione autentica per la cosa pubblica in senso vago, quando qualcuno cerca seriamente di coinvolgermi in un discorso politico la butto sul polemico o cambio di colpo argomento, fuggo verso l’alto o verso il basso.
Non per questo sono diventato un qualunquista, ho le mie idee ma sono contraddittorie e quasi mai attuabili.
So che non è un buon esempio civile e che Pertini disapproverebbe scuotendo il capo e la sua pipa, ma non posso farci niente.
Ogni tre anni c’è un argomento che mi scuote ed è piuttosto stupido a pensarci davvero: le elezioni presidenziali statunitensi.
L’intero meccanismo elettorale americano forse mi ha sempre incantato per il complesso sistema delle primarie, la confusa geografia politica degli stati diversi per composizione etnica e valori di riferimento, lo spettacolo rutilante  delle Convention estive con mascotte di animali simboli dei due partiti, e poi bandiere  e cotillon da carnevale fuori stagione.
Continuano a interessarmi anche ora che la politica quasi sempre mi annoia, forse perché si tratta di una competizione che ha i tratti del puro agonismo.
E’ un po’ come il calcio, tutto è cambiato, ritmi di gioco, pettinature dei giocatori, copertura mediatica delle partite, ma alla fine non riesco a staccarmi completamente.
Anche le primarie sono diverse dal passato, quando ero bambino i soldi pure contavano ma non fino a questo punto, e l’invasione delle tattiche pubblicitarie non aveva ancora monopolizzato il campo.
Ogni candidato ha attorno a sé staff di consulenti, alcuni cambiano casacca ogni elezione come professionisti ingaggiati per allenarli al meglio nella estenuante corsa che ammazzerebbe un cavallo di razza.
Chilometri macinati da autobus, aerei e treni, discorsi fotocopia ripetuti in piccole cittadine, modifiche progressive per adattarsi ai cambi d’umore dell’elettorato.
Ora i favoriti della contesa si misurano sulla capacità di attrarre finanziamenti e sulla disponibilità conseguente di poter acquistare spazi per spot sui network nazionali e  locali.
Quando avevo otto anni c’era Reagan che vinse a mani basse contro Mondale, nel 1988 il candidato democratico era un tale Dukakis, la sorella era un’attrice, non aveva speranza contro il vice dell’amato Ronnie.
Le elezioni più scontate furono quelle del 1996, non c’era alcun dubbio che Clinton  sarebbe stato rieletto, aveva contro un vecchio senatore repubblicano, il solito veterano, non è difficile trovarlo negli Stati Uniti viste le numerose e spesso vane guerre di cui sono stati protagonisti. Si chiamava Dole e manifestava i primi sintomi del deterioramento senile.
Una volta stava rischiando di cadere da un palco  o qualcosa del genere, fu l’ennesima dimostrazione che mai avrebbe potuto ricoprire il ruolo di comandante in capo assegnato al vincitore delle presidenziali.
Nel 2008 ero in California,  a sud di San Francisco, con S. e seppi della vittoria di Obama nelle primarie dell’ Iowa durante una sosta in un drugstore lungo la strada dove ci eravamo fermati  a bere un caffè lungo ed a mangiare una brioche.
A stento conoscevo il suo curriculum, avevo letto vari articoli ma ritenevo che non avesse autentiche speranze di sconfiggere la ex moglie del presidente Hillary Clinton.

Perciò lessi il giornale e valutai la cosa senza darci troppo peso, in viaggio non stavamo seguendo le ultime notizie e poi non ho mai creduto all’importanza del piccolo stato del Midwest.
Assegna pochi delegati ed è rilevante soltanto perché è il primo stato in ordine cronologico dove si sfidano i candidati.
È in mezzo al paese, è uno di questi Stati che vedi dall’aereo mentre voli dalla costa atlantica a quella pacifica, se è sereno puoi vedere campi coltivati a mais.
Quasi tutti in Iowa lavorano nel settore agricolo, fanno pannocchie o vendono pannocchie o fanno ricerche di qualche tipo connesse alle pannocchie, non ci sono neri e la popolazione è mediamente più anziana degli altri Stati.
Man mano però che la candidatura di Obama si dimostrava seria, iniziai a seguire la contesa fra lei e la Clinton.
Leggevo articoli direttamente dai siti on line dei giornali statunitensi, mi informavo su blog politici, vedevo perfino canali all-news di lingua inglese.
L’anno elettorale scorreva parallelo ai miei problemi quotidiani con S., più seguivo le primarie e meno sopportavo di discutere con lei di noie al lavoro e piccole incombenze quotidiane, inseguivo chimere e non ero soddisfatto di me.
Obama vinse quando S. stava cercando un'altra casa, ci eravamo lasciati ma in realtà vivevamo assieme e facevamo l’amore ancora, poco ma forse meglio di prima; succede così a volte, è come il calcio, a volte i colpi migliori ti vengono quando non c’è la tensione della sfida,i giornalisti sportivi dalle frasi fatte usano l’espressione non hai nulla da perdere.
Forse facemmo l’amore per festeggiare la vittoria di Obama oppure ci demmo solo un veloce abbraccio, forse mi piace pensarlo perché sarebbe stato un bel gesto anche se già allora ero abbastanza scettico per non farmi fregare completamente dai video dei rapper che inneggiavano al cambiamento e alla speranza.
Infatti ora sono passati tre anni e Obama è un presidente come qualsiasi altro, qualunque cosa succederà nelle prossime elezioni non cambierà il destino del mondo perché nessuno può permettersi di cambiare alcunché ed io sono più cinico di prima.
S. se ne andò a gennaio,  quando andò a vivere al di là del ponte la andai a trovare un paio di volte, visite di cortesia strane, l’ultima volta che facemmo l’amore fu molto bello, dolce ma anche deciso, Tiziano Ferro canterebbe bellissimo allungando tutte le vocali.
Obama aveva appena giurato come presidente.

sabato 7 gennaio 2012

Contro gli agriturismo





La moda degli agriturismo cominciò in Italia alla fine degli anni ’90, una volta lessi persino un’analisi sociologica sul fenomeno, sui valori che esprimeva paragonati alla passione per l’albergo degli anni ’80, idiozie da supplemento viaggi di quotidiano.
Nemmeno io sono stato insensibile a quella moda, ancora adesso se devo andare a dormire in una zona pseudo rurale consulto una lista di agriturismo.
Ad esempio sfoderai l’arma dell’agriturismo quando io e V. ci eravamo rimessi assieme.
Lo avevamo fatto per stanchezza, come per stanchezza talvolta ci si lascia.
Decisi di organizzare qualche giorno di vacanza fra Capodanno e l’Epifania in Umbria, pianificai un itinerario dettagliato e prenotai un agriturismo.
Quando le comunicai al telefono il mio programma era contenta, si sorprese della mia capacità propositiva, l’amore si era naturalmente esaurito per la mia inerzia e quel minimo soprassalto di volontà l’aveva illusa di cambiamenti in arrivo.
Il posto era vicino Assisi e si chiamava Locanda degli angeli  o qualcosa del genere, c’era sicuramente un qualche simbolo del divino di mezzo.
I proprietari ci prepararono una colazione con formaggi, salumi e una torta salata tipica fatta in casa, non era ancora il tempo dei finti agriturismo e dei bed and breakfast che ti offrono delle monoporzioni di merendine e succhi di frutta.
I proprietari erano una coppia di cinquantenni, eravamo gli unici ospiti e così non fu possibile evitare la loro smania di conversare.
Questo non è invece cambiato, i gestori degli agriturismo ci tengono a parlare con te, a diventare tuoi provvisori amici, si ricordano il tuo nome di battesimo appreso perfettamente dai documenti d'identità, chiedono informazioni private sulle tue origini e sulla tua destinazione, nel viaggio e nella vita, vogliono confidarti le loro radici familiari e i loro propositi pratici.
Di solito aggiungono anche una breve dissertazione sulle ragioni per cui hanno deciso di intraprendere la loro attività e sulle profonde motivazioni che li stimolano ad andare avanti.
Sono ciarlieri in una maniera che ti dà subito una prima impressione di facile simpatia e umanità provinciale, ma dopo un po’ le loro chiacchiere cominciano a stancarti perché non sai come essere reticente o interrompere la conversazione senza mostrarti scortese.
Sei costretto di solito ad adeguarti ai luoghi comuni sulla metropoli che cercano di propinarti, devi fingerti sempre e comunque entusiasta della campagna e della esistenza condotta nei piccoli centri.
Ad esempio la signora dell’agriturismo di Grosseto era contenta di coltivare il suo orto e le sue rose, era piuttosto in carne senza risultare prosaicamente sovrappeso, aveva un’opulenza borghese e riteneva di avere sistemato la casa in modo incantevole con poltrone di vimini e tendine dai disegni arzigogolati alle finestre.

Ero andato lì con S., tornavamo di passaggio da Bologna per la tesi di laurea di sua sorella, ed avevamo deciso di deviare per un weekend di inizio estate nella campagna toscana.
Una sera comprammo per cena gli ingredienti per prepararci un’insalata, un pezzo di formaggio locale e una bottiglia di vino, mi ricordo che bevemmo un bicchiere di bianco come aperitivo camminando in mezzo a campi di granturco ed eravamo felici.
Io almeno sicuramente lo ero, penso anche S., ma non si può essere mica sicuri della felicità altrui, mai si può esserlo anche quando sembra straripare da ogni sguardo; non puoi sapere cosa passa nella testa altrui, è una cosa intollerabile quando si ama ma non c’è rimedio, bisogna rassegnarsi.
Non l’amavo più tanto quando andammo in un altro agriturismo un anno dopo, era in Umbria vicino Perugia.
Una mattina prendemmo due biciclette e facemmo un giro del bosco autunnale che circondava il casale, la proprietaria era una romana reduce dei movimenti studenteschi e aveva aperto l’attività come tutti quelli che dopo le contestazioni sono finiti ad aprire enoteche, osterie del buon mangiare e baretti alternativi.
Compiangeva il traffico e il trambusto della Roma dove viveva ancora sua figlia, ci tornava saltuariamente per andarla a trovare.
La sera in verità mangiammo benissimo, gustai uno dei migliori capretti della mia vita, li allevavano loro mi disse, parlò di alimentazione biologica e della sua scelta di vita senza chiederci troppe cose, posso dire che stemmo bene ma era una parentesi e c’era della malinconia dentro che facemmo tutto per occultare.
Anche con M. andammo in un agriturismo vicino Siena, lei detestava cordialmente la campagna anche se non aveva il coraggio di esternarlo.
Appena arrivammo in auto nel cortile antistante la casa, un moscone enorme e inoffensivo si intrufolò dal finestrino, lei si mise a urlare come se assistesse alla materializzazione del peggiore dei suoi incubi, aveva il terrore di ogni insetto.
Si tranquillizzò solo quando entrammo dentro, alla registrazione la signora dell’agriturismo volle chiarire la nostra relazione e lei era felice che un'estranea per motivi meramente burocratici ci etichettasse come coppia, me lo confessò mentre sistemavamo le valigie nella nostra camera.
Quella notte fu una delle migliori che passammo assieme, in fondo non era affatto campagna vera, c’erano solo latrati di cani in lontananza, eravamo alla periferia semiurbana della città.
Il mattino dopo la proprietaria ci aspettava nella sala comune dove altri ospiti avevano già concluso il loro turno di colazione, era lì con figlia e nipote piccola, voleva precisare i rapporti che intercorrevano tra di noi, sapere dettagli ulteriori sul passaporto italiano che M. aveva presentato alla reception e sulla sua buona conoscenza della lingua.
Ci parlò di una sua parente che andava in vacanza nel Cilento, ogni tanto la nipote interrompeva opportunamente la conversazione con sorrisi e pianti alternati a cui M. non era insensibile.

M. non era scocciata da quella situazione come mi aspettavo, era quasi soddisfatta di poter esaurire le curiosità della tipa, le piaceva rimanere seduta lì e condividere la crostata di marmellata in una mattinata afosa di luglio, la divideva con me per controllare la mia razione di calorie e perchè era stupidamente golosa di ogni dolciume.

giovedì 5 gennaio 2012

Contro lo zoom (pose fotografiche remix)



Ho scaricato Picasa, un programma di Google con il quale puoi visualizzare album di foto on line e condividerli con i tuoi amici.
La prima cosa che fa Picasa è cercare tutte le immagini sul tuo computer, ha iniziato a scansionarle senza chiedermi nemmeno il permesso.
In poco tempo il software ha archiviato impietosamente album e singoli files jpg presenti in memoria.
Mi sono reso conto che nel mio computer sono collezionate megabyte di foto senza che senta mai l’esigenza di guardarle o di mostrarle a chicchessia.
Messi alla rinfusa, fra scrivania e sottodirectory nascoste, paesaggi scattati a ripetizione, facciate di palazzi esteri, fugaci cavalli, ghiacciai che resistono strenuamente allo scioglimento, quasi tutte le foto risalgono all’ultimo anno.
Prima non facevo molte foto né le subivo, ora è tutto un continuo scattare ed essere scattato.
Nelle foto ho una mia posa, riesco a ripeterla con accanita ostinazione, con piccole variazioni dall’una all’altra.
Resto serio, senza sorridere, inclino un poco di lato il capo per manifestare un certo sdegno virile e rabbioso, cerco di trasmettere un’inusitata intensità dal mio sguardo.
La posa l’ho imparata quando M. voleva plasmare le foto che mi scattava come si presume che una scultrice faccia con i suoi modelli chiedendomi di aggiustare il berretto oppure piazzandomi in una determinata posizione per ottenere un effetto auspicato.

Allora ritenevo fosse particolarmente brava visto che le mie foto migliori l’aveva scattate lei, dopo ho capito il trucco ed ora sono molte le istantanee in cui mi piaccio, chiunque sia dall’altra parte dell’obiettivo.
Picasa fa anche una cosa strana, inserisce le immagini in una directory creata dal nulla dall’inquietante titolo persone sconosciute.
Il programma prende dei volti da ogni foto e li scontorna in tanti primi piani decontestualizzati.
Sotto puoi aggiungere una didascalia e accoppiare il volto con il nome corrispondente, cosa simile a quella che ti chiede Facebook per verificare la tua identità quando ti connetti da un posto insolito.
Decine e decine di visi mi sono apparsi all’improvviso, non annunciati, una valanga di facce più o meno conosciute suddivise in righe ordinate una sopra l’altra.
Molti riconoscibili all’istante, altri più vaghi per i quali ho dovuto impiegare una frazione di secondo in più per decifrarli, altri sfocati perché le foto da cui sono tratti non sono venute un granché bene.
C’erano molte facce mie, con occhiali o senza occhiali, nella mia posa studiata oppure immortalato a tradimento mentre sorridevo e parlavo con un anonimo interlocutore che il software brutalmente escludeva.
In mezzo alle foto c’era anche una di M. con un’espressione troppo seria e quasi triste, mi sembrava di non averla mai vista, poi ho capito che era semplicemente colpa dello zoom perpetrato da Picasa senza alcun tipo di autorizzazione.
Non mi piace zoomare le foto anche quando sono state scattate a svariati milioni di pixel da reflex ad altissima definizione, preferisco rispettare il formato originale.
La foto ha senso fin quando il tuo volto o il volto della persona amata sono mescolati al mondo, agli oggetti, agli elementi che lo rendono un frammento dello stesso.
Ad esempio la sua smorfia triste era solo un dettaglio del campo lungo davanti alla spiaggia, ora spiccava incoerente e spietata.
Non ho mai riflettuto sulle sue espressioni in foto forse perché le mie non dicono abbastanza di me.
Una mia amica vide le sue foto e disse che i suoi sguardi erano di una persona che aveva sofferto molto, aveva i brividi a osservarla.
Non l’aveva mai conosciuta ed aveva intuito quasi tutto quello che c’era da capire.
Lì vicino quasi sulla stessa riga c’era anche un mio volto ma quasi non mi sono riconosciuto, la testa era inclinata più del solito e completamente rasata come se mi fossi passato la macchinetta un minuto prima.
Sembravo serbare un’espressione cattiva, soldatesca, ho cliccato per capire da dove il marchingegno infernale aveva ricavato quel primo piano stretto, era una foto che mi aveva fatto M. al delta del Tigre, un posto fuori Buenos Aires dove i portenos vanno a  fare escursioni nel weekend.
Era una località senza nulla di speciale, da un ponte appena fuori il villaggio ci si sporgeva su una frotta di pesci morti galleggianti a pancia in su che dimostravano la poca salubrità delle acque dolci del fiume.
C’era una spianata verde là vicino sulla quale, come in una specie di parodia dell’ONU, avevano issato in sequenza le bandiere di quasi tutti gli stati del mondo. Individuata quella dell’Italia mi ero messo in piedi davanti al vessillo mosso dal vento che soffiava forte quella mattina.
M. aveva scelto un’inquadratura angolata dal basso che unita con il tricolore alle mie spalle, mi avrebbe potuto  involontariamente rendere marziale o nazionalista.
Ero vestito però in modo informale, jeans leggermente larghi, felpa casual da cui si intravedeva una maglietta giovanile, sembravo più adatto per la copertina di un album rap che per una missione militare.
Il formato originale anche in questo caso era molto più accettabile della versione zoomata creata artificialmente dai maghi informatici che hanno scritto l’algoritmo del software.
Non bisognerebbe mai guardare troppo da vicino le cose passate.







martedì 3 gennaio 2012

Contro Alitalia





A Natale il passato ritorna in mente, è una cosa risaputa e banale, ma è più vera per certe persone e per certi segni dello zodiaco.
I Pesci vivono con la mente rivolta al passato ed io non sono da meno.
C’è chi arrabbia quando gioco a fare l’astrologo e dico frasi buttate lì sulle caratteristiche dei segni.
Di solito finisce che cito Miller e le sue dissertazioni strampalate sulla Luna in terza casa e su Marte in congiunzione con Urano.
Le vigilie mi piacciono proprio a causa della mia incapacità di lasciare andare il passato.
Di solito la vigilia di Natale la trascorrevo crogiolandomi nella luce artificiale del soggiorno e uscivo soltanto per verificare come fossero sempre identici i convenevoli borghesi della mia città.
Cercavo di uscire nelle ore in cui il corso principale si era già sufficientemente svuotato per evitare di dover rispondere alle domande su dove ero finito, sul lavoro che facevo e sul mio status relazional sentimentale.

La vigilia di Capodanno invece era il giorno del bilancio, nell’interminabile pomeriggio del 31 prima di cena decidevo le prossime mosse a tavolino in modo puerile come se il libero arbitrio potesse sempre prevalere.
L’anno scorso il 31 fu strano, ero a Roma a fingere di dover preparare gli ultimi preparativi del viaggio per Buenos Aires.
Ci mettevo un’eternità per sbrigare cose da nulla: mettere a posto gli ultimi dettagli del beauty-case, prenotare telefonicamente il taxi, cambiare temporaneamente piano telefonico del mio cellulare.
Per la prima volta avrei passato Capodanno a  bordo di un aereo, fusi orari diversi e la alta velocità dell’aeromobile rendevano complicato prevedere l’ora esatta in cui sarebbe scoccata la mezzanotte o se ci sarebbero state varie mezzanotte da festeggiare a seconda del nostro spostamento.
Ero comunque convinto che il pilota, il copilota e le assistenti di volo sapessero esattamente quando sarebbe stato il  momento giusto per comunicare l’inizio del nuovo anno e che solo per quella notte alla cena usuale  sarebbe stato aggiunto in coda un bicchierino di spumante economico, ma l’Alitalia anche in questo caso mostrò la sua inettitudine burocratica e così ci fu offerta la solita cena con le consuete scelte binarie e nessuno in alcun momento ci augurò a nome della compagnia, dell’equipaggio o del mondo intero un felice anno nuovo.
La gente guardava ogni tanto gli orologi ipotizzando una mezzanotte virtuale, ma nessuno ebbe il coraggio di proporre un brindisi attingendo alle bevande gratuite disponibili sui tragitti intercontinentali.
Non ci furono abbracci né strette di mano fra sconosciuti, un anno finì e l’altro cominciò senza il minimo accenno alla cosa.
Forse già da quello dovevo prevedere che l’anno non stava iniziando affatto bene.