martedì 25 gennaio 2011

Contro il viaggio





La gente partiva per i sentieri e io non avevo voglia di seguirli.
Li guardavo, zaini in spalla, perfettamente attrezzati per salire cinque ore e mi annoiavano.
L’idea di salire in silenzio con piccoli mugugni di soddisfazione all’arrivo di un punto panoramico mi stancava.
Erano felici, lo sapevo perché avevo passato il giorno prima a cercare di imitarli andando solo, sforzandomi di sperimentare una sorta di vuoto e ricevendo in cambio solo una fatica non salutare.

Ero a Chalten, un piccolo paese senza storia della Patagonia argentina, era stato creato poco più di vent’anni fa dopo un conflitto armato contro il Cile, e negli ultimi anni era diventato un famoso campo base per escursioni in montagna di diversa durata e difficoltà.
Io ero deciso a rimanere in ostello a tutti i costi, non avevo più libri da leggere, non avevo computer, non avevo nulla da fare ma preferivo vegetare piuttosto che fingermi contento di salire in mezzo al vento gelido di un giorno di estate.
Di ostelli ne ho visti molti in questi giorni e mi sono diventati odiosi i tipi da ostello.
Giovani olandesi in giro da tre mesi per il Sudamerica che elogiano la Bolivia, ragazzotti americani allegri con i muscoli ben allenati e le loro bottiglie di vino serali, gruppi di amici argentini con i loro mate bevuti a ogni ora del giorno come segno di condivisione, di solidarietà, insomma di qualcosa che attesta una loro visione del mondo alternativa.
La gente all’ostello fa colazione con pane a fette, marmellata, burro, cereali che si portano dietro  come una maledizione da posto a posto, io li snobbo e vado al migliore caffè della città, con sottofondo di musica jazz e un’assurda atmosfera francese.

Mi vergognavo di essere anche io un turista, anche se ci ero capitato quasi per caso, e detestavo ogni tipo di turista.
Quello organizzato che gira nei posti sempre bisognoso di padri e madri sotto forma di guide turistiche, quello che si crede più furbo perché cerca fratelli e sorelle sottoforma di guide turistiche alternative e poi quello  che pensa di essere un autentico viaggiatore soltanto perché si porta dietro la tenda e il sacco a pelo.
Viaggiare dopo un po’ annoia ma nessuno vuole ammetterlo, tutti fanno finta di essere             estasiati, soprattutto quelli che stanno intraprendendo un lungo viaggio che considerano quasi di formazione, dopo ne parleranno di continuo, diventerà una specie di rifugio per gli anni della stanzialità, ora in realtà non sembrano fare altro che collezionare ricordi utili scattando con macchine fotografiche reflex dalle ottiche costose.
Chalten si svuota a mezzogiorno, ci trovi solo quelli che devono prendere un pullman per andarsene o sono appena arrivati, gli altri stanno camminando e sudando, inspirando ed espirando con voluttà.
Tutte le case erano state tirate su in fretta, di legno, sono nate per soddisfare i gusti medi dell’escursionista, in stile pseudo rustico, imitando una qualche Svizzera dell’anima.
Ero finito al Chalten alla fine di un viaggio in Patagonia non voluto, quasi sopportato, viaggio che mi ero imposto dopo una storia d’amore finita male.
Mi stavo accorgendo che non avevo voglia di viaggiare ,che mi era passata, era stata una mia malattia della gioventù, il viaggio, anzi il sogno del viaggio, una utopia mai realizzata e già esaurita.

Volevo tornare a casa, non dico ad una casa fissa, determinata, l’idea di tornare nel mio appartamento accessorriato a Roma mi atterriva ugualmente, sapevo che avrei avuto immediatamente voglia di fuggire appena ci avessi messo piede, mi sentivo la parodia di un vecchio marinaio che non si trova bene in nessun posto, né sulla terraferma né sul mare.
Semplicemente non avevo voglia di dimenticare, di distrarmi, di sfuggire alle cose muovendomi, scalando una montagna, vedendo una colonia di leoni marini o visitando un ghiacciaio ben pubblicizzato.
Le gente si muoveva di continuo e tutto questo per loro aveva un senso, per me no, era solo un grande spreco d’energia.
La Patagonia era bellissima, è bellissima, le steppe semi-desertiche e le montagne rotonde, erose dal vento e dagli anni, che mi piaceva pensare impropriamente lunari, mi facevano pentire della mia insensibilità, della mia incapacità di provare emozioni.
Provavo allora a emozionarmi, tentavo di farlo, mi sforzavo, ma erano sempre emozioni di secondo o terzo grado, piccoli frammenti di stupore che dopo mi lasciavano ancora più inerte e ancora più estraniato dai miei occasionali compagni di viaggio.
I loro sorrisi esibiti, i loro elogi rumorosi di posti visitati, le loro piccole epopee mi lasciavano indifferente, come al solito ero bravo a fingere interesse e calore umano, facevo le domande giuste, chiedevo consigli sui posti da visitare, discutevo di aspetti pratici con padronanza sufficiente per sembrare uno di loro, ma mentivo.
A volte inventavo di sana pianta posti che non avevo mai visto o tappe del mio itinerario futuro che mai avrei fatto e dove non avevo alcuna voglia di andare.
Qualcuno potrà pensare che tutto questo dipende dalla storia d’amore e dalla ragazza, ma la fine di un amore non ha nulla a che vedere con il viaggio, questo viaggiare solo era stata solo la definitiva conferma di un sospetto che mi portavo dietro già da qualche anno.
Non sopportavo più nemmeno l’incrocio babelico di lingue che si sovrapponevano negli spazi comuni e nelle cucine.
Inglese con pronunce differenti, spagnolo argentino, tedesco e poi tutti i bastardismi fonetici delle lingue parlate dai non nativi:
lo spagnolo duro dei tedeschi, l’inglese dei francesi, l’inglese degli italiani e sopra di questo a volte si stagliava l’orrendo spagnolo neutro dei film doppiati che usciva dalla casse della televisione, comunque sempre accesa e con qualche idiota che rideva davanti a una commediola scadente.
E poi tutte le lingue che non riuscivo a decifrare e che provavo a identificare con assurda caparbietà: lingue nordiche, balcaniche, dell’est, sembrava che un intero mondo si fosse concentrato in quel buco sperduto.
Un mondo che si muoveva follemente, in un modo disperato, prendendo aerei, autobus, caricando e scaricando valigie, brancolando alla ricerca di informazioni in un ufficio turistico.
Ero più sereno solo quando ero in trasferimento da un posto all’altro, dopo un po’ mi spostavo perché sapevo che nel pullman avrei provato una specie di anestesia ed ero sempre molto deluso quando, a causa di coincidenze o contrattempi vari, dovevo restare più di due notti da qualche parte.
All’inizio mi muovevo convinto che prima o poi avrei trovato una storia interessante, diversa dalla solita coppia, qualcuno come me,  magari, perso e perplesso in mezzo ad un viaggio non voluto, ma poi mi ero rassegnato e il mio spostamento era solo una forma di attenuazione di un dolore di cui non riuscivo bene a focalizzare l’origine e la ragione.


Mentre penso questo la sovrapposizione delle lingue ha raggiunto il suo climax: tre israeliani sono seduti davanti a me, una coppia di statunitensi parla a bassa voce, alla tv c’è Jim Carrey doppiato in un castigliano che non ho mai ascoltato da nessuno e mai ascolterò, al computer due francesi organizzano i loro prossimi spostamenti. Dietro di me due argentine carine sono tampinate da uno che parla spagnolo con chiaro accento brasiliano.
In cucina due giapponesi si preparano qualcosa con la faccia smarrita che hanno sempre i giapponesi quando si trovano in un posto come questo e intanto una coppia tedesca sta preparando un orrendo sugo iper calorico per la loro pasta.
Tutti sono tornati dalle loro spedizioni, hanno scarpe tecniche, felpe di acrilico, un po’ di polvere addosso e mi sembra che si lamentino soddisfatti della loro giornata spesa bene.

Domani invece io ho un aereo da prendere e mi toccherà vedere anche la ragazza per recuperare parte delle mie cose e poi dovremo discutere, mi ero imposto di farlo e anche se non ha senso, so che lo farò perché non cambio facilmente idea e sono ossessionato dal passato, lo farò con inutile minuziosità e andando nel dettaglio, la annoierò.
So anche che la discussione, sia essa pacata o accesa, non avrà senso, che l’intero addio non ha senso perché ho l’impressione che la ragazza sappia dire addio alle cose perfino peggio di me e perché sarà imperscrutabile come sempre e di questo soffrirò, ma spero solo per il tragitto che mi porta dal taxi all’aeroporto.

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