lunedì 7 maggio 2012

Contro burocrazia




L‘impiegato ha sessant’anni, grossa stempiatura davanti, capelli bianchi che ricadono sulla nuca in ciocche irregolari.
Ha occhiali di radica spessi, marroni, sono contemporanei, di lato il marchio Rayban ad attestare la loro natura vintage, ma sopra il suo volto sembrano gli occhiali autentici di un impiegato della sua età in altri tempi.
Occhiali di un impiegato di sessant’anni negli anni ’70.
Anche gli abiti hanno un taglio datato: la giacca di grisaglia grigia, la camicia bianca inamidata, la cravatta dalle tinte volutamente smorte con colori che si intonano male.

L’ufficio posta è moderno, ha luccicanze bronzee, l’illuminazione è curata come se fosse un franchising, una specie di autogrill della burocrazia.
I numerini vengono fuori uno dopo l’altro con impeccabile precisione, segnalati su display, l’informatizzazione qui funziona e  la fila non è lunga, eppure mi prende la mia solita sottile inquietudine.
Devo pagare una multa e una bolletta, non ci sono complicazioni, posso farlo in contanti o servendomi della carta di credito, non ci sono discussioni da intraprendere ma la cosa mi atterrisce.
Il mio rapporto con la burocrazia di qualsiasi tipo, in qualsiasi forma, avrebbe bisogno di uno psicoanalista.
Ogni volta che devo andare in un ufficio pubblico, sia esso statale, regionale, circoscrizionale, mi deprimo.
Non mi lamento da cittadino sulle inefficienze, sulla pigrizia e la  poca voglia di lavorare dei dipendenti pubblici, non ci sono mai reprimende qualunquiste.
Non mi arrabbio, resto seduto ad aspettare il mio turno e ad osservare i volti delle persone con le loro ricevute in mano proprio come me, le sedie gialle piegabili che scattano come quelle dei pronti soccorso.
Divento catatonico, se ho un libro non lo leggo, inizio a programmare per distrarmi viaggi in posti dove non ci possa essere traccia di strutture che ti offrono un servizio ed esigono la tua attenzione.
Sogno il deserto.
Rifiuto di essere considerato cittadino, di essere inglobato in qualcosa in cui forse non ho mai creduto.
Certificati da stampare, fototessere da portare, parole da scambiare con l’impiegato allo sportello che da tempo ha esaurito la sua scorta di empatia e non ha alcuna voglia di mettersi nei tuoi panni, ne ha tutte le ragioni del mondo.
Mio padre invece è sempre stata bravo nel gestire queste cose, addirittura gli piace, cosa che mi è sempre parsa misteriosa, tenere documenti, controllare che tutto sia a posto.
Con precisione cataloga ogni documento in cartelle di vari colori, ogni tanto le apre e ne legge il contenuto con una lente d’ingrandimento.
Spiana sul tavolo di vetro del soggiorno ogni ricevuta, le spilla con precisione, conserva vecchie carte che possono sempre venire utili ed infatti lo stato per anni ti chiede prove della tua innocenza, dei tuoi pagamenti, ti tiene schiavo alle sue scadenze, ti obbliga ad essere informato, non accetta la vita alla giornata.
Lo stato è sempre autoritario, in manifestazioni che i cittadini buoni si rifiutano di affrontare.
E’ autoritario quando prende ma anche quando dà.
Non è per chi vive d’impulso, supporta e sostiene chi vive sulla base della volontà e dell’organizzazione.
Crea fra te e il mondo reale un’intera categoria di mediatori.
Avvocati, commercialisti, con cui mio padre ha confidenza.
Vuole avere il controllo su quello che osservatori troppo superficiali come me chiamerebbero scartoffie.
Forse perché nelle scartoffie ci ha anche lavorato essendo un funzionario, il tavolo del suo ufficio era sempre occupato da pratiche.
La gente veniva a casa portandogli le lettere che arrivavano dallo stato e che non comprendevano.
Erano quasi analfabeti, parlavano solo in dialetto, erano intimiditi perfino da me che andavo ad aprirgli la porta ed ero un bambino ma pur sempre il figlio del dottore.
Avevano in mano delle buste di plastica con dentro scarole spinaci, salsicce, prodotti dei loro orti, quasi mai erano contadini professionisti, erano grandi dilettanti, sapevano usare alla perfezione diserbanti e concimi.
Si fermavano davanti alla porta, con guance rosse conseguenza di bevute del loro vino paesano pieno di zolfo, squilibrato, che si ostinavano a fare anche se il terreno delle nostre colline non è adatto, chiedevano se c’era mio padre, nel caso in cui non c’era
lasciavano le buste ed io sussurravo un grazie
Sarebbero ritornati per sottoporgli le loro domande, avevano mani callose, sembravano molto più vecchi della loro età, portavano cappelli consumati e dignitosi, non mi rendevo conto allora che sarebbero spariti per sempre, loro e I loro cappelli, che i loro figli li avrebbero rinnegati pur tributandogli un omaggio convinto nel momento delle loro dipartite.
I figli ogni tanto venivano ad accompagnarli e già erano un’altra generazione, avevano magliette e pantaloni che imitavano i marchi di successo, scritte in lingue straniere che non sapevano pronunciare, alcuni di loro erano geometri e ragionieri, quasi nessuno riusciva ad andare all’università, aspiravano ad un impiego pubblico, ad un lavoro in banca, all’ingresso nel campo del terziario.
Iniziavano a dimenticare quello che i genitori gli avevano insegnato da piccoli sulla coltivazione, i loro campi presto sarebbero andati in malora, sarebbero diventati spazio per autovetture, metri quadri per costruzioni pencolanti di dubbio uso, vuoto da riempire con inoffensivi abusivismi suburbani. 

4 commenti:

  1. Risposte
    1. grazie, vi ho letti..beh magari si può collaborare, io dal blog sto facendo anche uno spettacolo..a bologna verrei con piacere..

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  2. alla grande! appena hai il programma o una nota su cosa vorrai proporre mandacelo, magari si trova un posto dove performare anche a bologna!

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    1. Ciao,
      beh mi date una mail così vi mando progetto e promo..?

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