giovedì 5 gennaio 2012

Contro lo zoom (pose fotografiche remix)



Ho scaricato Picasa, un programma di Google con il quale puoi visualizzare album di foto on line e condividerli con i tuoi amici.
La prima cosa che fa Picasa è cercare tutte le immagini sul tuo computer, ha iniziato a scansionarle senza chiedermi nemmeno il permesso.
In poco tempo il software ha archiviato impietosamente album e singoli files jpg presenti in memoria.
Mi sono reso conto che nel mio computer sono collezionate megabyte di foto senza che senta mai l’esigenza di guardarle o di mostrarle a chicchessia.
Messi alla rinfusa, fra scrivania e sottodirectory nascoste, paesaggi scattati a ripetizione, facciate di palazzi esteri, fugaci cavalli, ghiacciai che resistono strenuamente allo scioglimento, quasi tutte le foto risalgono all’ultimo anno.
Prima non facevo molte foto né le subivo, ora è tutto un continuo scattare ed essere scattato.
Nelle foto ho una mia posa, riesco a ripeterla con accanita ostinazione, con piccole variazioni dall’una all’altra.
Resto serio, senza sorridere, inclino un poco di lato il capo per manifestare un certo sdegno virile e rabbioso, cerco di trasmettere un’inusitata intensità dal mio sguardo.
La posa l’ho imparata quando M. voleva plasmare le foto che mi scattava come si presume che una scultrice faccia con i suoi modelli chiedendomi di aggiustare il berretto oppure piazzandomi in una determinata posizione per ottenere un effetto auspicato.

Allora ritenevo fosse particolarmente brava visto che le mie foto migliori l’aveva scattate lei, dopo ho capito il trucco ed ora sono molte le istantanee in cui mi piaccio, chiunque sia dall’altra parte dell’obiettivo.
Picasa fa anche una cosa strana, inserisce le immagini in una directory creata dal nulla dall’inquietante titolo persone sconosciute.
Il programma prende dei volti da ogni foto e li scontorna in tanti primi piani decontestualizzati.
Sotto puoi aggiungere una didascalia e accoppiare il volto con il nome corrispondente, cosa simile a quella che ti chiede Facebook per verificare la tua identità quando ti connetti da un posto insolito.
Decine e decine di visi mi sono apparsi all’improvviso, non annunciati, una valanga di facce più o meno conosciute suddivise in righe ordinate una sopra l’altra.
Molti riconoscibili all’istante, altri più vaghi per i quali ho dovuto impiegare una frazione di secondo in più per decifrarli, altri sfocati perché le foto da cui sono tratti non sono venute un granché bene.
C’erano molte facce mie, con occhiali o senza occhiali, nella mia posa studiata oppure immortalato a tradimento mentre sorridevo e parlavo con un anonimo interlocutore che il software brutalmente escludeva.
In mezzo alle foto c’era anche una di M. con un’espressione troppo seria e quasi triste, mi sembrava di non averla mai vista, poi ho capito che era semplicemente colpa dello zoom perpetrato da Picasa senza alcun tipo di autorizzazione.
Non mi piace zoomare le foto anche quando sono state scattate a svariati milioni di pixel da reflex ad altissima definizione, preferisco rispettare il formato originale.
La foto ha senso fin quando il tuo volto o il volto della persona amata sono mescolati al mondo, agli oggetti, agli elementi che lo rendono un frammento dello stesso.
Ad esempio la sua smorfia triste era solo un dettaglio del campo lungo davanti alla spiaggia, ora spiccava incoerente e spietata.
Non ho mai riflettuto sulle sue espressioni in foto forse perché le mie non dicono abbastanza di me.
Una mia amica vide le sue foto e disse che i suoi sguardi erano di una persona che aveva sofferto molto, aveva i brividi a osservarla.
Non l’aveva mai conosciuta ed aveva intuito quasi tutto quello che c’era da capire.
Lì vicino quasi sulla stessa riga c’era anche un mio volto ma quasi non mi sono riconosciuto, la testa era inclinata più del solito e completamente rasata come se mi fossi passato la macchinetta un minuto prima.
Sembravo serbare un’espressione cattiva, soldatesca, ho cliccato per capire da dove il marchingegno infernale aveva ricavato quel primo piano stretto, era una foto che mi aveva fatto M. al delta del Tigre, un posto fuori Buenos Aires dove i portenos vanno a  fare escursioni nel weekend.
Era una località senza nulla di speciale, da un ponte appena fuori il villaggio ci si sporgeva su una frotta di pesci morti galleggianti a pancia in su che dimostravano la poca salubrità delle acque dolci del fiume.
C’era una spianata verde là vicino sulla quale, come in una specie di parodia dell’ONU, avevano issato in sequenza le bandiere di quasi tutti gli stati del mondo. Individuata quella dell’Italia mi ero messo in piedi davanti al vessillo mosso dal vento che soffiava forte quella mattina.
M. aveva scelto un’inquadratura angolata dal basso che unita con il tricolore alle mie spalle, mi avrebbe potuto  involontariamente rendere marziale o nazionalista.
Ero vestito però in modo informale, jeans leggermente larghi, felpa casual da cui si intravedeva una maglietta giovanile, sembravo più adatto per la copertina di un album rap che per una missione militare.
Il formato originale anche in questo caso era molto più accettabile della versione zoomata creata artificialmente dai maghi informatici che hanno scritto l’algoritmo del software.
Non bisognerebbe mai guardare troppo da vicino le cose passate.







3 commenti:

  1. a me piace un casino come scrivi Pa'. Continuo a ripeterlo e lo ripetero all'infinito. Mi piace proprio
    Sgru

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  2. Sì Pà, e poi soprattutto quando
    inclini un poco di lato il capo per manifestare un certo sdegno virile e rabbioso e cerchi di trasmettere un’ inusitata intensità dal tuo sguardo.

    =D

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  3. beh sono stato un po' lirico, a volte divento lirico, non so cosa mi prendere..caccio fuori certe parole frutto di letture e traduzioni..
    (inusitata vedi..)

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