mercoledì 8 febbraio 2012

Contro gli insulti


Qualche mese fa ero stato coinvolto in un diverbio a San Lorenzo.
Eravamo tre e stavamo per andarcene a casa quando una tipa grossa, sudata e venditrice di fumo iniziò ad alternare moine per spacciare la sua roba ad accuse inesistenti di oscenità a un ragazzo che era con me.
Era ubriaca e fumata, le dissi di lasciarci in pace e lei si arrabbiò, mi disse che non ero buono a scopare, le risposi che certo non mi sarei mai scopato una come lei, si avvicinò e mi gettò del vino sulla giacca.
Mi dava fastidio l’odore del vino da due soldi e il fatto che avesse intaccato una giacca che riceveva complimenti costanti da occasionali conoscenti.
Mi dava fastidio il suo accento romano, incidentalmente notai il colore nero della pelle, strideva con il volgare modo di strascicare le vocali che hanno solo certi romani contemporanei che frequentano il quartiere un martedì qualsiasi d’autunno inoltrato.
Forse mi dava fastidio il fatto di essere stato colpito davanti ad altri o ero frustrato dal non poter alzare la mani contro una donna, malgrado si meritasse una lezione fisica.
Le diedi della puttana e della nera, tutti gli stereotipi repressi quasi perfettamente in anni di buonissima educazione erano usciti fuori ed ora ero davvero pienamente umiliato davanti al mondo.
Me ne andai accompagnato dallo sguardo inquieto di occhi a cui tenevo, sentivo di aver perso il controllo come troppe volte ho fatto con le ragazze che ho amato o mi hanno amato, con amici, conoscenti, estranei.
Un poliziotto scese da un’auto poco distante e mi chiese cosa era successo, spiegai l’aggressione, il vino versato sulla giacca, mi chiesero se volevo sporgere denuncia mentre andavano a calmare la venditrice di fumo, me ne andai a capo mezzo chino.
Appena giunto a casa confessai l’accaduto nel mio status di Facebook come se questo servisse a qualcosa, qualcuno commentò, spiegai male in poche righe cosa era successo, non se ne proferì più parola.
La ragazza che era con me ed aveva assistito alla scena un paio di volte ci tornò indirettamente, malgrado la sua presunta cattivissima memoria che all’occorrenza ha sempre dato prova di strabilianti capacità di rievocare  dettagli non tanto insignificanti quanto crede; lo fece in buona fede, con il suo sarcasmo così poco consono alla sua età, ma che lei sostiene di possedere da sempre.
La cosa l’ho dimenticata, quando vado a San Lorenzo non mi guardo attorno alla ricerca della nera che sicuramente continua a vendere il suo fumo da quattro soldi, eppure evidentemente dovevo riscattarmi e l’occasione giusta per farlo si è presentata ieri sera.

Ero sul marciapiede della metro quando ho visto un tipo pelato e grosso, il classico energumeno romano fascista, avvicinarsi con fare ben più che minaccioso a un trio di asiatici dalla faccia butterata e la nazionalità indistinta, non cinesi, non giapponesi, non filippini, di qualche parte del sud est asiatico di cui non saprei definire con precisione la collocazione.
L’energumeno aveva la peculiarità di avere un divisa da metronotte e sopra il braccio una fascia gialla dell’Atac che gli dava una sorta di ufficialità blandamente imposta e niente affatto rassicurante.
Il metronotte diceva all’asiatico che aveva sbagliato, si avvicinava pericolosamente al suo volto,  chiedeva ragione di un suo sguardo aggressivo, di una mancanza di rispetto ipotetica, intanto con la mano quasi gli toglieva il cappello.
La sua frase preferita era vuoi che ti insegno a vivere, eh?vuoi che ti insegno a vivere?
Il suo insegnamento di vita era andare fuori e picchiarsi da uomini, l’asiatico era magro e poco propenso allo scontro, sembrava un vietnamita spaurito da film di guerra americana, uno di quelli che chiedono pietà in ginocchio nei villaggi bruciati dal napalm, una comparsa.
Gli altri due asiatici dicevano che il loro biglietto era in regola come per scusarsi e il pelato insisteva, diceva che la gente come loro non la vogliamo più nel nostro paese, partiva la solita tiritera da pubblico indignato in dibattito televisivo.

Altri tre metronotte erano accorsi giù, attenti che il loro collega non esagerasse con le mani ma poco propensi a interrompere il monologo, lo approvavano.
La banchina era piena di curiosi che erano pronti a parlarne su Facebook appena rientrati a casa e io mi sono messo a fare domande.
Cosa era successo?
Perché dovevano passare dalla discussione personale ai luoghi comuni più insultanti e generici?
Le mia parole erano precise, mi muovevo in modo scattoso forse, da uno che ha perso la calma, ma le domande erano ben indirizzate e il gruppo dei metronotte lo sapeva.
Erano sulla difensiva, due erano quasi pronti a dileguarsi, a lasciare perdere, temevano reprimende ufficiali, diffide, piccoli problemi per le loro famiglie sventurate.
Un collega del pelato si è avvicinato a me dicendo che non avevo il diritto di intervenire, che non potevo sapere cosa era successo, che stavano lavorando e loro non mettevano bocca mica sul mio lavoro.
Il lavoro, questo ombrello che copre le oscenità più ripugnanti, sempre, da sempre, erano in servizio, stavano lavorando, stavano eseguendo dei compiti, non potevano essere trattati così da questi stranieri.
Il pelato urlava una parola che non capivo, si allontanava di pochi passi dal trio come per sbollire una tensione.
Poi quando ha capito che ero pronto a fare sul serio, è venuto verso di me cercando di incutere timore, stava lavorando, era in divisa, loro erano stranieri e non potevano guardarlo male, si giustificava.
Intanto l’altro mi diceva si scosti, usava una espressione da questurino, burocratica, di cui non conosceva bene il significato, con quell’uso del lei servile che gli hanno insegnato per mettersi la divisa.
Non mi sono scostato, sono rimasto fermo mentre gli altri metronotte se ne andavano verso le scale mobili.
Una ragazza ha detto all’asiatico: io sono contenta che tu sei qui, mi capisci? sono contenta che vivi in Italia.
Gli asiatici comprendevano ma non sembravano scossi dalla rivelazione, è passato il treno, siamo saliti.
La ragazza mi ha lisciato il pelo sostenendo che avevo fatto benissimo, ero stato un grande, era pronta anche lei a intervenire, ma l’avevo anticipata, pensava che avessi ripreso la scena con il telefonino perché stavo armeggiando con quello mentre discutevo.
L’ho dovuta deludere, ho un vecchio telefonino, nessun smartphone e comunque non avrei ripreso la scena per postarla su Repubblica.it
La ragazza è protesa alla soluzione mediatica, l’unica appresa dal mondo,  parla di chiamare un numero verde contro il razzismo o qualcosa del genere, cerca di recuperare il numero verde dell'azienda di trasporti pubblici ma il segnale non è dalla nostra parte.
Il ragazzo che era con lei sembrava intimidito, si sentiva in colpa per non aver dimostrato il mio coraggio, volevo dirgli che tutti nella vita siamo codardi e vigliacchi, che non c’era da essere deferenti nei miei confronti, invece per pochi minuti ancora ho recitato la parte dell’eroe da strapazzo, lo stupido orgoglio che si riaffaccia ad ogni minima occasione.

Tornato a casa ho scritto qualcosa sullo status di Facebook e ho pensato che forse la neve mi sta rendendo davvero migliore.
Venerdì è prevista un’altra bufera, la aspetto fiducioso.

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