martedì 23 agosto 2011

Contro il mal di mare


Mi piace viaggiare in traghetto, mi piace l’odore di cherosene appena arrivi a bordo, la vista sul porto dal ponte, il lento rollio sotto i piedi quando la nave si stacca dall’ancora.
Il primo traghetto di cui mi ricordo mi portava in Sardegna, ero un bambino, al bar un tipo suonava da solo con una chitarra acustica, fece alcuni pezzi di Jobim, fu grazie a lui che scoprii la bossanova.
I traghetti non sono cambiati molto, sono piuttosto insensibili al passaggio del tempo, a parte la nazionalità dell’equipaggio.
Sullo Spalato-Ancona ora sono tutti cinesi, parlano un po’ di inglese, d’italiano sanno lo strettissimo indispensabile (grazie, prego, i numeri per poter declinare i prezzi).
Ci sono cinesi a guidare il parcheggio delle auto, cinesi al bar a prepararti il caffè, cinesi alle casse del duty free che vende alcolici e sigarette a buon prezzo.
È una compagnia di navigazione low cost, sono convinto che risparmi molto sul personale, d'altronde sono in regola con la legge, siamo in acque internazionali e la nave batte bandiera panamense.
Anche qui c’è un tipo che canta al bar, non sembra neanche lui italiano, secondo me è colombiano anche se presumibilmente vive da molti anni nel nostro paese.
Quando entro sta suonando Arrivederci Roma, solo la melodia, senza parole.
Ha una pianola Korg e come accompagnamento dei ritmi da tastiera giocattolo, dopo canta I can’t help falling in love with you, in realtà canta soltanto per sé, non si avvicina al microfono, canta come se fosse in playback.
Negli anni ’80 tutti cantavano e suonavano in playback: nei programmi musicali, nei varietà televisivi, perfino al Festival di Sanremo, non c’era il rischio dell’imprevisto, tutto andava perfettamente liscio.
All’inizio c’era chi faceva gara a occultare al meglio la simulazione, anche se l’effetto poteva risultare comico visto che tutti sapevano della faccenda.
Dopo la cosa divenne così evidente che alcuni non cercarono più di nasconderla, sfruttavano l’occasione per fare azioni che mai avrebbero potuto compiere se avessero dovuto realmente cantare.
Stringevano le mani alle comparse degli studi televisivi, si facevano abbracciare dai loro fan, si buttavano per terra o facevano acrobazie fisiche che sarebbero state incompatibili con i loro acuti sonori.
La cosa più complicata era suonare in playback, per i chitarristi poteva diventare un’opportunità per virtuosismi impensabili, ricordo che la cosa riusciva particolarmente bene alle band di finto hard rock, ma era una autentica tortura per i batteristi.
Il tipo del traghetto, d’ora in poi lo chiameremo colombiano, canta una sorta di playback senza conseguenze visto che non c’è nessuna voce registrata quando muove le labbra, non canta live perché non è abbastanza sicuro della sua voce o ha paura del confronto con Elvis Presley.
La gente continua a fumare, i bar nei traghetti sono uno dei pochi posti in cui puoi tranquillamente farlo, e a guardare nel vuoto; aspetta che le ore passino, non lo ascolta, non lo applaude.
Il colombiano inizia a suonare Brazil, nei momenti più tristi c’è sempre qualcuno che ti vuole rifilare una samba, forse è un modo per esorcizzare il fallimento.
La nave è piena di pellegrini di ritorno da Medjugorie, prevalentemente napoletani e romani, sono divisi in gruppi.
Gruppo mariano 1, gruppo mariano 2, ogni gruppo corrisponde a un pullman, ce ne sono sette, hanno requisito buona parte dell’imbarcazione e sono maggioranza assoluta nel bar.
Sono di età più varia del previsto, non soltanto vecchie zie, ma anche qualche giovane nipote niente male.
La prevalenza è attorno ai sessant’anni ma non mancano i trentenni, decisamente i peggiori: mostri mediterranei dalla faccia pingue che giocano a briscola o scopone senza nemmeno guardare il pianista.
Intanto il colombiano finisce di suonare e fa partire degli applausi preregistrati, dovrebbero incentivare qualche battito di mani che non arriva, quindi mette un cd allontanandosi con una birra media chiara.
Sul cd parte un pezzo lento, una delle mie canzoni preferite, è in dialetto napoletano, si chiama Era de maggio, parla di un appuntamento che si danno due amanti allo scoppiare della primavera, il gruppo dei pellegrini resta catatonico.
Dopo ci sono canzoni napoletani allegre, più facili: Tu vuò fa l’americano e Tamurriata nera, interpretate da Renzo Arbore e la sua Orchestra Italiana.
Prima delle canzoni ci sono anche poche parole di Arbore che le presenta, dice il titolo del pezzo, è un live di successo, si sentono gli applausi in sottofondo.
Non c’è scempio maggiore perpetrato alla musica napoletana di quello che ne ha fatto Arbore con la sua Orchestra.
Ha trasformato dei classici in hit da ballo di gruppo, grazie ai suoi orrendi arrangiamenti sono diventate canzonette buone per emigranti di seconda generazione e amanti di un’Italia da cartapesta.
Renzo Arbore sta alla Napoli contemporanea come Roberto Murolo o Eduardo stava a quella di un tempo.
Qualcuno può dire che c’è di peggio, ad esempio il neomelodico ma quello è un bersaglio troppo ovvio, è solo la deriva del melodrammatico,  l’Orchestra Italiana invece rappresenta la spensierata dimenticanza delle radici, l’impoverimento della borghesia partenopea.

Renzo Arbore in differita ha molto più successo del colombiano dal vivo, i pellegrini cominciano a muovere le gambe, alcune signore cinquantenni smaniano.
Davanti alla tastiera c’è uno spazio circolare simile a quelle delle balere, piccolo ma non tanto da dissuadere dall’ingresso in pista.
Tre donne, infatti, vi entrano su un ballo sudamericano, gli altri pellegrini dai tavoli cominciano a commentare e mostrare interesse.
È una danza tipo Tiburon, con passi fissi, da automa, le tre sono piuttosto coordinate per quanto una di loro sia decisamente grassa, si conoscono bene, c’è complicità nei loro gesti, sono abituate a fare balli del genere in feste di paese dalla motivazione blandamente religiosa.
Dopo arriva di nuovo un pezzo di Arbore e all’improvviso scendono in pista vecchi e vecchie di cui quasi non me n’ero accorto, assieme ad alcune nipoti che appartengono alla categoria del sicuramente scopabile.
A questo punto il colombiano si rende conto che l’intervallo ha più successo della sua esibizione, armeggia con i tasti del lettore cd, scorre avanti precipitosamente, cerca un altro brano di Arbore. 
Nessuno lo applaude, non è un dj, assomiglia di più a quello che metteva le musicassette alle feste delle medie, una figura assolutamente marginale.

Resto lì aspettando che la suspense si spezzi, che arrivi il momento, prima o poi inevitabilmente dovrà arrivare, che il colombiano si risieda sulla sua sediolina nera e riprenda a premere i tasti della sua pianola.
In fondo è pagato per quello e qualcuno della compagnia potrebbe notare la sua scarsa prestazione e tagliarlo per la prossima stagione, o magari basta la delazione di un dipendente del bar.
Ed infatti dopo aver messo un brano di decompressione per rendere meno traumatico il passaggio, il colombiano ricomincia e a sorpresa questa volta canta pure.
Sceglie La Bamba, non ascolto attentamente il suo spagnolo perché potrei restare deluso dallo scoprire che non è abbastanza colombiano come pensavo, poi passa a Let’s twist again.
Sta usando tutta la voce che ha, non è molta, percepisco il suo sforzo per poter arrivare agli acuti, per poter mantenere la nota mentre per la prima volta i pellegrini si accorgono di lui e gli concedono qualche tiepido applauso di incoraggiamento; anche io faccio il tifo per lui, non la mia vicina di divanetto: una trentenne milanese con gli occhiali che se ne sta mezza sdraiata leggendo un romanzo terribile di un qualche autore tedesco o scandinavo.
Uno di quei libri con un titolo talmente generico che potrebbe parlare di tutto e in copertina una farfalla o un’altra immagine analoga per comunicare leggerezza, poesia, saggezza femminile.
La tipa è vestita Decathlon dalla testa ai piedi: porta pantaloni da jogging comodi, scarpe da ginnastica basse, felpa in poliestere adatta per trekking leggeri e traversate in mare.
Era venuta lì per leggere e fin quando il colombiano aveva fatto del sottofondo da filodiffusione tutto era andato bene, ma ora la situazione la stava urtando e si intuiva dallo sguardo nervoso che ogni tanto alzava dal suo libro.
E’ infastidita, anche se non si lamenta con sbuffi o commenti troppo ovvi; vuole assolutamente leggere il suo potenziale best seller che parla di cose che non la riguardano nemmeno lontanamente e, pur senza guardarmi, le dà fastidio anche la mia partecipazione emotiva all’evento.

Il colombiano ora ha preso coraggio ed è passato a eseguire un medley di Rosamunda e una polka famosa, i pellegrini ballano in coppia, per fare un dispetto alla milanese inizio a riprendere con il telefonino l’intera scena.

Nemmeno cinque minuti e la ragazza, dopo essersi guardata attorno per un’ultima volta cercando una via d’uscita impossibile, prende il suo zaino rigorosamente Decathlon, adatto per brevi escursioni e viaggi notturni adriatici, e si allontana.
In fondo la nave è talmente grande che un posto tranquillo e sufficientemente confortevole per leggere il suo maledetto libro non farà di certo fatica a trovarlo.
Peccato, avrebbe potuto guardarmi almeno una volta se voleva esprimere riprovazione, di colpo mi viene in mente il viaggio in traghetto per raggiungere le isole greche a vent’anni, la nave fino a  Patrasso, quella che si prendeva dal Pireo.
Le ragazze sole come lei ma con zaini ben più grandi e pesanti, senza nessun libro da leggere, i loro sguardi incrociati sul ponte, le occasioni mancate per timidezza.
Forse c’erano regole diverse ma chi aveva il biglietto passaggio ponte davvero dormiva fuori, chiuso in un sacco a pelo, era quasi impossibile trovare giacigli al coperto e di solito erano talmente scomodi che si preferiva sopportare ore di vento e umidità.
Mi sembra che nessuno su questo traghetto dorma sul ponte, magari solo perché non è stracolmo, magari perché le regole sono cambiate, o magari sono cambiato io.
Il colombiano continua a fare pezzi veloci ma ancora per poco, evidentemente a una certa ora bisogna cambiare e passare a brani più tranquilli, la compagnia desidera che i passeggeri se la spassino ma senza esagerare.
Così il colombiano cambia ancora genere, riconosco l’intro di Dancing Queen degli Abba, penso che torni ad essere muto ma il tipo mi sorprende di nuovo, inizia a cantare, ha deciso di rischiare il tutto per tutto, rovina la canzone che deve tutto alla voce della solista, ma la rende anche perfettamente disperata.
Quindi mira ancora più in alto, inizia a cantare New York New York, ha esaurito il carburante e al posto della strofa that never sleeps starnutisce, ma va avanti senza fermarsi un attimo, senza esitare o chiedere scusa.
La gente d’altronde è tornata ai posti, è indifferente, nemmeno si accorge dell’incidente, l’energia dei pellegrini è crollata di nuovo anche se i sessantenni si scambiano ancora qualche frase, strascico dei balli precedenti.
Quelli più vecchi e quelle più giovani sono di nuovo spariti, forse sono andati in cabina, forse sono da qualche altra parte del traghetto, di sicuro non sul ponte.
La situazione non mi sembra più così sopportabile, inizio a chiedermi cosa ci trovo di così interessante nelle vicissitudini altrui,  perché sia così attratto dalle situazioni fallimentari e dai personaggi in disarmo, mi chiedo che vita faccia il pianista.
De Gregori aveva dedicato un brano crudele ai pianisti di piano bar credendosi infinitamente meglio di loro, era uno snob già allora e stava iniziando anche a diventare un trombone insopportabile.
Non voglio essere come lui, mi chiedo come sia venuto quel raffreddore al colombiano, se sia colpa di tutte queste traversate.
Intanto lui ha iniziato a suonare I will survive, non canta l’inciso ma sul ritornello non riesce a trattenersi, si avvicina al microfono, dice che sopravviverà.
I pellegrini sono soddisfatti e acquietati, la milanese sta leggendo il libro da qualche parte in sopraccoperta.
Esco sul ponte, la luna è bassa e rossa, il mare è completamente calmo, la nave scivola via senza far rumore.
Se il colombiano continua a sopravvivere a tutto questo ed ha pure la forza di cantarlo, non vedo proprio come non ce la possa fare anch’io.

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