domenica 21 agosto 2011

Contro l'autodeterminazione dei popoli


Il ragazzo è ubriaco ma non troppo, mantiene ancora la lucidità sufficiente per provare a spiegarmi il motivo per cui i serbi avrebbero ragione e il resto del mondo torto.
Si scusa per il suo inglese basico, spera che io capisca ma non c’è molto da capire. La sua è una sintesi che non aiuta a chiarire nulla.
Dice vengo dalla Bosnia ma dalla Bosnia serba, sono serbo, mi sento serbo.
Dice serbi buoni, croati no.
Dice comunisti in Jugoslavia no good, forse comunisti in Italia good, ma in Jugoslavia no good.
Dice fascisti no good.
Mussolini no good, Tito no good.
Quindi, viste le sue difficoltà con la lingua, prende il telefonino e scrive 1992, anno di inizio della guerra in Bosnia.
Ha vent’anni, è convinto che io non sappia nulla della guerra o che comunque mi sia fatto un’idea molto sbagliata.
Dice che non sappiamo bene quello che è successo in Kosovo e che il nostro governo ha sbagliato a riconoscerlo.
Annuisco aspettando che la finisca, mi saluta sorridendo, chiede scusa per il suo inglese e per la sua spiegazione, dice italiani good, your government no good, but you good.
Sono a un festival di musica balcanica in mezzo alla campagna serba, anche il clima è estremo: caldo afoso di giorno, freddo umido di notte.
Non ho mai visto tante bandiere serbe, qualcuno le sbandiera per strada, altri le portano sui berretti militari, qualcuno mi spiega che hanno un complesso significato storico ma non lo approfondisco, le bancarelle vendono magliette con sopra facce che non conosco.
Abbiamo affittato una camera appena fuori dal centro, i nostri vicini sono un gruppo di ragazzi milanesi che suonano musica balcanica.
Hanno capelli rasta, barbe, occhiali neri, un paio di loro sono subito intenzionalmente antipatici con noi, non sopportano che troppi italiani abbiano scoperto il festival o forse ci considerano troppo neofiti.
Vengono qui da diversi anni ma per la prima volta potranno finalmente esibirsi sul palco, lo faranno l’ultimo giorno, nella sezione dedicata agli stranieri.
Provano con le loro tube, trombe e tromboni nel giardino davanti casa.
Suonano cose orrende: cover in stile balcanico di Volare e altri brani italiani, a volte fanno variazioni stile jazz, pensano che nobiliti la loro performance.
Hanno tutto del sinistrorso borghese: volti, modi di fare, battute, luoghi comuni, d’altronde la musica balcanica da noi è una musica da centri sociali, non c’è da meravigliarsi.
Sono ciechi, non si rendono conto o fingono di non vedere che qui è roba da nazionalisti.
In una piazza i ragazzotti dal cranio rasato, abbarbicati ad una statua, urlano slogan per Ratko Mladic e altri criminali di guerra.
Quando parte un brano patriottico aumentano applausi e grida.
Alcuni chioschi mettono ad alto volume la musica turbo folk, la gente balla con entusiasmo.
La regina del turbo folk serbo si chiama Ceca, era la moglie del compianto Generale Arkan, autore di genocidi e stupri etnici.
Ovunque ci sono girarrosti sui quali rosolano pecore, maiali, vitelli; non abbiamo alternative, mangiamo ogni giorno della carne e inizio a pensare che l’aggressività possa essere legata al suo consumo, come sostengono sempre i vegetariani.
La carne te la danno in involti di carta e la afferri con le mani, costa pochi dinari serbi.
Abbiamo nel portafogli dinari serbi, dinari macedoni, kune croate, marchi convertibili bosniaci, siamo diventati esperti di tassi di cambio e di procedure doganali.
Nelle terre di nessuno fra le due dogane ci sono bandiere enormi, inversamente proporzionali all’importanza dello Stato.
Ad esempio quando entri in Macedonia c’è un vessillo gigantesco, penso che il loro governo abbia un problema con le dimensioni.
Nella capitale Skopje, visto che non avevano un centro storico monumentale, hanno pensato bene di farsene uno, così stanno costruendo un parlamento in stile neo-classico all’ennesima potenza ma le colonne sono di cemento armato perché non hanno abbastanza soldi per farle di marmo.
Di fronte hanno piazzato una statua gigantesca di Alessandro il Grande in sella a un cavallo ghignante e dalla bocca larghissima, una signora orgogliosamente sostiene che lo ha costruito una azienda di Faenza.
L’autodeterminazione dei popoli era di moda a inizio anni ’90, si creavano nuovi Stati e tutti erano contenti di riconoscerli: nuovi scranni all’ONU, nuove inutili diplomazie, nuove banconote con facce di poeti e scrittori sconosciuti.
Con la scusa dell’autodeterminazione e dell’etnia spesso ci si divideva per motivi biecamente economici.
Io fui per l’autodeterminazione solo per pochi mesi, poi capii che l’ansia di ogni popolo ad avere una nazione era una trappola, non c’entrava niente lo spirito risorgimentale.
Dividi ricchezza e resta povertà spirituale, mi sembra che sia questa la lezione dell’ex Jugoslavia.

D’altronde io ero cresciuto con la Jugoslavia e mi sembrava uno stato autentico, non una costruzione a tavolino ideata dopo la Prima guerra mondiale, come sostenevano gli opinionisti.
Croati, serbi, sloveni erano parole che avevo visto solo nei libri di storia o in orrende poesie ottocentesche lette a scuola.
La Jugoslavia era uno dei paesi leader di quel blocco indistinto che si definiva dei non allineati, un terzo blocco neutrale ma dalle aspirazioni divergenti che non incise mai sull’influenza delle due superpotenze.
Di certo l’esperimento slavo era strano, i suoi cittadini potevano viaggiare senza problemi per l’Europa, c’erano accordi e scambi commerciali con gli Stati Uniti, era una forma di comunismo autarchica e apparentemente molto efficace.
Alcuni parlarono di miracolo jugoslavo perché lo sviluppo economico del paese dal 1945 al 1980 fu straordinario, si basava su città medie e piccole dai nomi sconosciuti.
La notte prima di arrivare al festival ho dormito in una di queste anonime città: Uzice.
La guida diceva che era famosa per una fabbrica di armamenti che costruiva 400 diversi tipi di proiettili.
Prima era quasi a metà strada fra Belgrado e Sarajevo e si trovava al centro della Jugoslavia, ora è alla periferia della Serbia, è lo scherzo che fanno i  nuovi confini, ti spostano il baricentro e le città sono le prime vittime.
Alle tre di notte stavamo facendo un giro in auto alla ricerca di piccole insegne con su scritto hotel e non ci eravamo accorti che sopra di noi si stagliava la sagoma imponente dell’albergo Zlatibor.
Un palazzo altissimo che somigliava a un missile pronto al decollo, lo vedemmo solo usciti fuori dalla città.
Il portiere ci diede le chiavi di una camera al quattordicesimo piano, l’ultimo, in effetti era proprio l’ultima camera in assoluto, in fondo al corridoio.
Si saliva su un ascensore che arrivava fino al dodicesimo, poi bisognava per forza continuare a piedi.
L’ascensore era grigio e coperto di graffiti come se fossimo in un film ambientato nel Bronx alla fine degli anni Settanta.
La moquette rossa era staccata in più punti e coperta di macchie, la porta si apriva con una normale chiave e non con le card magnetiche in dotazione agli alberghi contemporanei.
La moquette della camera era arancione, identica a quella della stanza dove da bambino giocavo a Subbuteo, per terra.
Non eravamo giocatori da tavolo, sulla moquette potevi essere più rapido nei movimenti, non dovevi girare attorno al tavolo per poter colpire, tutto era più spettacolare; in compenso la pallina scorreva più lenta, era come giocare a calcio sull’erba alta, come sui campi in Brasile.
In Italia le partite del calcio brasiliano le trasmetteva Tele Capodistria, forse perché gli jugoslavi erano chiamati i brasiliani d’Europa visto che erano fortissimi dal punto di vista tecnico e incostanti da quello caratteriale.
Quando ormai la moquette fu inesorabilmente fuori moda per colpa delle paranoie igieniste e della allergie da acari e anche nell’ultima camera di casa mia arrivò il parquet, il Subbuteo cominciò a svanire.
In tutte le case di colpo si cambiavano i pavimenti, non eri nessuno se non avevi almeno delle mattonelle di ceramica di prima scelta, ormai a giocare restavano solo i seriosi giocatori da tavolo.

La camera dell’albergo Zlatibor continuava ad avere la moquette; se avessi avuto con me un campo verde, due porte e ventidue giocatorini di plastica mi sarei messo a giocare da solo.
La camera d’albergo aveva anche un telefono arancione voluminoso e con la tastiera a disco, sembrava una parodia di quel telefono rosso che si diceva mettesse in comunicazione diretta i presidenti di Usa e Urss, invece serviva per una chiamata alla reception per avere toast o whisky che mai arriveranno.
Sul comodino il depliant prometteva lussi che da tempo l’albergo aveva perso.
Un ristorante con cucina nazionale e internazionale, un bar nel quale erano disponibili i migliori liquori e cocktail, una terrazza con vista panoramica sulla città e un servizio 24 ore su 24 di risposta solerte della portineria ai tuoi desideri.
La foto del depliant era stata scattata negli anni Ottanta, si capiva dall’abbigliamento di un passante sullo sfondo, erano vecchi depliant che continuavano a esistere solo perché nessuno era come me, nessuno aveva il desiderio di portarseli a casa.
Il soggiorno all’hotel Zlatibor non è cosa di cui ci si vuole ricordare e a Uzice non ci sono più le convenzioni con il Partito o con qualche ente industriale pianificato.
Turisti non ce ne sono e le camere sono quasi sempre vuote.
Il letto era identico a quello che aveva un mio zio, grigio e nero, con dei tubolari ingombranti dall’aria equivocamente avveniristica.
Ora vanno di moda letti di legno chiaro oppure minimali letti in stile asiatico.
Le regole scritte sul retro della porta d’entrata erano diverse da quelle degli alberghi medi di tutto il mondo: era possibile avere uno sconto sulla tariffa giornaliera se restavi per meno di otto ore e il check out era incredibilmente tardi, all’una, un check out da rock star finalmente, non quei check out alle 10 che ti obbligano a comportarti da bravo ragazzo o a fingerti tale.
Anche il balcone sulla città era perfetto per depressioni da cantante in crisi, aveva un parapetto basso, ideale per suicidi scenografici.
Il giorno dopo scesi per le scale e ad ogni piano c’era una lampada dal design troppo complicato, quasi tutte erano fuori uso.
Arrivato al quarto mi accorsi che in realtà l’intero piano non era più adibito a hotel.
La moquette era stata quasi completamente staccata, le camere erano sottosopra, ingombre di oggetti provenienti dagli altri piani, le porte  divelte e  senza segni di ristrutturazione in corso.
Sono sempre stato attratto dagli alberghi falliti e dismessi, ogni volta che ne vedo uno mi viene voglia di entrare e mettermi a esplorarlo, ma non avrei mai pensato di dormirci dentro.
L’albergo stava morendo ma la malattia aveva raggiunto solo il terzo piano, il quattordicesimo era temporaneamente risparmiato.
Arrivai al piano terra, c’era un enorme bancone vuoto, forse l’ex bar che serviva cocktail esotici, alcune poltrone di cuoio maestosamente lise, da una porta mezza aperta si intravedeva una enorme sala vuota, presumibilmente il fu ristorante con menu internazionale.
Alla reception i portieri erano insonnoliti anche se era mezzogiorno inoltrato, registravano clienti su computer con sistemi operativi obsoleti e guardavano pigramente un canale televisivo che trasmetteva video musicali di pop jugoslavo di trent’anni fa.
Non faceva alcuna differenza se i cantanti con le acconciature improbabili erano serbi, croati e sloveni.
Erano comunque tutti jugoslavi.

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