sabato 27 agosto 2011

Contro la speculazione edilizia


Mio nonno non amava la spiaggia, eppure aveva deciso di comprare un pezzo di terra negli anni ’70 a trecento metri dal mare e vi aveva costruito una villa.
Al mare non ci andava mai.
Qualcuno potrà pensare che l’avesse fatta per sua moglie, ma in realtà anche mia nonna il mare lo bazzicava poco.
Ci andava solo di rado portandosi la sua sediolina personale, si piazzava sotto l’ombrellone e cercava di resistere sbuffando.
Forse perché nessuno dei due sopportava il mare, avevano deciso di trasformare la villa in una specie di parco.
Avevano piantato pini, pioppi, larici, eucalipti, in pochi anni non era rimasto quasi spazio per il sole, le donne della famiglia andavano a abbronzarsi sulle terrazze del secondo piano, l’ombra trionfava.
Erano riusciti a realizzare una perfetta casa di montagna sulla costa.
Un pino argentato svettava più in alto di tutti, solo a guardarlo la temperatura scendeva di qualche grado.
Non ricordo sensazione più rinfrescante del passaggio dai trecento metri della strada, polverosa e non asfaltata, al fresco che sentivi appena ti avvicinavi al cancello.
L’aria condizionata non esisteva.
Per me la spiaggia era questa, a trecento metri dalla villa: potevamo saltuariamente fare qualche puntata in altre spiagge della zona, ma erano sempre spiagge straniere.
Le spiagge della Costiera Amalfitana, piccole e di sassi, per me sono sempre state inospitali.
Sono nato sulla sabbia.
La spiaggia della villa aveva il dono di essere lunghissima e larga, dietro c’erano canne e piante grasse, il rudere della torre di avvistamento in lontananza mi sembrava la mezza Statua della Libertà che Charlton Heston scopre sommersa nell’ultima scena del Pianeta delle Scimmie, uno dei più grandi finali della storia del cinema.
Quando ero bambino nei dintorni della villa esisteva solo un villaggio turistico sobrio e senza animazione, di fronte avevamo una discoteca in pure stile anni ‘80, piccola e con rassicurante giro di eroina sospetto, poi poche case di gente del posto.
Ogni anno però cambiava qualcosa: la discoteca divenne un albergo guadagnando un piano; il prefabbricato affianco si trasformò in autentica casa in muratura e si avvicinò pericolosamente alla recinzione della villa, sorgevano nuove abitazioni costruite in fretta e furia appena la stagione finiva.
I locali comprendevano che si poteva guadagnare con il turismo e cercavano di allargare abusivamente le loro case per quelli che mio nonno chiamava, con giusto sdegno, i villeggianti.
Ora tutta la strada è piena di case e in realtà non è ancora finita, ogni anno succede qualcosa di nuovo, sono stato costretto ad abituarmi alla speculazione edilizia: non astratta entità da combattere ma presenza concreta, visibile, accerchiante.
Il villaggio si è ingrandito comprando degli appezzamenti di terra dove prima c’erano sterpaglie, hanno costruito degli orrendi bilocali in calcestruzzo pensando che fossero una evoluzione del bungalow.
Sulla strada parallela hanno fatto delle villette appena più decenti come architettura ma sono comunque cemento, implicano in ogni caso auto, gente.
Detesto la densità italiana, il nostro paesaggio invaso dalla concentrazione di corpi, sono contrario al diritto universale alla seconda casa economica, all’appartamento al mare.
La densità è ancora più terrificante  nella mia regione, non c’è mai una pausa fra un paesone e l’altro; le città sono unite da negozi di elettronica, mobilifici, capannoni delle zone industriali.
Portici, Napoli, i derelitti paesi vesuviani si riversano qui da anni.
Famiglie troppo allargate si ammassano in appartamenti minuscoli, si abbuffano, guidano male le loro auto, sgridano i lori bambini obesi.
Ieri sul corso pedonale un energumeno con catena e camminata prepotente indossava una maglietta con scritto Don’t trust in Italian Justice (non fidarti della giustizia italiana).
La villa è una fantasia architettonica anni Settanta venuta male.
L’architetto aveva idee grandiose e fuori misura, aveva previsto angolo bar e stanza per cameriera, entrate principali e secondarie, i miei nonni avevano subito le sue proposte in modo passivo ma poi avevano democraticamente trasformato la camera della ipotetica cameriera in una specie di di sgabuzzino da usare come stanza da letto solo in caso di emergenza.
Cosa che poteva accadere visto che la famiglia era grande e spesso capitava che la villa ospitasse venti persone, fra fissi e frequentatori occasionali.
L’angolo bar invece era diventato l’antro oscuro dietro la televisione: una tana per ragni dalle gambe esilissime.
Le entrate principali e secondarie si confusero, e le scale di cemento rosso passarono dal rango di scalinata di rappresentanza a estremo limite per giochi in bicicletta o per imitazioni di Olimpiadi.
Corsa veloce fino alle scale rosse, dieci giri alle scale rosse andata e ritorno.

Dopo la morte di mio nonno fu decisa una turnazione fra i figli onde evitare conflitti di natura balcanica, così la villa è diventata più ordinata e vuota di come la ricordavo.
Mio nonno aveva classe, aveva fatto la terza elementare e si era fatto da solo senza l’arroganza di chi se la fa da solo ai nostri tempi.
Gli piaceva piantare meloni, albicocche, peschi, fichi.
Passava il giorno in villa con una pompa in mano, vestito con camiciole bianche e vecchi comodi sandali.
Una volta un tizio, stupito dal parco e vedendo il cancello aperto, entrò e gli disse: “Buon uomo, posso parlare con il suo padrone?", mio nonno rispose sorridendo:”Mi dispiace, il padrone è partito, torna solo fra qualche mese”.
I miei nonni avevano classe e passione per il kitsch, le due cose non sono sempre in contrasto.
A mia nonna ad esempio piacevano le fontane e così comprò una fontanella a due piani di marmo, con sopra un angioletto.
A una certa ora della sera chiedeva la sua accensione, come una specie di capriccio.
Restava a guardarla seduta da lontano.
Da anni lo fontanella non funziona più, la sua decadenza è iniziata dopo la morte di mia nonna.
Prima si sono fulminate le lampadine e nessuno le cambiava, quindi nessuno l’ha più coperta, come faceva mia nonna in modo affettuoso a fine estate, ora ho visto che si sta sgretolando, sarebbe pronta per essere gettata ma nessuno ha il coraggio o l’autorità di farlo.
A fine estate c’era questo lungo rito della chiusura della casa che io non capivo.
I lampioni del viale erano ricoperti da buste di plastica, le panchine e le sedie venivano spostate in casa, ogni cosa era riposta in bauli e chiusa a chiave.
Il rito avveniva ad inizio settembre, spesso capitava di farlo in un giorno grigio, che presagiva un autunno ancora di là da venire.
La chiusura della villa era qualcosa di definitivo, sotto il comando rigido dei miei nonni non era ammissibile un ritorno a settembre o ottobre, malgrado il clima ultra temperato del nostro Meridione.
I weekend fuori stagione erano eccezionali e avevano sempre qualcosa di precario.
Si apriva il minimo indispensabile, si preferiva mangiare dentro piuttosto che fuori, sedie e tavoli restavano impilati da qualche parte, e bisognava sempre dedicare qualche ora a spazzare il viale.
D’altronde la casa era stata pensata per il periodo estivo, non aveva nessuna comodità adatta all’inverno, il riscaldamento era stato progettato nei minimi particolari ma mai realizzato.
Restavano così spuntoni di ferro acuminato che erano gli attacchi per i termosifoni virtuali.
Con il passare degli anni gli alberi si sono seccati o sono stati abbattuti per svariati motivi,  non sono stati rimpiazzati adeguatamente, nel periodo d’oro ce n’erano talmente tanti da aver creato quasi un micro clima: nascevano nuovi alberi in modo casuale, alcuni alberi soffrivano della vicinanza con altri e crescevano storti, c’era qualcosa di tropicale in tutto questo.

Ora il sole si insinua da molte parti, so che a mio nonno avrebbe dato fastidio, avrebbe detto che ce n’era troppo, troppi spazi scoperti.
La pavimentazione del viale regge malgrado tutto ma di quando in quando crescono erbacce fra gli interstizi, gli intonaci avrebbero bisogno di un intervento drastico, un paio di tavoli sono stati sbriciolati dai tarli, l’arredamento si è impoverito con vecchi letti di seconda mano di varia provenienza familiare, è diventato eclettico.
I terrazzi sono agibili ma in realtà poco frequentati, si tendono a preferire sempre le stesse zone della casa, quelle che hanno un minimo di manutenzione, quelle più vissute e rassicuranti.
Io sono riuscito a sopportare gli scempi visivi e sonori che si sono susseguiti anno dopo anno: le urla dei bambini del villaggio alle nostre spalle, gli annunci degli animatori che richiamano gli ospiti al cabaret serale oppure alla partita di  scopone, i pilastri di cemento delle nuove abitazioni, le magliette, i costumi e perfino le mutande con stampati sopra riferimenti alle prodezze del Napoli Calcio.
Sopportavo tutto perché alla fine c’era sempre e comunque la spiaggia, anche se assediata da più parti. Gli ombrelloni dei villaggi si infittivano lasciandoci sempre meno spazio ma c’era sempre il mare dove rifugiarsi.
Il mare è rimasto pulito, non è questo il problema, non mi piaceva mica per questo, mi piaceva perché c’era un orizzonte libero, perché c’erano delle secche che ti permettevano di andare lontano lontano senza dover per forza essere un nuotatore provetto.
Così quest’anno quando sono arrivato per la prima volta sulla spiaggia e ho visto una barriera di scogli messa a far da battigia a 30 metri dal bagnasciuga, mi è sembrata una profanazione.
C’era un uomo sopra lo scoglio, aveva in mano addirittura una canna da pesca, e una barca ancorata appena più in là.
Sembrava un lungomare qualsiasi di una stupida località portuale.
Hanno messo una barriera di scogli artificiale per evitare che il mare si mangiasse tutta la spiaggia.
Anche qui il surriscaldamento globale e l’innalzamento conseguente del livello del mare non sono più una cosa astratta, un articolo allarmistico di quotidiano o un saggio ambientalista, sono diventate realtà concreta, visiva, intollerabile.
Speravo che il mare si vendicasse di ciò che gli avevano rubato, che straripasse d’autunno sulle case restituendomi la spiaggia intatta come l’avevo conosciuta.
La battigia per ora rimanda questo positivo desiderio di distruzione.
Forse devo rassegnarmi al fatto che la mia spiaggia non è più la mia spiaggia.
Le cose non possono durare per sempre.


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