martedì 27 settembre 2011

Contro il mio portiere ( e forse contro tutti i portieri)



Una ragazza urla e piange da qualche appartamento del mio palazzo, forse è vicina a qualche finestra aperta e nel cortile la sua voce lamentosa rimbomba.
Non mi fa dormire, ma non ho il coraggio di protestare.
Anche se dal tono e dalla lamentosità intuisco un problema stupido tra fidanzati, qualcosa che si potrebbe evitare, lei deve essere una studentessa di quelle che popolano il mio condominio, lui uno che la sta mollando o tradendo o entrambe le cose.
In sottofondo il rumore di macchinari del supermercato, a volte si sente più forte, non so se dipenda dalla temperatura esterna o dalla mia sensibilità auricolare interna.
Il mio cortile interno è brutto, i palazzi sono ammassati l’uno all’altro in varie tonalità di giallo. E’ un cortile ampio, spoglio che non ha nulla di popolare ma nemmeno segni di rispettabilità borghese.
Non ci sono balconi, l’unico terrazzo è talmente incastonato fra i palazzi e carente di luce che è popolato da piante rachitiche, il proprietario ha deciso di non curarle.
I cortili dovrebbero essere associati a suoni di vasche da bagno e docce, di pulizie domestiche rassicuranti, ma il mio cortile è invaso principalmente dalle voci dei commessi del supermercato e dai suoni stridenti delle ruote dei carrelli.
È un cortile che si anima solo in orario lavorativo.
Mi ricordo che a Buenos Aires erano perfino troppo invadenti i suoni dello strettissimo cortile quadrato.
Stralci di canzoni alla radio messe su da studentesse ventenni, televisioni accese ad altissimo volume a qualsiasi ora del giorno  e della notte e sintonizzate su idioti varietà televisiva, ogni tanto mi alzavo e gridavo in spagnolo che la finissero.
L’insonorizzazione complessiva era scadente, gli edifici costruiti in economia, la speculazione immobiliare ancora con meno scrupoli.

Quelli del piano di sotto avevano una specie di veranda, il loro soggiorno era visibile da ogni appartamento che affacciava sul cortile, erano una coppia di anziani con poltrone di cuoio da sitcom americana anni ’70.
Restavano a guardare programmi pomeridiani di gossip, quasi mai discutevano di qualcosa, ogni tanto arrivava qualcuno più giovane, forse figli o nipoti in visita temporanea, a volte li ho intravisti mangiare mentre ero appoggiato al balcone e il gatto mi girava intorno.
Non mi affaccio mai nel mio cortile: troppe finestre accese o spente, nessun segno di vitalità eccetto qualche salutare grido di lattante o qualche chiacchierata telefonica.
L’ultima volta che l’ho fatto stava nevicando e cercai inutilmente di scattare delle foto che ritraessero una sorta di letizia infantile, non ci riuscii, i fiocchi esili di neve con lo sfondo di cemento erano desolanti.
Ogni tanto sento la voce del mio portiere nel cortile, vive nel sottoscala e parla con qualcuno, di solito il sabato mattina o la domenica, quando ha il giorno libero.
Ogni tanto si ricorda persino di poter deambulare fuori dal quartiere, infatti l’ho ascoltato organizzare sporadiche gite al mare.
Il mio portiere è in ferie da tre settimane.

Al suo posto c’è un sostituto, sorride e saluta sempre, è stato mandato da una ditta, cambia sempre palazzo, non ha tempo di annoiarsi, il nomadismo precario lo fa vivere meglio.
In questi giorni scendo ogni mattina per le scale, con il mio portiere ero costretto a prendere l’ascensore per non rovinare la sua pulizia dei marmi funerei.
Te lo chiede in modo perentorio, con una domanda retorica senza possibilità di risposta negativa.
In questi giorni esco e rientro di casa più volte al giorno, a volte anche con intervalli molto brevi, lo faccio per ridiventare padrone dei miei gesti.
Se esci troppe volte di casa il mio portiere ti guarda con un misto di riprovazione e sorpresa.

Detesto il mio portiere, con le sue cuffiette al gabbiotto o la piccola televisione che ha in un angolo, sempre pronto a ragionare su insulsi fatti condominiali, eternamente con la sigaretta fuori dal portone.
Quando pulisce le scale si sente il padrone del palazzo, fischia, canticchia orrendi stornelli romani allungando le finali.
Se qualcuno viene a trovarti gli chiede in modo sgarbato, a brutto muso, dove sta andando.
Ogni volta che i tuoi ospiti passano per l’atrio del palazzo li scruta attentamente, cerca di metterli in difficoltà, insiste con il suo sguardo come se fosse sempre sul punto di dover dire qualcosa.
Divenne gentile e sorridente solo quando doveva chiedermi che fine aveva fatto S., la mia compagna, voleva certificare la fine di un amore.
Quando le dissi che non abitava più con me, che c’eravamo lasciati, si  mostrò solidale, parlò della sua ex moglie da cui si è separato una vita fa, ben prima di essere diventato nostro dipendente.
Fra poco ritornerà dalle sue ferie, ma in realtà non se ne è mai andato, si è solo spostato dal nostro pianerottolo all’angolo della via.
Da lì guarda ancora cosa accade, altre volte l’ho incrociato su qualche marciapiede del quartiere,  porta pantaloncini troppo corti, saluta sempre ma non ha simpatia nei miei confronti.

Il suo sorriso tirato, dovuto, di mattina non è mai un buon augurio.
Forse non è nemmeno solo colpa sua, il suo malessere ha qualcosa di esistenziale, è legato al suo ruolo.
Sono contrario al portiere fisso, stabile, padrone del palazzo e dei suoi tempi meschini.

Sono per il licenziamento in tronco di ogni portiere e non me ne frega nulla dei diritti sacrosanti dei lavoratori, della giusta causa e delle alzate di scudo dei sindacati confederati.


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