venerdì 15 luglio 2011

Contro i libri di grammatica per stranieri

I libri per imparare un'altra lingua hanno sempre frasi stereotipate sul lavoro che fa Juan o sulle uscite serali di Anna.
Sono pieni di espressioni che mai nessuno ha usato e raccontano un mondo che non esiste: un mondo in cui ogni problema quotidiano diventa di primaria importanza e le questioni esistenziali e i tormenti amorosi non sono contemplati.
Avevo sempre il mio libro nella borsa, assieme alla penna e al quaderno degli appunti.
Andavo a lezione come uno scolaretto, facevo colazione al bar all'angolo della scuola con un caffè cortado e tre medialunas di manteja leggendo i giornali argentini e finendo gli esercizi assegnati.
A lezione eravamo in pochi: una studentessa di biologia che era venuta a Buenos Aires per finire la sua tesi, era già innamorata dell'Argentina e inevitabilmente si sarebbe lasciata con il suo ragazzo toscano, ora è tornata in Italia e mette status su Facebook in spagnolo rimpiangendo la città perduta; una francese sempre sorridente che viaggiava per il mondo con una leggerezza che mai avrò, e un canadese del Quebec che non capiva nemmeno una parola di spagnolo e parlava male persino l’inglese, si era appena messo in pensione e aveva deciso di venire a Buenos Aires per seguire suo figlio che si era trasferito lì da qualche mese.
Aveva qualche problema con lui e voleva cercare di recuperare il rapporto, ma il figlio a stento gli parlava e così il canadese restava in casa senza nemmeno poter scambiare una parola con i suoi due coinquilini, degli argentini stronzi che quasi non lo salutavano.
Una volta nell'intervallo scoppiò in lacrime, vedere singhiozzare un uomo di cinquantacinque anni ancora pienamente in forma mi scosse.
Sono cose che il libro di grammatica per stranieri non contempla.

Di professori ce n’erano tre, insegnavano a rotazione, ognuno aveva il suo metodo:
uno era ossessionato dalle regole e scriveva in continuazione sulla lavagna coniugazioni di verbi e esempi di frasi; un altro era un musicista frustrato, ogni occasione era buona per divagare e sfuggire ai suoi doveri didattici, e poi c’era il mio preferito, Alejandro: pelato, psicoanalista e gay, frequentava solo brasiliani perché detestava l'arroganza dei portenos, era di Mar del Plata e viveva con la vecchia madre.
Cercava sempre modi ingegnosi per spiegarti le cose.
Io ero il migliore del corso, ma avevo una lacuna che mi porto dietro anche ora, non riuscivo a pronunciare bene la J, in spagnolo si chiama la cota.
M. disse ad Alejandro che il suo nome era la prima parola con la cota che avevo provato a pronunciare perché era il titolo di una canzone di Lady Gaga molto di moda l’estate scorsa.
Quando parli una nuova lingua la prima parola che provi a dire ha la sua importanza.



M. mi era venuta a prendere di sorpresa, voleva accompagnarmi dall'oculista, aveva bussato ed aveva chiesto se potevo uscire, proprio come si fa con gli alunni.


Con M. parlavamo italiano anche in Argentina, il suo spagnolo era troppo smozzicato e rapido, perfino le sorelle a volte dicevano di non capirla, anche il mio italiano è veloce e poco comprensibile, tronco troppo le finali ma lei si era abituata.
Provai a rallentare la mia voce solo all'inizio, per qualche ora credo, poi presi a parlarle normalmente.
Lei studiava italiano da un anno e mezzo, era la seconda della classe, ma dopo aver imparato a decriptarmi era diventata nettamente la migliore.
Si preoccupava ancora degli esercizi e degli esami perché era scrupolosa ma in fondo sapeva benissimo che non c’era nulla da preoccuparsi.
Correggevamo gli esercizi assieme sul letto, c’era il suo gatto ai nostri piedi, lei aveva la matita magenta che le avevo regalato e con piccoli scatti ansiosi indugiava su una frase.
Sbagliava poco, ogni tanto le spiegavo qualche particolarità grammaticale di cui venivo a conoscenza solo attraverso la pratica.
E’ strano quanto riflettiamo poco sulla lingua che parliamo o sulla cucina che cuciniamo, ce ne rendiamo conto solo quanto siamo davanti a uno straniero che sta provando ad impararla.
Allora ci rendiamo conto delle nostre espressioni, del modo in cui ordiniamo le parole o degli ingredienti che ci mancano.

Ad esempio girai tre supermercati per trovare una mozzarella che avesse una consistenza appena paragonabile a quella che si trova in Italia, mi serviva per una parmigiana di melanzane e non sono proprio riuscito a trovare il mascarpone perfetto per il tiramisù.
M. volle che andassi persino a una lezione di italiano, mi presentò le sue compagne di classe e la sua professoressa, argentina con i genitori di Avellino, mi fece anche entrare dentro.
Mi chiese di farle da assistente, controllai alcuni esercizi, risposi con fatica a una domanda difficile, M. si sentiva molto sicura di sé, faceva battutine, era simpatica ed estroversa come non era di solito con il mondo, si sentiva al sicuro fra le quattro mura della classe.
Erano quasi tutte donne eccetto un avvocato rigido che non sorrideva mai, fra di loro c’era una che tutte prendevano in giro.
La tipa era una cinquantenne un po’ troppo truccata ma inoffensiva e dalla faccia simpatica, ho sempre pensato che il modo in cui M. schiettamente la detestava avesse a che fare con la paura di invecchiare, con il terrore di perdere tempo prezioso che la circondava come una condanna.

Quando sono tornato in Italia per un po’ ho avuto l’allergia allo spagnolo.
Non leggevo più giornali on line come facevo prima per conoscere meglio la lingua argentina e capire la loro folle società.
Per un periodo sapevo tutto delle lotte all’interno dei radicali per decidere il candidato contrapposto alla Fernandez, di Cobos e di Moyano, un sindacalista imbroglione capo dei camionisti amato dalla loro sinistra populista e ignorante.
Però quando sono andato qualche settimana fa in Spagna e sono riuscito a parlare e farmi comprendere mi sono reso conto che era una cosa buona, mi faceva piacere perfino parlare con il loro accento, con il vos e con la doppia l che suona come una sc.
Bisogna sempre vedere il lato buono.




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