mercoledì 1 giugno 2011

Contro gli alberghi

Una volta una mia bisnonna, seduta sul sedile posteriore di un auto ferma in un ingorgo autostradale, disse con tono recriminatorio:
"Vabbuò, noi stiamo andando a trovare Antonio, ma tutti questi qua dove devono andare?"

La frase entrò nel patrimonio familiare, tramandata in tavolate estive nell'intervallo interminabile fra la frutta e l'ammazzacaffè.
E' la stessa domanda che mi sto facendo ora, seduto nella sala colazioni di un quattro stelle di Kaunas: attorno a me uomini soli, la cui natura mi sfugge.
Io sono qui perché ho perso l'ultimo autobus per Vilnius e sono stato costretto a prendere una stanza alle dieci di sera, ma il giovane giapponese con le cuffiette che mangia cereali e yogurt con aria distratta, e il tipo in giacca che sorride fra sé e sé mentre intinge il pane nella marmellata, dubbioso se andarsi a prendere un altro uovo, non riesco a capire che ci stiano a fare.
Se sono uomini d'affari non ne hanno affatto le sembianze, ma non sembrano nemmeno turisti e d'altronde non è una città e un periodo che si addice alla villeggiatura; lo stesso mi era accaduto anche a Sheffield, dove ero arrivato a novembre, direttamente da Buenos Aires, per partecipare a un festival: nei corridoi camminavano coppie anziane che non avevano nessun motivo valido per starsene lì, in una cittadina in mezzo all'Inghilterra senza alcuna attrattiva degna di nota.
Mi aspetto sempre di trovare degli alberghi vuoti e mi stupisco sempre quando mi accorgo che sono più pieni di quanto dovrebbero.

Sottofondo della nostra colazione da camere singole è la musica new age, quella che negli anni '90 si vendeva in compilation editate da una piccola casa discografica con sede in una cittadina brianzola; ora la ascolti solo negli hotel, esce dalla casse audio ben occultate, a volume basso per non disturbare la digestione degli avventori.
Musica campionata con insopportabili suoni della natura: versi di delfini e balene, scroscio di onde marine, vagiti di animali misteriosi, vento e temporali.
Qualcosa di simile l'ho ascoltato facendo meditazione di gruppo e l'idea che ci siano etichette che producano musica per meditare non mi è mai andata giù; forse è anche colpa di questa parodia di musica se sono spesso incapace di sperimentare il vuoto.
Qui seduto penso a tutti gli alberghi quattro stelle visitati da bambino nei viaggi con i miei genitori.
Quasi mai erano veramente di lusso, erano più che altro moderni in un modo che faceva tenerezza, puntavano in modo goffo al futuro: come il Club House di Rimini con le sue tapparelle elettriche e tutti quei tasti inutili che servivano ad aprire e chiudere cose, con il frigo bar sempre fornito di whisky e bottigliette di Coca Cola in vetro.
Agli occhi di un bambino, se consumavi le bibite del frigo bar significava che avevi raggiunto uno status molto prossimo a quello di una superstar.
Poi c'erano sempre asciugamani bianchi con il logo dell'albergo, quasi sempre un disegno che doveva comunicare un senso di nobiltà, spesso erano stemmi araldici poco verosimili; tutti gli alberghi cercavano di imitare i simboli inglesi, un po' come fanno ancora certi marchi d'abbigliamento per darsi un tono.
L'albergo quattro stelle contemporaneo, quando è ben progettato come questo, ha materiali e colori più caldi rispetto ai quattro stelle della mia infanzia: più legno e meno plastica, più colori primari e meno grigio argento.
Anche la prima colazione ora è un po' cambiata: ad esempio, causa ottimizzazione dei costi, il self service ha definitivamente soppiantato il servizio al tavolo; non passa più il cameriere a offrirti cappuccino e succo, gli hotel puntano su distributori di caffè annacquato e mi accorgo che perfino le cose da mangiare si assomigliano, come se esistesse un manuale della colazione internazionale per alberghi, adottato da ogni hotel con cambiamenti impercettibili.
La colazione in albergo non riserva più sorprese, almeno in alberghi di questo tipo.
La colazione che sto mangiando ora è in tutto e per tutto identica a quella che feci a Sheffield a inizio novembre: stesse scrambled eggs, stesse salsiccette rinsecchite, stessi cereali, perfino identici recipienti bianchi, di neutra eleganza.
Ero arrivato la notte prima, verso mezzanotte, dopo un viaggio intercontinentale con tre scali aerei e un trasferimento in autobus.
Nella camera tutto era troppo grande per un umano di media statura: il letto, la doccia con varie opzioni di scelta pressione acqua, lo specchio per radersi la barba.
Tutto mi faceva sentire solo, anche la finestra da cui potevo contemplare il raccordo autostradale.
E' perfettamente logico che l'albergo sia sempre collegato a scandali sessuali o a incontri di sesso nascosto, non è semplicemente una questione pratica o logistica.
Quando arrivi in un albergo, soprattutto se è notte, percepisci in modo acuto il senso della tua vulnerabilità, hai paura di morire, e quando hai paura di morire hai voglia di fare sesso, come un antidoto disperato e anche piuttosto vano ma inevitabile.


Per questo ogni hotel da un certo livello in su offre un pacchetto di canali con film porno di ogni genere.
I film porno sono il completamento perfetto dei dettagli di ogni camera, non mi immagino la trapuntina color cielo stellato e il comodino dal piano spazioso senza l'offerta dei film in pay per view.
ll porno è il palliativo in mancanza d'altro, il rifugio ultimo del viaggiatore solitario codardo e senza fantasia.
Quella sera a Sheffield ero steso sul letto e non riuscivo a dormire, ero distrutto dal viaggio ma vigile, in allarme.
M. era dall'altra parte dell'oceano ma non avrebbe capito se avessi tentato di spiegarle cosa provavo.
Tremavo in preda alle paure che provano gli uomini soli in una città sconosciuta e in un albergo confortevolmente gelido.
Mi masturbai senza bisogno di un porno.
Qualche mese dopo sarei stato steso in una camera d'albergo a Buenos Aires.
Era l'albergo in cui, scherzando, dicevamo che sarei andato a dormire per una notte se avessimo litigato e la casa ci sarebbe di colpo parsa troppo piccola.
Eravamo a trecento metri da casa sua, ma a separarci c'erano almeno tre oceani, non rispondeva nemmeno più al telefono.
Mi aveva lasciato le valige in reception, era stata meticolosa nel farle, ordinata come sempre, come le aveva fatte quando ero andato a Sheffield.
Le disordinai volutamente per vedere che effetto mi faceva, buttai le cose all'aria ma la camera non era un quattro stelle europeo, era un tre stelle argentino, tutto era troppo angusto: l'armadio, il lavandino, il letto, la doccia.
Uscivo e rientravo dalla camera in preda all'agitazione.
Pensai di incontrare una donna, ci rinunciai.
Non mi masturbai.
Non avevo paura di morire, in qualche modo ero già morto.





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