lunedì 6 giugno 2011

Contro due ingegneri

I due ingegneri erano aspiranti botanici amatoriali.
Leggevano tutti i cartellini identificativi con sopra i nomi latini delle piante, ne ricavano piccole lezioncine didattiche, cercavano di imparare con evidente sforzo.
Mi facevano venire in mente quei documentari di divulgazione scientifica che ho sempre detestato: i Quark di Piero Angela che la mia suora ci consigliava di vedere quando ero alle elementari.
In quei programmi le spiegazioni erano razionali e la scienza sembrava un totem conservatore e senza fantasia, forse anche per colpa loro ho iniziato ad appassionarmi esclusivamente di cose umanistiche tralasciando le scienze esatte.
Mio cugino agronomo conosce tutte le piante o quasi, e anche se parla in modo tecnico ci mette passione, così molti lo stanno ad ascoltare e magari imparano anche qualcosa.
Un mio amico utilizza la chimica per cucinare delle buonissime mousse molecolari di cioccolato e mandarino e cita formule fisiche nei suoi folli spettacoli teatrali.
Continuo a non capire nulla di fisica e chimica, però almeno con loro mi diverto.
Gli ingegneri invece erano solo pedanti, avevano bisogno di seguire un loro metodo, affrontavano la natura come un rompicapo da risolvere.

Erano due fratelli, uno con gli occhiali e uno senza, uno un po’ più alto e uno un po più in basso, chiamarli nerd sarebbe un’ imprecisione e un complimento;  entrambi lavoravano nel campo petrolifero perché la città da dove venivano, Rivadavia, è famosa per quello in Argentina.
Mi dicevano che era una città orrenda e non avevo dubbi, scherzavano sul loro posto di nascita con battute pretesche, avevano un modo di guardare le cose da scout invecchiati.
Camminavamo in una riserva naturale come ce ne sono a bizzeffe in qualunque parte del mondo: nulla di particolare, niente di maestoso.
Un laghetto più triste del solito con una passerella di legno, boschi che erano una pallida imitazione dei panorami alpestri; per arrivarci avevamo dovuto passare due ore in un pullman che viaggiava a velocità ridotta su un sentiero sterrato e avevamo perfino pagato un biglietto d’ingresso.
Loro pochi pesos, io cinque volte di più, la colpa di essere straniero che ti fanno sempre scontare.
In certi posti l’Argentina si crede meglio di come realmente è,  si dà delle arie.
Maledii fra me e me i loro eroi: quei padri della patria che mettono sulle banconote, quei colonizzatori contro cui aveva combattuto il mio Garibaldi, sostenitore dell’Uruguay.

Stavo viaggiando da una settimana senza trovare pace.
Ero più sereno solo nei trasferimenti  in pullman da un posto all’altro e restavo sempre molto deluso quando, a causa di coincidenze o contrattempi vari, dovevo stazionare per due notti da qualche parte.
All’inizio mi muovevo convinto che prima o poi avrei trovato una storia interessante, qualcuno come me, perso e perplesso in mezzo ad un viaggio non voluto, ma poi mi ero rassegnato al fatto che non avrei trovato nulla.

Ero arrivato all’ostello vicino alla riserva di prima mattina e avevo scambiato poche parole con i due ingegneri in cucina, non sapevo come occupare il tempo improvvisamente vuoto e allora avevo accettato senza riflettere l’invito di unirmi a loro per una escursione.
Erano curiosi dell’Italia e iniziarono subito a farmi domande stupide e vaghe.
Volevano conoscere la situazione con gli immigrati, sapere alcune ricette di cui avevano sentito parlare e il significato di  singole parole.
Uno dei due aveva una maglietta con sopra la bandiera croata, quando gliene chiesi la ragione mi rispose che ce l’aveva perché la sua famiglia era originaria di lì.
Pensai che tutti in Argentina sembrano attaccarsi al sangue europeo dei nonni come sanguisughe, sperando di ricavarne un passaporto utile per scopi futuri.
Ad esempio, i bisnonni di M. avevano lasciato l’Italia un secolo fa e lei su Twitter si definiva italo argentina, per aggiungere una nota di merito a prescindere.
I nostri figli voglio farli nascere in Italia mi diceva, quando iniziava a vaticinare il futuro in modo incosciente.
Pensavo a tutto questo mentre camminavo nella foresta addomesticata, vedere i due ingegneri estasiati per qualsiasi cespuglio mi faceva innervosire.
Tiravo fuori il mio sorriso d’emergenza migliore ma il mio sguardo doveva essere a tratti vuoto e anche loro dovevano essersene accorti, ogni tanto andavano leggermente avanti e mi lasciavano stare per qualche minuto.

Penso che dopo un paio di  ore di cammino rimpiansero di avermi portato con loro. Non ero l'italiano scherzoso con cui effettuare, ingegneri di quel tipo usano il verbo effettuare al posto del più comune fare, un interscambio culturale divertente.
Provarono a scherzare un paio di volte sulle disavventure amorose in genere, ma capirono dalla mia espressione che non era cosa. Dopo qualche ora raggiungemmo una tregua, eravamo stanchi e questo era un bene. Si parlava di meno e con pause più lunghe, la smisero finalmente di cercare di coinvolgermi in discussioni botaniche e la buttarono sul pratico: come tornare a casa prima facendo autostop, cosa mangiare la sera, coincidenze e orari per tornare verso valle.
La sera mangiammo assieme delle empanadas sulla terrazza esterna dell’ostello, parlarono di politica mostrandosi diffidenti e prudenti. Cercarono di spiegarmi la peculiarità della politica argentina: il peronismo e l’antiperonismo, la destra e la sinistra così confuse, ovviamente senza riuscirci.
Ormai sapevo come dovevo comportarmi con loro ed infatti non si staccarono più da me, in fondo erano scocciatori inoffensivi che mi avevano conosciuto nel peggior momento possibile. Il giorno dopo andammo assieme alla stazione degli autobus, ne prendemmo due che andavano in direzioni opposte.
Quando ci salutammo diedi loro anche il mio biglietto da visita, tornato in Italia trovai la  loro richiesta di aggiungermi a Facebook e una mail di poche righe in cui mi ricordavano quei due giorni passati assieme senza gioia.
Non ho mai risposto.

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