martedì 14 giugno 2011

Contro i movimenti

Sono venuto a vedere i festeggiamenti per la vittoria del referendum su acqua pubblica, nucleare e legittimo impedimento, senza aspettative, solo con la voglia di distrarmi per qualche ora.
Il posto già non mi piace: Bocca della Verità, ricordi di un primo incontro di quasi un anno fa ma non abbiate paura, non ci saranno altre citazioni sentimentali.
E poi è uno slargo, non una vera piazza, di fianco ci passano le auto, è facile da riempire ma malgrado questo ci si sta larghi, non c’è affatto ressa.
Saremo in cinquecento, ho appuntamento con altre persone, ci troviamo senza alcuna difficoltà.
Un tizio con l’organetto parla di Val di Susa e Tav, ha un forte accento piemontese, la barbetta e il sorriso stampato sul volto, inizia a cantare canzoni partigiane: Bella ciao e Fischia il vento.
Tutto bene ma è dura sopportare ancora la gente che alza comunque e sempre il pugno sinistro, e sorridere senza convinzione a ragazzi che ti regalano cartoline con slogan del Che.
E’ dura sopportare l’ennesimo tipo con l’organetto.
Parte la musica balcaneggiante, poi si passa all’etnico, quindi tamburi in stile brasiliano, la solita solfa musicale, temo da un momento all’altro la pizzica, arriva l’hip-hop.
Va a cantare Piotta, rapper romano in declino da anni, dedica una sua vecchia canzone dal titolo L’onda a un movimento studentesco dell’anno scorso che si chiamava così, il brano ovviamente non ha alcun nesso con la protesta nelle scuole; ogni cantante si autopromuove come può.
Un rapper più giovane si butta in un free style, ma fatica a trovare le rime e quelle che trova sono piatte, poco incisive; cita la Palestina e altre questioni, va fuori tema, si fa confusione come al solito.
“Ora ci riprendiamo Roma e tutto quello che ci hanno tolto” grida un tipo alto, con la barba, spalle larghe e un po’ di pancia, sui trent’anni, aria da ex rugbista.
Sale una ragazza sul palco in rappresentanza di un’ associazione di femministe lesbiche e comincia a divagare di diritti delle donne, poi polemizza con un rapper perché prima ha usato la parola troia; fa ancora più confusione.
Non capisco quale sia il punto, ma il peggio è ancora lontano dal venire.
Al lato del piccolo palco c’è un maxi schermo su cui trasmettono la diretta sul post-referendum di Raitre, senza audio.
Ogni tanto inquadrano la piazza come copertura ma in studio discutono i soliti politici di maggioranza e opposizione, fra i quali c’è Bersani.
Interrompono di colpo la musica appena decente che stava mixando un dj, il tizio con la barba assume il tono da centro sociale, attacca tutti: insulta Bersani,  ma poi passa a tutti gli altri, compreso Santoro, dice “questo non ci rappresenta, quest’ altro non ci rappresenta”, non capisco a nome di chi parli.
Chiede che sia data voce alla piazza.
Usa i soliti argomenti da demagogo, ignora che non si può dare la voce a una piazza: è contro le leggi dell’acustica.
In realtà è arrabbiato perché vuole lui la parola: è uno dei comitati referendari, uno dei tanti, ma si capisce chiaramente che si sente defraudato, pensava di aver vinto, che il suo ego dovesse avere una ricompensa ed invece nulla, nessuno gli dà voce, nemmeno il Tg3 o Rainews 24.

Davanti a me ci sono quattro ragazze ventenni, sono tutte e quattro belle, inizio a prendermela contro il tipo dicendo che solo un coglione può dire cose del genere, poi cerco di giustificare il mio disappunto con argomenti sensati, le ragazze sono d’accordo.
Attorno a me alcuni sono sorpresi dal mio scatto, mi guardano un po’ male ma vigliaccamente non rispondono.
La piazza è tiepida, il tipo si scalda ancora di più, se la prende con Bianca Berlinguer che non lo fa intervenire, chiede un boicottaggio, si arrischia a ipotizzare futuri misteriosi referendum sui mezzi di comunicazione di massa.
Dice abbiamo vinto noi, noi siamo il 57 per cento, mentre la piazza resta mezza vuota e non è nemmeno tutta dalla sua parte.
Dietro di me c’è un signore sui sessant’anni con l’aria compunta dell’elettore democratico, è perplesso mentre il tipo chiede, in imperativo, alla gente di sedersi e poi di dare le spalle alle telecamere per protesta.
Quindi sostiene che la piazza, ormai diventata la sua piazza, non è a disposizione di nessuno.

Molti si siedono ma pensando a tutt’altro, uno davanti a me ad esempio ha puntato una ragazza con i capelli lisci e sottili, aveva provato già a ballare con lei, lei gli aveva sorriso, forse ci stava.
Un altro aveva fatto scivolare nelle mani di una ragazza un bigliettino con il suo numero di telefono scritto in pennarello rosso, le aveva sussurrato una frase all'orecchio, certamente le avrà detto qualcosa su come era rimasto colpito dal suo modo di muoversi o di essere.
Nelle prime fila qualche idiota si vede inquadrato e saluta casa come si faceva negli anni ’80, quando la gente ancora temeva e agognava la tv.
Se il tizio vuole dare l’idea di una piazza battagliera e antagonista, mi sa che è fuori strada.
Me la prendo con il coglione battendogli le mani ironicamente, sono pronto a salire sul palco e a dargli una lezione.
Una delle ventenni meravigliose comincia a fischiarlo, la cosa mi gratifica.
Forse il tipo ha bevuto, forse è un megalomane, forse è stato picchiato da bambino e ora si sta vendicando.
I suoi compagni del comitato lo sostengono gridando slogan in coro come fanno gli ultras, hanno Peroni da 66 in mano, sono aggressivi, hanno facce che mi spaventano, non sanno nemmeno godersi la vittoria.

Le splendide ventenni vogliono ballare e si lamentano, erano venute qui, ognuna con la loro immatura ma sana opinione politica, per festeggiare.
Le guardavo con diffidenza all’inizio, troppo perso nei fatti miei per unirmi alla festa, ora invece mi sembrano nel giusto.
Sono disposto a tutto, anche a ballare lo ska, se qualcuno blocca quel coglione e gli ricorda che non ha vinto un cavolo, che nessuno vince mai da solo, che l’Italia non è un paese, per fortuna, a sua immagine e somiglianza.
Ora mi sembra pure di riconoscerlo il tizio, mi sembra lo stesso che in un centro sociale chiedeva per tutti i compagni il lavoro, e poi la casa, e poi i soldi, voleva tutto e subito.
Magari gli assomiglia soltanto.
Mi ricordo che una volta volevo entrare nel collettivo politico della mia università, mi comprai un orrendo poncho messicano e una borsa etnica,  ma non riuscii mai davvero a convincerli di essere uno di loro.
Forse semplicemente non lo ero, anche se avevo voglia di esserlo perché in fondo li c’era della figa più vicina alle mie aspirazioni adolescenziali, ai film visti, all’immaginario di cui mi ero abbuffato a piene mani negli anni precedenti.
La prima volta che partecipai a un loro incontro mi fecero sentire fuori posto dopo nemmeno cinque minuti, più che un gruppo era un’accozzaglia di individualità superegocentriche ed io, che ero egocentrico ma timido, decisi di non ritornarci più.

Ogni tanto ancora mi viene la tentazione di entrare in qualche gruppo con obiettivi sociali e politici, ma ogni volta che mi avvicino scappo.
Ho sempre la mail piena di newsgroups con intenzioni molto serie, non le leggo mai.
La serata continua così, fra intermezzi di musica varia e trascurabile, e interventi vocali inappropriati del tizio ormai fuori controllo.
Ce ne andiamo senza sapere come è andata la controversia, se il tipo ha avuto diritto di parola.
Più tardi saprò che alla fine l’hanno intervistato e lui, che sembrava reduce da dieci birre forti, biascicava esprimendo sempre un unico elementare concetto.
Abbiamo vinto noi e non i partiti, ha vinto la piazza, siamo noi la piazza.
Era ubriaco di se stesso, conosco bene la sensazione che si prova, ma almeno io cerco di non fare danni, al massimo scrivo.




1 commento:

  1. Se ti presenti col poncho ti fo entrare nel mio collettivo!!!
    L.

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