lunedì 30 maggio 2011

Contro i palloni di cuoio


I miei eroi facevano acrobazie incredibili: palleggiavano con destrezza, stoppavano al volo, calciavano con una coordinazione straordinaria.
Avevo nove, dieci anni e queste acrobazie le facevano dei miei coetanei in cortili di forma irregolare, con un pallone rosso arancione di gomma dura.
Quando gli stessi giocatori bambini si trovavano su un campo di terra battuta dalle dimensioni rettangolari, con le scarpette ai piedi e un pallone di cuoio vero da calciare, non erano più loro, inciampavano sul pallone; niente più andava allo stesso modo.
La differenza era nel tipo di pallone: era un problema di leggerezza, di traiettoria.
I miei eroi erano campioni da Super Santos.
Di Super Santos però non ce n’era uno, non è mica così facile; quello fabbricato dalla Mondo, quello ufficiale, lo trovavi nei negozi di giocattoli in città, al mare spesso dovevi accontentarti di una imitazione.
Ti accorgevi che non era l’originale dalla stampa del marchio sbiadita, sfocata, dalle cuciture imprecise, dalle imperfezioni vistose.
Almeno era quello che pensavamo all’epoca, perché non ci sono conferme delle contraffazioni da parte di nessuno.
D’altronde quando l’imitazione non riguarda borsette di lusso e vestiti di marchi celebri, passa sotto silenzio e in fondo nessuno potrebbe stimare in modo preciso quanti Super Santos si vendessero all’epoca in prossimità delle spiagge italiane, sbaglierebbe certamente per difetto.


Il Super Santos lo trovavi dentro retine di plastica colorate.
Per sceglierlo ci voleva tempo, dovevi tastarli, osservarli da vicino, evitare quelli che avevano una forma da sfera allungata, in linguaggio tecnico ovalizzati, in dialetto napoletano semplicemente a cuzzutrumbolo, e poi c’era un segreto: il Super Santos migliorava invecchiando.

Si perfezionava man mano che lo usavi, almeno fin quando non si bucava.
Per bucarlo non ci voleva un chiodo appuntito, non è mica come stare in un cartone animato; bastava un ramo acuminato, un coccio di bottiglia, una pietra tagliente.
C’era solo una soluzione in quel caso: fare una pezza di plastica a caldo; si passava un coltello riscaldato sul pallone e poi si metteva la pezza sul punto in cui c’era la bucatura ma era una cosa complicata, da fare al volo.
In alcuni casi la rianimazione non andava a buon fine e  l’unica soluzione era comprarne un altro ed a volte capitava che si faceva tardi ed eri costretto a rimediare con un Super Tele.
Il Super Tele era leggero, leggerissimo, di materiale plastico in vari colori e dallo spessore impalpabile, era un pallone da femminucce.
Solitamente venduto dai tabaccai e dai negozi di giocattoli di second’ordine, il suo nome composto sembrava quasi prevedere quello che sarebbe avvenuto in seguito: la televisione che ingurgita il calcio.

Il Super Tele andava bene per farlo volteggiare in aria in una parodia di pallavolo o per usarlo in acqua in una strana pallanuoto da mare in cui potevi anche non nuotare, ma per giocarci a pallone dovevi essere davvero disperato.

La Mondo realizzava anche altri palloni: il più famoso era il Tango, prodotto  su licenza della Adidas. Il Tango era la versione economica del pallone ufficiale del mondiale di Argentina ’78.
Se il Super Santos era il pallone allo stesso tempo proletario e borghese, interclassista per eccellenza, il Tango era una chimera, un desiderio poche volte soddisfatto, un oggetto snob.
Era di gomma ma fingeva di essere di cuoio, era duro, anche troppo, era un pallone raffinato. Costava tre volte il Super Santos ed era una sofferenza vederlo schiacciato da una 128 qualsiasi.
Le partite giocate con il Super Santos erano più spettacolari perché più imprevedibili, il pallone prendeva effetti strabilianti e poi andava bene su qualsiasi superficie, anche se dava il suo meglio sull’asfalto sbrecciato e sulla spiaggia al tramonto.

In varie parti d’Italia ci furono palloni concorrenti come l’Elite e il San Siro ma già i nomi li connotano come sottoprodotti di nicchia, che non potevano scalfire il duopolio Tango - Super Santos.
D’altronde in quegli anni non c’era l’offerta sterminata di prodotti di cui il mercato ha bisogno per alimentarsi, le scelte erano più facili e immediate.
Coca Cola o Pepsi? Brooklyn o Big Babol? E così via.
Super Santos deve il suo nome, anche se perfino su questo mancano risposte certe, alla squadra in cui Pelè ha militato per quasi tutta la carriera: il grande Santos di Pelè, calciatore per noi già lontano, mai visto davvero giocare, eccetto che nella sua comparsata in Fuga per la Vittoria, ma ancora presente nella memoria dei più grandi, dei padri e degli zii.
D’altronde negli anni ’80 il Brasile era ancora il centro del calcio mondiale.
Tutti i campioni più forti venivano da lì: Zico, Falcao, Cerezo, Junior, Socrates.
Tutti sognavano di avere un brasiliano nella squadra del cuore, bastava pronunciarne il nome per immaginarsi sfracelli, anche se a volte dovevi accontentarti di un Pedrinho o un Luvanor qualsiasi.
Le partite del calcio brasiliano, con l’erba altissima che rendeva lenti i passaggi, le trasmettevano certe tv locali e la gente le guardava con ammirazione, altro che Premier League e Liga.
Il calcio era lentissimo e affascinante, c’erano lunghissimi passaggi al portiere che accarezzava il pallone fra le mani per un tempo interminabile se la sua squadra era in vantaggio, e poi la rilanciava quasi controvoglia.

Se rivedi in tv Italia-Brasile del 1982 puoi sorprenderti ad ammirare il pallone rotolare pian piano in mezzo al campo.
Un pallone pigro perfettamente sintonizzato con il caldo estivo in cui si giocavano i Mondiali, ritmi ancora immuni dal pressing a tutto campo che ora ti ritrovi anche a luglio inoltrato.

Il calcio è proprio cambiato e di Super Santos, Super Tele e delle loro innumerevoli contraffazioni, ai giorni nostri, se ne vedono davvero pochi in giro.
“I bambini non giocano nei cortili” direbbe qualche osservatore con un approccio sociologico e quando giocano vogliono qualcosa che ricordi il calcio che si vede in tv: palloni bianconeri, di simil-cuoio, fin dalla più tenera età.
Oppure palloni con i colori delle squadre più famose, con milioni di tifosi, che si possono permettere un merchandise su larga scala.
Palloni così belli non si vedevano certo per le strade negli anni ’80: erano palloni da calcio a 11, da settore giovanile, da aspiranti professionisti.

Io mi ricordo che sul Super Santos la gente dipingeva delle cose, usava dei pennarelli neri per fare strani geroglifici, scrivere frasi misteriose, mandare messaggi cifrati.
Sullo sfondo rosso arancione si stagliavano dichiarazioni d’amore e di odio, passioni politiche e gusti musicali, a volte semplicemente uno ci scriveva il suo nome per non farselo rubare quando lo portava in classe per l’ora di educazione fisica.
Anche se spesso il Super Santos era una proprietà collettiva, acquistato con collette faticosamente raccolte, era di un gruppo più che del singolo e tutti avevano il diritto di marchiarlo con un proprio segno distintivo.
Di sicuro trovare un Super Santos immacolato era cosa rara, invece non era difficile vedere Super Santos sgonfi e ormai inservibili, esausti per sempre.
E non c’era nulla di più triste di un Super Santos abbandonato ai margini di una strada, bucato, con le scritte raggrinzite, invecchiato senza più la speranza di essere preso a calci.

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