giovedì 19 maggio 2011

Contro i distinti (dello stadio)

Ero in auto, nella 126 di mio padre, la minuscola radiolina era sintonizzata sulle emittenti locali che trasmettevano jingle pubblicitari con i brani pop degli anni ’80.
Sade, Mike Francis e gli Spandau Ballet servivano per promuovere carrozzerie,  supermercati e colorifici.
Un mio cugino aveva inaugurato una palestra ed era molto orgoglioso del suo spot radiofonico; aveva scelto, come sottofondo, l’intro strumentale di Friends cantata da Ami Stewart.
Il ritornello diceva Take me to the top.
Negli anni ‘80 era frequente ascoltare la parola top, non solo nel senso di model.
La tastiera Roland, la musica da piano bar e la magrezza della cantante suggerivano che ci fosse una cima, economica e sociale, da raggiungere.
Il successo mondano era legato all’ amore fin dal principio, in modo brutalmente onesto.
Il funky degli Eight Wind and Fire era usato in occasione delle radiocronache in trasferta.
Serviva uno stacco strumentale per riempire i lunghi minuti in cui i conduttori non sapevano cosa dire, o erano in attesa dei risultati dagli altri campi; ora tutte le radio, perfino quelle più scalcagnate, sono un flusso continuo di brani e chiacchiere insignificanti.

La squadra di calcio della mia città era in serie B,  detto ora non fa lo stesso effetto; allora non c’erano mica tutte le partite in televisione.
A scuola la nostra suora aveva sulla cattedra il portapenne con i colori sociali, sopra c’era scritta la classifica alla fine del girone d’andata: la Cavese era terza, virtualmente promossa in serie A. Era un gadget realizzato a campionato in corso, un gadget provvisorio, catturava per sempre il momento felice, come fanno le foto; alla fine del campionato saremmo finiti sesti.
Di sabato pomeriggio andavo dal barbiere e la nostra squadra di calcio era l’unico argomento di discussione dei clienti, quella sensazione da vigilia costante del grande evento non si ripeterà più.
Nella mia vita sono stato in tutti i settori del mio stadio, eccetto la curva degli ospiti.
Andavo a vedere le partite in tribuna coperta con mio padre, circondato da politici locali,  assessori e consiglieri comunali: medici, avvocati e commercialisti che si facevano saltare i nervi per un fuorigioco.
Comunisti e democristiani si dividevano equamente i seggolini rossi della tribuna coperta, che non aveva nulla di vip.

Quando avevo dieci anni passai da quella coperta a quella scoperta, lì la visione del terreno di gioco era ostruita dalla cancellata verde; se capitavi sulle prime gradinate, però, sentivi bene il rumore del pallone.
Quindi, per qualche anno, andai in curva, però non sono mai stato un ultras.
Non comprendevo il loro arnamentario esistenziale: strano miscuglio di machismo, odio verso i celerini, simboli politici e musicali (fascio, Guevara e Bob Marley su tutti). Stavo in una posizione decentrata, pencolante verso la tribuna.
Successivamente, andato via dalla mia città, sono diventato un tifoso occasionale e discontinuo, e ho iniziato a frequentare il settore distinti.

I distinti sono la tribuna opposta alla tribuna, non saprei definirli in altro modo, sono una tribuna con il biglietto a prezzo inferiore.
Non c’è una motivazione plausibile per la differenza di prezzo, è puro classismo. Se hai più soldi, o più ambizioni sociali, vai in tribuna, altrimenti ti accontenti dei distinti.
In ogni caso, anche il termine distinti è avvolto nel mistero più assoluto dato che associa una parola evocante grazia e nobiltà d’animo al peggiore settore dello stadio.
La curva è tumultuosa, potenzialmente pericolosa, fanatica e faziosa, ma è anche ottimista e fiduciosa, mentre i distinti rappresenta (o rappresentano? Creano perfino problemi di coniugazione) i peggiori vizi del cittadino medio.
È un luogo scettico, cinico e diffidente.
Ho visto gente criticare la sua squadra dopo dieci secondi dall’entrata in campo, non essere mai contenta della disposizione tattica o delle scelte dei singoli calciatori; ho ascoltato le più ardite fantasie su torti arbitrali e incompetenze dell’allenatore o dei dirigenti.

A differenza della tribuna, dove chi ha pagato qualcosa in più non se la sente di  deprecare a cuor leggero lo spettacolo, qui tutti i risentimenti e le frustrazioni della settimana lavorativa hanno libero sfogo.
La gente si sente in dovere di commentare a voce alta le azioni, di dirigere i piedi dei giocatori, di discutere con il proprio vicino, cercando rassicurazioni al proprio ego scosso da motivi extra calcistici.
Tutti hanno diritto di parola, trionfa una democrazia meschina da Processo di Biscardi, la stessa che fa telefonare alle radio per fare osservazioni campate in aria.
La mia squadra di calcio è retrocessa qualche giorno fa, ora è in Seconda divisione Lega pro, anche il nome della categoria è diventato gelido, prima si chiamava C2, poteva sembrare umiliante ma era un nome più consono a un campionato.
Non oso immaginare come l’abbia presa il pubblico dei distinti.
Da parte mia, anche se vi sembrerà assurdo, posso assicurarvi che in tanti anni di frequentazione saltuaria non ho quasi mai criticato qualcosa o qualcuno.
Anche il critico, ogni tanto, sa farsi da parte.



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