venerdì 27 maggio 2011

Contro le fotocamere digitali

Le fotocamere digitali hanno permesso a tutti di diventare fotografi.
Non è difficile, con una buona camera, ottenere delle belle foto.
Una conoscenza sufficiente di Photoshop e dei programmi di ritocco fotografico permette, in seguito, di tarare al meglio contrasti e colori.
Il digitale trasforma tutti in giapponesi: la gente fotografa tutto e tutti senza ritegno.

Ai tempi del rullino le foto erano limitate e, come ogni bene, la scarsità ne incrementava il valore: non tutte le foto scattate avevano il diritto di essere mostrate dopo lo sviluppo.
Ora invece si fotografa ovunque, dovunque ti giri ci sono camere e zainetti con obiettivi, ragazze di vent’anni se le portano dietro in gita, al parco, nelle piazze cittadine, in feste private.

Tutte queste foto di primi piani e espressioni studiate, tutte queste istantanee di viaggio finiscono negli album di Facebook.
La gente guarda le foto, clicca mi piace e poi se ne dimentica.
Quasi mai le stampa, spesso si accumulano nel computer e si rimanda sempre il tempo in cui potranno essere stampate e quando quel momento arriva ormai è troppo tardi.
Il tuo amore non c’è più, il tuo viaggio non può essere resuscitato, non hai più voglia di stampare il tuo passato.

Così le sue foto sul mio computer restano dove stanno e, prima o poi, spariranno quando il mio hard disk sarà costretto a una violenta formattazione.
Molte nemmeno le ho, me le mandò solo in bassa definizione, i pixel sgranati non rendono merito ai nostri sorrisi.
Una volta in auto scherzavamo sulle foto di matrimonio, trovavamo banale che tutti vogliano scattarsi le foto nei soliti posti, sarebbe il caso di fotografarsi nei posti dove ti sei conosciuto.
Ci mettemmo ad elencare i posti dove avremmo potuto farle: il chiosco del bengalese; il ragazzo del negozio di abbigliamento che ci aveva ammutoliti, chiedendoci quando ci sposavamo; il piccolo ristorante dove l’avevo portata a cena; la gelateria dove avevamo passato seduti ore senza accorgercene; il suo albergo sull’Aurelia.
Mi ricordai del gioco e le regalai un album con tutte le foto dei posti, vuoti senza di lei; non era una buona idea.
Quell’album me lo restituì, prima di andarmene l’ho lasciato davanti al suo portone; di sicuro qualcuno se l’è preso, avrà buttato le foto.

Gainsbourg parlava, in una canzone, delle foto scattate in Asia a duecento Asa; quelle foto sicuramente erano in un album da qualche parte, quell’album si sfogliava nei momenti di felicità, si teneva nascosto quando un amore finiva, si risfogliava presi dalla nostalgia o magari le foto finivano strappate per la rabbia, bruciate in un atto liberatorio.
Bisognerebbe sempre avere delle foto da bruciare, da conservare o nascondere in qualche cassetto.

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