venerdì 13 maggio 2011

Contro il certificato di nascita


Pioveva a dirotto mentre cercavo di orientarmi nella mia città natale.
Non la conoscevo per niente, ma non perché sia stato strappato dalle mie radici ancora in culla o perché sia una specie di apolide.
Semplicemente perché ci sono nato per caso. 
La mia vera città di origine è a dieci chilometri di distanza.
Vivo a Roma, sono di Cava de Tirreni ma sono nato a Pagani, provincia di Salerno.
Sono nato lì solo perché mio padre conosceva qualcuno all’ospedale e perché il reparto di ostetricia aveva una buona fama.
Non ho parenti là, nessun tipo di legame; non è nemmeno un posto dove i cavesi abitualmente vanno.
Quelli di Cava vanno, di solito, a Salerno, o d’estate in costiera; se devono proprio allungarsi vanno direttamente a Napoli che dista una cinquantina di chilometri.
Eppure la città natale è importante, è presente in tutti i documenti, l’ho scritta mille e mille volte: per compilare moduli, per pagare biglietti aerei e libri, per farmi le tessere che mi straripano dal portafogli.
È parte di me, più di quanto sono disposto ad ammettere.
Insomma, Pagani per me è soltanto una parola, non essendo legata alla conoscenza di una città concreta con la sua topografia, i suoi palazzi, la sua gente.

Andai a Pagani perché dovevo fare una cosa burocratica, mi serviva un certificato di nascita.
L’anagrafe era in una via che ha cambiato nome di recente e così feci una fatica aggiuntiva a trovarla, il mio detestato ombrello mi salvò dalla grandine che cadeva in un giorno di inizio dicembre.
L’anagrafe era in un edificio giallo che sembrava una scuola post-terremoto, la stanza della mia pratica era al secondo piano.
Non c’era nessuno dentro, eccetto una signora seduta senza dare l’idea di annoiarsi particolarmente.
La signora dell’anagrafe mi chiese dove dovevo andare, risposi Argentina, mi chiese quando ero nato, le dissi 1976, allora prese un librone giallo da uno scaffale. 
C’era scritto sopra, a penna, 1976.
Sarebbe bello dire che era polveroso ma non lo era; era tenuto bene, era soltanto vecchio.
Mi chiese il mese e il giorno, sfogliava la carta ingiallita con tatto, è proprio un'impiegata simpatica pensai.
Poi disse ecco 17 marzo Salvatore Cammarano e Angela Senatore dichiarano alle ore...
Tutto scritto in inchiostro blu stinto e sotto la firma di mio padre.
Mi copiò il certificato battendo i tasti del computer, poi mi diede la stampata; fu molto rapida, troppo rapida, avrei voluto che indugiasse un poco sul librone o che ricopiasse tutto a penna.
Avrei voluto che fosse un indolente burocrate e tutto fosse molto complicato, macchinoso, invece due minuti e finì tutto.
Nessuna fila, nessuna complicazione, niente di niente.
Mi consegnò la  stampata con un sorriso, augurandomi buona fortuna come se fossi diventato una specie di nuovo emigrante, quasi mi convinsi di esserlo.
Mi raccomandò, prima di andar via, di non dimenticare di fargli apporre l’apostille.
Le dissi sorridendo lo so che mi serve l’apostille, una parola nuova che avevo imparato da poco, si tratta di una specie di timbro di conferma del tribunale, una cosa che non sto qui a spiegarvi, un’altra scocciatura burocratica.

Uscii dalla camera lentamente con il foglio in mano e lo misi in borsa con attenzione per non farlo bagnare.
Sbirciai dalla porta semi aperta l’impiegata efficiente che metteva a posto il librone, in perfetto ordine, fra il 1975 e il 1977.
Ora avevo esaudito tutte le sue richieste: patente internazionale, certificato del casellario giudiziale, certificato di nascita, certificato di laurea.

Ero per strada, nella mia sconosciuta città natale, e continuavo a pensare a quel librone.
Pensavo anche a qualcosa successa la sera prima. 
La mia migliore amica aveva pianto, all’improvviso, in un ristorante affollato dicendo che se ne andavano tutti, che sarebbe rimasta sola.
Il cameriere le aveva portato un fazzoletto per asciugarsi le lacrime, portava dei baffoni risorgimentali e aveva uno splendido modo di fare.
Aveva detto una frase che mi aveva riconciliato con i camerieri romani, e quindi con l’Italia.

Quando provavo a spiegare a M., per telefono, cosa significava partire e cosa significava vedere quell’inchiostro blu vecchio di 35 anni, non capiva.
Non avrei mai potuto dirle che sotto la pioggia della mia città natale mi sentivo uno straniero e quasi mi veniva voglia di piangere.

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